×

Używamy ciasteczek, aby ulepszyć LingQ. Odwiedzając stronę wyrażasz zgodę na nasze polityka Cookie.

image

Conversazioni d'autore, Luciano Canfora sul cosmopolitismo

Luciano Canfora sul cosmopolitismo

Buonasera, iniziamo questo nostro incontro, dialogo, conversazione con Luciano Canfora.

Ciao Luciano.

Evviva, eccoci.

Buonasera, come stai?

Ottimamente, come d'abitudine, direi.

Comunque, più che mai.

Ti vedo addossato al tuo ambiente ideale, c'è una biblioteca, una libreria, una casa.

Eh sì, è una piccola libreria con oggetti di vario tipo, di vario formato.

Vabbè, si lavora.

Vedo dietro da una parte c'è un pupazzino.

Allora cos'è?

È una ex bambola dei tempi in cui i miei figli erano piccoli.

Loro ne hanno prodotti altri e quell'oggetto è rimasto lì.

Ah, ho capito.

Quindi, il segno della continuità.

Bene.

Senti, ma in questo periodo che stai facendo?

Tu sei un giramondo, però anche, come dire, credo che hai molto il piacere di starte neanche

tra i libri appunto a studiare.

Che fai in questi giorni di pandemia?

Se non sembrasse antipatico dirlo, è il momento ideale.

Ho dato due mesi a questa parte perché finalmente posso scrivere e lavorare con continuità,

cosa che viaggiando non si riesce a fare.

Poi mi sono reso conto che quello che scrivevo alternando viaggi e scrittura evidentemente

era pessimo.

Ora forse finalmente scrivo qualcosa di decoroso perché questa continuità consente un'autocritica

costante, correggere errori eccetera.

L'argomento che mi attrae e di cui mi sto dedicando non è molto popolare, diciamo così.

Si tratta dell'aggressione romana contro Gerusalemme.

L'anno 63, la prima volta che i romani entrano, devastano, saccheggiano il tempio, fanno migliaia

di morti, deportano prigionieri e infrangono una politica di collaborazione con lo Stato

ebraico che durava da un secolo.

L'artefice è un personaggio importante, Pompeo, sul quale si affisa l'odio degli ebrei finché

non lo vedono morto.

Insomma è una storia abbastanza dura, ricca di fonti che si contraddicono, dentro c'è

una serie di elementi anche di storia religiosa, la storia di questo tempio fondato da Salomone,

un tempio che in quel momento ha oltre 900 anni di vita.

Salomone a sua volta aveva 700 mogli, quindi come vedi le cifre sono tutte alte.

Perché hai deciso di occuparti di questo tema?

Mi sembra oggettivamente molto interessante.

Pompeo e Gerusalemme è un tema che ritorna, tu hai pubblicato un libro alcuni anni fa

con questo titolo, ma riguarda un periodo molto più ampio.

La partenza fu invece una lezioncina che ho fatto il 10 febbraio a Roma al seminario,

al dottorato di studi ebraici presso la comunità ebraica e io ero preparato, pensavo di essermi

preparato e non potevo valutare l'ignoranza nella quale invece mi trovavo.

Poi studiando e approfondendo mi sono reso conto che è un tema non solo di un certo

rilievo, ma che richiede un'analisi molto più dettagliata e intrecciata, quasi un giallo

filologico, potremmo chiamarlo, perché abbiamo a che fare con una fonte fondamentale, cioè

Giuseppe Flavio, il grande storico, noi lo leggiamo in greco, ma lui aveva scritto in

aramaico, il quale è passato dalla parte dei romani, quindi è un pentito, potremmo

dire anche un traditore, come Vidal Nacchè lo chiama nel famosissimo libro Del buon uso

del tradimento.

È una storia che riguarda meccanismi, comportamenti che si ripetono, che ritornano nel tempo,

passare dalla parte del vincitore convintamente, non solo per opportunismo soggettivo e al

tempo stesso fare i conti con la propria tradizione, con i propri correggionari, i compagni di

lotta, col proprio paese, diventare odiato da loro e non amato dai romani, è una vicenda

in cui anche l'aspetto psicologico conta parecchio.

