#105 – Il rugby e l'Italia, un amore a metà
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 25 marzo 2023.
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Palla, pallone, pallina.
Tutte parole semplici, che sicuramente hai imparato agli inizi del tuo percorso con l'italiano. E se lo parli in famiglia, o da sempre, probabilmente nemmeno ricordi quando sono entrate nel tuo vocabolario.
Cos'hanno in comune? Indicano oggetti di forma sferica, capaci di rotolare e di rimbalzare, fatti per essere colpiti.
Sono alla base di molti sport. Il calcio, la pallacanestro, la pallavolo, il tennis esistono perché esiste una palla più o meno grande da colpire. Con le mani, con i piedi, con uno strumento apposito.
Ma siamo così sicuri che la palla sia sempre sferica?
C'è uno sport che si gioca con una palla di forma non sferica, ma ovale.
È uno sport che è nato in Inghilterra e che poi si è evoluto in America, cambiando un po' le sue regole.
Nonostante si giochi con le mani e con i piedi, gli americani hanno deciso di chiamarlo football. Non senza un po' di ironia verso quello che i britannici avevano chiamato football e che in Italia abbiamo imparato ad amare come calcio.
E se il football, per gli anglofoni europei, è quello che si gioca esclusivamente con i piedi e usando un pallone rotondo, quell'altro che cos'è?
È il rugby. Lo sport che prende il nome dalla città dov'è nato. Quella cittadina dell'Inghilterra dove, secondo la leggenda, un giorno un ragazzo durante una partita di calcio, decise di prendere il pallone con le mani. Violando le regole, ma allo stesso tempo inventando un nuovo sport.
Dalla contea di Warwikshire, il rugby si è diffuso in tutta Inghilterra, poi in tutto il Regno Unito ed è arrivato anche oltremanica. Italia compresa.
La palla ovale ha uno status un po' speciale nel mondo dello sport italiano. Bloccato in un limbo tra alto livello e mediocrità. Per problemi propri, interni, e per la cultura sportiva di un Paese che ama di vero amore solo i palloni rotondi.
Oggi parliamo del rugby in Italia, un amore a metà.
La storia d'amore tra l'Italia e il rugby è antica, praticamente quasi quanto quella con il calcio. E anche molto molto simile per quanto riguarda le origini.
Se ricordate un vecchio episodio di questo podcast, forse vi tornerà alla mente che i primi a giocare a calcio sul territorio italiano sono stati dei marinai inglesi nel porto di Genova.
Da lì, la passione per il calcio si è diffusa a macchia d'olio.
Anche il rugby sembra che sia arrivato a bordo delle navi inglesi e che sia sbarcato in Italia proprio nel porto di Genova.
Le similitudini finiscono qui. Oggi tra i due sport non c'è paragone per quanto riguarda il numero di praticanti, i risultati internazionali o anche solo la passione che riescono ad accendere nelle persone.
Il primo campionato nazionale di rugby è soltanto del 1929, partecipano solo sei squadre e sono ovviamente tutti amatori.
Non è facile per il rugby crescere. Le nazioni veramente forti sono quelle britanniche, che però in quel periodo snobbano il resto d'Europa.
Per il momento, l'Italia della palla ovale deve accontentarsi del confronto con squadre francesi, rumene, spagnole, tedesche. Che sono un po' tutte sulla stessa barca, senza grandi maestri né una grande tradizione da cui attingere.
Tra gli anni '30 e gli anni '50, il rugby rimane in ombra. C'è la guerra e poi la ricostruzione, e la gente ha decisamente altro a cui pensare.
Non ci si dimentica dello sport in toto, per la verità. Le discipline veramente popolari, cioè il calcio e il ciclismo, come sappiamo, si rimettono presto in carreggiata. Il rugby deve aspettare, paziente, il suo turno.
Un turno che arriva lentamente, mentre l'Italia rinasce, cresce e cerca una sua stabilità.
