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Esercizi di stile - Queneau, 98. Prezioso

98. Prezioso

Era il trionfo del demone meridiano. Il sole accarezzava con accecante virilità le opime mammelle dell'orizzonte ambrato. L' asfalto palpitava goloso esalando gli acri incensi del suo canceroso catrame roso da rosate lepre. Carro falcato, cocchio regale, gravido di enigmatica e sibilante impresa, l'automotore ruggì a raccoglier messe umana molle di molli afrorí, dissolta in esangui foschie al parco che tu dici Monceau, o Ermione. Sulla lucida piattaforma di quella macchina da guerra della gallica audacia, ove la folla s'inebria di amebiche voluttà, un efebo, di poco avanti alla stagione che ci fa mesti, con una calotta fenicia onusta di serpenti, la voce esile dal sapor di genziana, alto levò un clamore, e l'amarezza dei suoi lombi espanse, e de' suoi calzari feriti da un barbaro, da un oplite ferigno, da un silvestre peltasta.

Poscia, anelante e madido, cercò riposo, esangue di deliquio.

Di poco la clessidra avea sbavato i suoi rugosi umori e ancora il vidi, alla Corte di Roma, astato come bronzo, con un sodale dal volto d'Erma e senza cigli, androgino Alcibiade che il petto gli indicava, il dito come strale, l'ugne tese a ferire. E con voce d'opale, di un bottone diceva, e di sua ascesa, a illeggiadrir la taglia, e a tener la rugiada umida lungi.

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98. Prezioso

Era il trionfo del demone meridiano. Il sole accarezzava con accecante virilità le opime mammelle dell'orizzonte ambrato. L' asfalto palpitava goloso esalando gli acri incensi del suo canceroso catrame roso da rosate lepre. Carro falcato, cocchio regale, gravido di enigmatica e sibilante impresa, l'automotore ruggì a raccoglier messe umana molle di molli afrorí, dissolta in esangui foschie al parco che tu dici Monceau, o Ermione. Sulla lucida piattaforma di quella macchina da guerra della gallica audacia, ove la folla s'inebria di amebiche voluttà, un efebo, di poco avanti alla stagione che ci fa mesti, con una calotta fenicia onusta di serpenti, la voce esile dal sapor di genziana, alto levò un clamore, e l'amarezza dei suoi lombi espanse, e de' suoi calzari feriti da un barbaro, da un oplite ferigno, da un silvestre peltasta.

Poscia, anelante e madido, cercò riposo, esangue di deliquio.

Di poco la clessidra avea sbavato i suoi rugosi umori e ancora il vidi, alla Corte di Roma, astato come bronzo, con un sodale dal volto d'Erma e senza cigli, androgino Alcibiade che il petto gli indicava, il dito come strale, l'ugne tese a ferire. E con voce d'opale, di un bottone diceva, e di sua ascesa, a illeggiadrir la taglia, e a tener la rugiada umida lungi.