Quello che dici mi fa vedere in mente una cosa, quando iniziai a lavorare negli anni

80, mi capitò di andare a trovare un grande storico, non un autore della casa, non faccio

il nome perché poi l'episodio, almeno dal mio punto di vista, non è meraviglioso, ma

insomma andai a pranzo molto tremante, emozionato perché aveva appena iniziato e questo disse

guardi dottor Laterza, la fermo subito, io ho il piacere di incontrarla, come sa sono

autore di un altro editore, io non ho mai lavorato su commessa degli editori.

Allora io rimasi molto colpito da questo e capitò che poco tempo dopo a Parigi presentammo

la storia delle donne e c'erano George Duby e Michel Perrault, i due direttori, e alla

conferenza e presentazione Duby disse a parte la tesi non ho mai fatto nessun libro se non

su commessa di un editore, disse sono grato agli editori Laterza che ci hanno sollecitato

a fare la storia delle donne, d'altra parte nella mia vita, perché dico questo? Perché

naturalmente a me piaceva più Duby che il signore, ma questa è una mia prospettiva

molto soggettiva, perché quello che tu hai detto mi porta a farti una domanda che non

era nella mia intenzione iniziale, ma tu hai detto mi è stato chiesto di fare una lezione,

mi sono accorto che quello è un argomento interessante su cui potevo capire di più,

studiare di più eccetera, l'ho fatto, nei tanti libri che tu hai fatto le motivazioni

di partenza immagino sia state diverse, anche queste, di avere un incentivo, un'occasione,

una richiesta di un editore, com'è che ha funzionato per te?

Per esempio, uno riguarda Cesare, tuo padre lesse un articoletto, l'ho pubblicato nel

Corriere, un po' malizioso l'articolo perché era il tempo in cui furoreggiava il libro

nero del comunismo che Berlusconi regalava ai quattro angoli delle strade, eccetera,

e mi piace cominciare con l'articolo con la frase il libro nero della conquista gallica

l'ha scritto Plinio il Vecchio, perché Plinio il Vecchio nel settimo libro della storia

naturale fa l'elenco dei massacri cesariani dicendo Cesare è una canalgia e Pompeo è

un uomo umanissimo, cosa non vera, ma comunque Plinio è un debole. Perché feci questo?

Perché il Corriere avrebbe vietato qualunque articolo che affrontasse la questione dei

libri neri, tuo padre si invaghì di questo pezzo cesariano e mi ordinò, devi scrivere

un libro su Giulio Cesare, io stavo facendo tutt'altro in realtà, stavo inseguendo una

storia complicata che non ho mai finito di scrivere riguardante un nobile francese abbastanza

curioso, navigatore tra anzian regime, rivoluzione, Napoleone, restaurazione, un grande girella

potremmo dire, però anche un grande erudito, abbandonai questo e scrissi Cesare, questo

per dire commissione perentoria, poi tuo padre aveva un'autorità, un dislivello di età

per cui uno era alla fine indotto ad assecondarlo con piacere.

Altrimenti invece mi è capitato di partire da problemi testuali, cioè un testo che non

mi è chiaro diventa il punto di partenza per una ricostruzione storica, per dire le

famose letterine di Grieco a Gramsci in carcere, anche quelle diventarono un libro della tua

casa editrice, ma il punto di partenza era la curiosità di quel testo, un altro è la

lettera prefatoria del patriarca Fozio, di cui non si capisce benissimo cosa voglia e

di lì scavando tu capisci che è una lettera fittizia che nasconde invece un grande disegno

culturale, quello di salvare la lettura da lui organizzata dei libri profani, siamo nel

IX secolo d.C. a Bisanzio, quindi la Chiesa domina e contrasta la cultura laica.

Questi sono i testi come punto di partenza.

Questa è molto interessante, devo dire che la mia esperienza con te, ma anche con mio

padre prima con cui tu hai lavorato a lungo, ogni autore è diverso, nel tuo caso tu sei

molto attento e molto sensibile alle proposte degli editori, dopodiché l'editore deve

sapere che tu raccogli queste riflessioni e poi arriva un momento in cui dice ho fatto

questo, che magari non c'entra niente, però spesso invece sì, nel senso che c'è un'interazione.