Se segui gli episodi della serie Storia di Salvatore racconta saprai che negli anni '70 di stabilità ce n'era poca in Italia. Omicidi, terrorismo, colpi di Stato. Eppure, è in quegli anni che il rugby italiano alza i giri del motore e si avvicina al livello dei grandi.
Dalla fine della guerra, le gerarchie del rugby sono già abbastanza chiare. A dominare ci sono le nazioni fondatrici, Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda, e assieme a loro le ex-colonie britanniche dell'emisfero australe, che sono entrate dalla porta di servizio ma poi hanno occupato i posti migliori. In particolare, il Sudafrica, l'Australia, l'Argentina e soprattutto la Nuova Zelanda.
Persino le persone più digiune di rugby sapranno che la nazionale neozelandese nel mondo della palla ovale è un mito eterno. In un certo senso, gli all-blacks sono la squadra di rugby per eccellenza.
Bene, capita che nel 1977 la Nuova Zelanda stia organizzando una tournée in Europa. In particolare, vengono per sfidare la Francia. Ma insomma, arrivare fino dall'altra parte del mondo solo per giocare una partita non ha molto senso. Meglio organizzarne un'altra, anche non ufficiale. E la federazione neozelandese pensa all'Italia.
Perché proprio all'Italia? Perché all'epoca è in una situazione curiosa. Il mondo del rugby è spaccato in due, con 8 o 9 nazioni nettamente superiori rispetto al resto del mondo, l'Italia è lì, un po' in mezzo. È molto più debole delle grandi potenze, ma è più forte del resto delle altre. Francia esclusa.
E quindi, per i neozelandesi, è un ottimo banco di prova prima di sfidare i francesi.
Quando la federazione italiana riceve la proposta, i dirigenti non sanno bene come reagire.
L'Italia viene da anni sulle montagne russe. Nel 1973 ha partecipato a una tournée in Sudafrica dove si è fatta valere. Nel 1975 ha raggiunto il secondo posto in coppa Europa, e nel 1976 è andata a un passo dal vincere contro la temibile Australia, perdendo con un solo punto di scarto.
Un percorso glorioso, interrotto da due sconfitte inaspettate contro il Marocco prima e contro la Romania poi.
Insomma, che Italia è quella che dovrebbe ospitare gli all-blacks? La squadra capace di tenere testa agli australiani o quella che si fa travolgere dai rumeni?
Per non rischiare la figuraccia, in federazione mischiano un po' le carte. Dato che è un incontro non ufficiale, vengono invitati tre giocatori stranieri a unirsi alla squadra. Che difatti, tecnicamente, non gioca come la nazionale italiana ma come il XV del Presidente.
Lo stadio scelto per il grande evento è quello di Padova, dove gioca regolarmente una delle squadre storiche del rugby italiano: il Petrarca.
In una cornice di persone appassionate e competenti, l'Italia è pronta all'incontro con la leggenda. Arrivano gli all-blacks.
A sorpresa, l'Italia dà del filo da torcere ai campioni in maglia nera. Dalle cronache di chi c'era, capiamo che forse gli ospiti non si sono impegnati al massimo o sono stati sorpresi dall'atmosfera allo stadio. Ben 14.000 persone sono arrivate per assistere all'incontro e sostenere l'Italia.
Alla fine, la vittoria è andata alla Nuova Zelanda, ma l'Italia non ha sfigurato.
La crescita non si è fermata.
Azzurri e all-blacks si incontrano nuovamente due anni dopo, nel 1979. Ancora una volta è un incontro non ufficiale, ma questa volta la squadra messa in campo da parte italiana è davvero la nazionale, non ci sono invitati speciali. Gli spettatori questa volta sono 21.000.
Vincono di nuovo i neozelandesi, naturalmente, e questa volta con il punteggio netto di 18 a 12. Tra loro e gli italiani, la distanza è ancora grande.
Anche perché in quegli anni era ancora più evidente una tendenza che nel rugby esiste ancora oggi, ovvero che le squadre di vertice incontrano raramente le piccole.