Tu hai citato mio padre e mi fa molto piacere, lo dico perché molti di quelli che ci ascoltano

sanno chi sei, però come ci siamo detti ieri conversando, bisogna sempre, come insegnava

Tullio De Mauro, pensare anche a una persona che magari, Luciano Canfora, è un autore

molto prolifico e una delle cose di cui io sono più felice è che i primi passi di Luciano,

non solo per il fatto che è l'editore di Barese come la casa editrice, sono stati fatti

anche con la casa editrice, c'è una storia di famiglia che in realtà comincia anche prima

di Luciano, di un rapporto la famiglia Canfora e la casa editrice. Ma con Luciano tu mi raccontavi

l'altro giorno, io sono andato a riprendere nel nostro archivio il nostro volume fatto

sui cent'anni della casa editrice, che nel 72, nell'uglio del 72, quindi tu eri trentenne,

facessi una proposta a mio padre, come avvenne la cosa? Devo dire nella forma più elementare

e naif in certo senso, perché avevo elaborato un datilo scritto, irto di riferimenti eruditi,

lo portai sotto braccio, mi presentai da lui in via Dante e gli dissi ho scritto questo

libro potrebbe interessarti, invece lui anziché dire quella è la porta, si accomodi, mi disse

e quindi dopo un po' mi rispose lo pubblico e io ne fui lietissimo beninteso, il libro

uscì in autunno, due o tre mesi dopo, poi ho saputo a distanza di tempo che egli aveva

anche chiesto un parere, non per farsi condizionare, ma come è giusto che faccio un editore, ha

un grandissimo storico al quale noi guardiamo sempre con ammirazione, cioè Arnaldo Mumiliano,

storico non soltanto del mondo antico, ma del mondo ebraico, del mondo moderno, della

storiografia, un gigante potremmo dire del Novecento, il quale però ebbe come tipico

suo una battuta, l'autore o è un pazzo o è un genio, un pubblico abbastanza sconcertante.

Le due cose qualche volta possono anche andare insieme.

Non sconcertò per nulla tuo padre, il quale fu il procedente verso la pubblicazione e

di lì cominciò il nostro rapporto abbastanza intenso.

Diciamo che ho calcolato ieri, non so se ho fatto un a spanne, tu hai fatto 30 libri con

la casa editrice e almeno altrettanti con altri editori, perché poi hai frequentato

molto prestigiosi come Selleri, Rinaudi e altri, piccoli e grandi, Mulino.

Devo dire che pensando a un modo per raccontare i tuoi interessi, le tue curiosità, credo

che il modo migliore è proprio dire alcuni dei temi di cui ti sei occupato, perché si

va dalla democrazia antica e contemporanea al marxismo, da Tuscivide a Giulio Cesare,

a Gramsci e a Concetto Marchesi, l'ultimo libro che hai fatto con noi è relativo a questo

grande e sfaccettato personaggio.

Ti sei occupato di letteratura, ma anche di teatro, di storiografia, ma anche di retorica

del potere, hai attraversato le tante oligarchie che hanno governato in circostanze diverse

e tanti paesi, ti sei occupato molto di libri e per ultimo, ti fa piacere che io dica, ti

sei occupato molto di scuola, di educazione, di formazione, non è un caso che prima ho

citato Tullio De Mauro, perché una delle cose che mi ha sempre colpito del tuo impegno

è che magari tra i tanti impegni qualcuno non riesce a svolgere, qualche volta devi

dire no ai tanti che ti invitano, ma quasi sempre dici sì alle scuole se non sbaglio.

Così sì, è vero, ma mi sono persuaso che è giusto affrontare direttamente il pregiudizio

della decadenza, il pregiudizio della decadenza campeggia in tutte le epoche, basta metterla

in fila e si deduce che non esiste decadenza o che tutto lo è e quindi è come se non

esiste decadenza. Uno dei bersagli della decadenza è gli studenti ignoranti e sbuccioni

oppure fanulloni, ce ne sono stati si fatti in tutte le epoche, devo dire che il contatto

diretto però porta a capire che c'è tantissima intelligenza, curiosità e anche preparazione

imprevedibile. Mi sono trovato a Firenze, a Roma in vari licei, al Visconti di Roma

c'è uno studente che credo ormai si sia congedato, sarà all'università, il quale

leggeva appassionatamente Ermete Trismegisto, che è un autore difficilissimo fra l'altro,

che piaceva molto a Tullio Gregory, ma quando diciamo Tullio Gregory, un conoscitore supremo

della filosofia antica e medievale… E' un'altra persona molto vicina a mio padre

e alla casa di Trisce come pensai? Lo so, con lui ho continuato a corrispondere,

mi mando ogni tanto dei suoi scritti anche strampalati, il che non è strano, se uno

ama Ermete Trismegisto, indubbiamente ha un temperamento estroso.

Questo è un esempio concreto, anche molto limitato, di quanto sia falso il pregiudizio

sulla decadenza. Gli insegnanti rincorrono, perché sono obberati da tanta inutile burocrazia,

alle spalle ormai hanno anche anni di sofferenza nel curriculum, queste invenzioni recenti,

pedagogistiche, per diventare professori devono fare dei tirocini assurdi a base di pedagogia,

cose insopportabili. Superano anche questo e finalmente approdano in una classe per mettersi

al lavoro e al cimento. Anche loro sono sofferenti e talvolta insofferenti, ma di tutto questo

si può parlare andandoci vicino, vedendolo incorporevili, non attraverso le pagine generiche

di un quotidiano.

Questo che tu dici è fondamentale, come tu ben sai, perché hai fatto anche con noi delle

opere per la scuola, La Terza è anche un editore scolastico, ma al di là di questo

il tema della scuola è sempre stato fortissimo, Alessandro La Terza, mio cugino che è l'amministratore

delegato e responsabile scolastico con cui tu hai un rapporto anche molto forte, si occupa

molto di questo. Il tema qui, poi passiamo al tema del cosmopolitismo, perché avevamo

deciso di parlare, ma con te è difficile parlare di un tema perché poi ne vengono

fuori, il tema è questo, ed è un tema di nuovo di De Mauro. La scuola italiana, la

scuola pubblica, nonostante tutto fa moltissimo, come tu hai detto. Ecco, perché la classe

dirigente italiana, con poche eccezioni, De Mauro citava ogni tanto qualche parentesi,

perché la classe dirigente italiana ha investito così poco nella scuola? Non solo risorse,

perché non è solo una questione di soldi che alla fine negli ultimi anni forse hanno

un pochino cresciuto, ma dal punto di vista proprio dell'interesse del progetto, perché?

Non so a quale periodo tu ti voglia riferire, perché a rigore è un tema che meriterebbe

un po' di approfondimento. Nell'Italia postunitaria la scuola fu al vertice degli interessi della

nuova classe dirigente dell'Italia riunificata, liberale, che guardava modelli importanti,

il migliore era la Germania che aveva creato il ginnasio umanistico dei fratelli Humboldt,

e gli italiani coniarono, modellarono il liceo su quel modello lì. Quando la Germania inventò

il liceo scientifico, lo chiamavano liceo inglese, anzi ginnasio inglese, in Italia

con la riforma gentile nacque il liceo scientifico degnissimo fratello del liceo classico e ministri

come Coppino o Benedetto Croce o Giovanni Gentile erano dei colossi.

Mi riferivo al periodo più recente. Il periodo recente ha avuto due fasi, quella

subito dopo la liberazione, saltiamo il fascismo che pure meriterebbe un discorso a parte,

perché certamente Bottai non fu un ministro irrilevante, De Vecchi era stato mediocre

ministro, ma Bottai se vogliamo è colui che ha inventato la scuola media unica, questo

non lo ha dimenticato, che poi l'Italia repubblicana ha recuperato più o meno quando fu Moro ministro

dell'istruzione, quindi un altro ministro di spicco, di preparazione profonda, non un

improvvisatore raccattato nelle segreterie di partito.

Poi ancora potremmo dire Medici, Medici era un insigne studioso con il quale Concetto

Marchesi ha avuto ottimi rapporti, stando i due su due sponde contrapposte politicamente,

ci fu una riforma della scuola e dell'università abbozzata dai due che creò un problema ad

entrambi i partiti da cui essi provenivano, quindi credo che il declino sia recente ed

è dovuto alla decadenza complessiva del ceto politico italiano, questo non va dimenticato,

la scuola diventa la cenerentola, non tanto e non solo nel bilancio, siamo quelli che

diamo meno quattrini alla scuola degli altri paesi europei, ma alla fine per la scuola

mettiamo delle persone di terza fila perché lottizzate nell'equilibrio della formazione

dei governi o dei sottosegretari e compagnia. Mi ricordo De Mauro, De Mauro è stato ministro

brevemente, si immolò, si lanciò nel lavoro in maniera addirittura giovanile ed era molto

avanti negli anni, ma fu un'eccezione, il tempo a noi più vicino vede e non voglio

fare dei nomi devastanti, Germini che ha cacciato la geografia dall'insegnamento, non si è

capito perché ha un conto con la geografia e altri, questa nuovissima signora Sicula

cambia parere così ogni 24 ore dando indicazioni contraddittorie, non mi piace per nulla e

devo dire che nessuno nei governi che si sono succeduti da ultimo si pone il problema di

selezionare un ministro dell'istruzione che sia davvero un competente di cose scolastiche

universitarie.