Fino al 1987, anno della prima edizione dei campionati del mondo, il rugby internazionale era fatto di tour, per esempio di una squadra europea in Sudafrica o di una oceanica in Europa, oppure di tornei a inviti.
Questa dimensione chiusa ha contribuito a creare la fama del rugby come uno sport elitario. Ironico, forse, visto che si tratta di un gioco non propriamente raffinato, ma è così. I Paesi che non hanno una tradizione centenaria nel rugby sono costretti a stare un passo indietro. Perché non hanno molte occasioni di sfidare gli altri, imparare e fare esperienza.
E anche quando arriva la coppa del mondo, dove finalmente tanti Paesi possono incontrarsi, le differenze sono evidenti.
È proprio in due occasioni mondiali che la nazionale italiana subisce le due sue sconfitte più pesanti dai neozelandesi. 70 a 6 per gli All Blacks nel mondiale di casa del 1979 e addirittura un sonoro 101 a 3 nel 1999.
Un distacco del genere si può davvero colmare?
La federazione italiana, a partire dagli anni 80, fa delle riflessioni. La domanda è sempre una: come alzare il livello e avvicinarsi alle superpotenze della palla ovale?
I temi sono due: le squadre di lunga tradizione sono troppo più forti e i ragazzi che giocano a rugby sono troppo pochi.
Una cosa inevitabile, forse, in un Paese come l'Italia. Le sirene del calcio, del basket e della pallavolo sono più forti e più attraenti. Il rugby ha la fama di essere uno sport duro, sporco, pericoloso e poi non è tanto facile trovare una squadra o amici con cui giocare.
La logica insomma è: se il rugby diventasse più popolare, ci sarebbero più ragazzi con la voglia di provare e quindi più potenziali campioni da fare crescere.
Ma come fare a rendere il rugby più popolare? Giocando regolarmente con i più grandi, anche a costo di perdere male.
Per anni, i dirigenti federali italiani hanno lavorato nell'ombra per ottenere quel risultato e fare ammettere l'Italia nel club più esclusivo del rugby europeo. Il cinque nazioni.
Si tratta di uno dei tornei internazionali più antichi in assoluto, che prima era riservato alle sole nazioni britanniche e che poi era stato aperto anche alla Francia.
Vista la presenza di Galles, Irlanda, Scozia, Inghilterra e Francia, è stato chiamato per anni il Cinque nazioni.
Dal 2000, con una mossa contro la tradizione, viene trovato uno sponsor e viene ammessa una sesta squadra, l'Italia. Nasce il Sei nazioni.
Bisogna dire che, in questi 23 anni le gioie azzurre al Sei nazioni sono state poche.
Era iniziato tutto sorprendentemente bene, con una vittoria incredibile all'esordio contro la Scozia. Si trattava però del classico fuoco di paglia.
Il bilancio a oggi è impietoso. 13 partite vinte, un pareggio e ben 106 sconfitte.
Sono numeri che a qualcuno fanno dire: ma che partecipiamo a fare? Anche se poi i risultati, lentamente, si vedono. Nel 2022, l'Italia ha battuto l'Australia per la prima volta nella sua storia e la federazione ha attivato un programma per convincere i giovani rugbisti di origine italiana ma cresciuti all'estero a unirsi alla squadra azzurra.
Qualcosa, insomma, si sta muovendo nel rugby italiano. Qualcosa per cui vale la pena ingoiare il rospo e continuare a partecipare al Sei Nazioni sapendo che l'unico obiettivo possibile, sul breve termine, sarà evitare il cucchiaio di legno, il premio riservato alla squadra ultima classificata.
E nel frattempo crescere, promuovere il rugby nelle scuole e tra i ragazzi, mostrare il suo potenziale di adrenalina e divertimento. Soprattutto, superare quell'immagine strana e incomprensibile di sport allo stesso tempo snob e raffinato, ma anche sporco e duro.
Poi resterà guardare e aspettare. Come si dice in italiano, se son rose, fioriranno. Se questo amore a metà tra l'Italia e il rugby è destinato a diventare un amore vero, ce lo dirà il tempo.