Questo che tu dici rinvia un tema più generale, se noi discutessimo della scuola con un centesimo

della passione con cui discutiamo del MES, in questi ultimi mesi si è discusso del MES,

che per carità sarà una cosa fondamentale, ma non trovo gli economisti, tutte le evidenze

dicono che la scuola è il lievito dello sviluppo economico, i paesi che investono nella scuola,

qual è il problema? Che come diceva De Mauro, bisogna essere un pochino, non dico lungimiranti,

ma non ciecati, avere una vista non proprio a sei mesi, bisogna fare i calcoli a una distanza

un pochino superiore.

Cosa dire? Uno è sospinto verso delle congetture, per esempio si può temere che coloro i quali

guidano i partiti abbiano alle spalle un'esperienza scolastica talmente scadente o addirittura

incomprensibile, da essersi convinti che si tratta di un settore inutile e parassitario,

lo temo, perché se li passassimo in rassegna tutti quanti nelle loro rispettive carriere

scolastiche, potremmo rabbrividire.

Questo sarà un compito che affideremo a qualche cronista di raccoltare il curriculum, però

torniamo a noi, intanto già in queste cose che ci hai detto, anche nel modo in cui hai

analizzato il passato, si vede una tua caratteristica che secondo me è veramente fondamentale in

chi pensa, tu rispondi molto bene a una definizione che ho ritrovato l'altro giorno di Intellettuale,

che dava Ralph Darendorf, che è un altro grande autore della Casa Editrice, diceva

che gli intellettuali sono i giullari del tempo moderno, sono quelli che spiazzano,

perché sono portati a sfidare il senso comune, a mettere in prospettiva critica ogni forma

di autorità, ponendosi in questione domande che altri non si fidano di sollevare. A me

pare che questa sia una buona definizione del tuo approccio, e credo che questo sia

il motivo per cui in questo momento ci stanno seguendo, mi danno i numeri, centinaia di

persone, ci sono dei commenti entusiastici, tu sei un caso di uno che non è che promuove

i suoi seguiti online, non mi sembra! Non saprei!

Però questo secondo me è un segno positivo, vuol dire che c'è un'attenzione nel confronto

di quello che fai, e ho citato i tuoi libri, una cosa molto interessante, non affatto scontata,

la gran parte dei tuoi libri sono tradotti anche nelle principali lingue del mondo da

editori molto prestigiosi, quindi questo è anche interessante, perché c'è una possibile

lingua comune che ci porta al tema, cosmopolitismo, nel senso che tu potresti essere un pezzo

di un pensiero cosmopolita. Ti vorrei pregare, perché abbiamo scelto cosmopolitismo? Banalmente

per avere un punto di partenza, perché in una cosa che abbiamo fatto insieme a Napoli,

al Festival di lezioni di storia, a fine febbraio tu hai fatto una lezione su questo tema, ne

avevamo parlato perché il tema generale era noi e loro, e alla fine tu mi hai detto guarda

io su questo tema vorrei lavorare su questa parola, su questa idea, e hai cominciato definendolo,

dicendo anzi ci sono due possibilità, ci vuoi rapidamente restituire che cos'è nella

tua accezione il cosmopolitismo, come possiamo descriverlo?

Credo di poterlo fare partendo dal perché io abbia scelto quell'argomento, perché mi

è parso quell'argomento pertinente al quadro da te tracciato noi e loro, noi e loro era

molto pungente sul piano politico, anche se elegante nella formulazione, perché noi e

loro vuole dire che la società contemporanea non soltanto in Europa, ma anche nel resto

del mondo è attraversata da contrapposizioni sempre più feroci ed escludenti, alcuni a

vantaggio di altri, come alimento per così dire di un atteggiamento che viene ormai definito

fra il razzista, sovranista, ci sono vari populista, ma particolarmente connesso questo

populismo ad un atteggiamento di chiusura totale verso il resto del mondo, insomma in

questo clima noi e loro era una formula particolarmente felice che indicava una malattia dalla quale

guardarsi. Qual è l'antidoto a un atteggiamento di questo genere? Ricordarsi un tema se vogliamo

antichissimo, l'unità del genere umano, che è un tema filosofico, non soltanto scientifico,

che me parse giusto raccogliere sin dai suoi esordi, quando comincia a formularsi una idea,

una concezione di quel genere all'interno del pensiero filosofico e scientifico del

mondo antico e poi via via le vicissitudini che ha avuto questa formulazione così larga,

l'unità del genere umano nel corso dei secoli, misi anche in guardia, ma così non per fare

il pedagogo, ma semplicemente per chiarezza lessicale, che il termine viene usato anche

in un altro significato, in un'altra accezione, cioè l'elite straricca del mondo è a casa

sua dovunque nel pianeta, perché il benessere, gli alberghi molto lussuosi, la disponibilità

di denaro, la possibilità di intendersi medialmente, ne fanno un ceto cosmopolitico superprivilegiato.

Allora, ribadisco ora che il cosmopolitismo di cui parlo e di cui sono assertore, sostenitore

è l'esatto opposto, cioè il fatto che a partire dalla visione del vecchio sofista

antifonte non c'è distinzione tra gli esseri umani e che essi come disse un pensatore minore

di corrente epicurea, hanno come casa, gli esseri umani, il pianeta, l'intera terra,

non ci sono confini se non fittizi. Questo è un punto difficile da praticare nel tempo

nostro che è un tempo di divisioni feroci, basta vedere la nostra povera Unione Europea

che si sta frantumando in conflitti pesantissimi, però è un punto secondo me irrinunciabile.

Mettere in fila una serie di considerazioni filosofiche attingendo al passato, da Seneca

in avanti, può essere anche mal visto, può essere considerato una forma così professoria,

però se noi argomentiamo storicamente e vediamo perché in alcune epoche questo pensiero si

è affacciato con forza e in altre invece è stato respinto, facciamo un esercizio utile.

In una delle precedenti conversazioni, persona che ben conosci, Andrea Giardina, ha detto

siamo in presenza di un virus cosmopolita, nel senso che sembrerebbe un virus che colpisce

ugualmente in tutto il mondo e che ci restituisce una dimensione di naturalità, in questo caso

patologia naturale comune. Il tema del cosmopolitismo tu l'hai trattato

in quella lezione anche relativamente al fatto che questa natura comune rimuove o dovrebbe

rimuovere le barriere, le distinzioni sociali, di classe, oltre che culturali e razziali.

I cosmopoliti dell'antichità come quelli del presente sono…

Sono un po' auspicano. La cosa un po' dolorosa è constatare che

formazioni politiche che facciano di tale presupposto o di tale obiettivo una bandiera,

non ce ne sono più. Questo è un punto dolente. Potremmo dire che l'internazionalismo, ovvero

che è nato a metà dell'Ottocento attraverso organizzazioni, errori, battaglie, sconfitte,

successi, è definitivamente scomparso. La frase, non posso non ricordarla, con cui si

conclude molto ad effetto il manifesto di Marx, proletari di tutto il mondo unitevi, oggi

ci fa sorridere perché sono proprio i proletari di tutto il mondo ultradivisi e in lotta gli

uni con gli altri, per responsabilità di tanti, ma anche per la difficoltà estrema.

Quando quell'uomo scrisse quella frase, diceva tutto il mondo, ma pensava l'Europa, anzi

una parte di essa, la parte più avanzata. Figuriamoci se pensava alla Cina, all'India

o all'Africa, ovviamente no. La sfida è gigantesca. Ci sono le grandi religioni di

salvezza, ma godono pessima salute. Alcune di esse hanno addirittura imbracciato il fucile

per fare la guerra santa, l'abbiamo vista all'opera in modo drammatico nel Medio Oriente

ancora fino a qualche tempo fa. Le chiese cristiane, anche queste godono di una pessima

salute. Se uno pensa alle chiese riformate, che sono sostanzialmente delle chiese nazionali.

La Chiesa Cattolica ha un leader, oserei dire, internazionalista, anche perché è

gesuita. I gesuiti furono i primi bolscevichi in realtà, come formazione, serietà di impegno,

capacità di essere presenti ai quattro angoli del pianeta, dalla Cina all'America Meridionale.

Questi sono i veri intellettuali organici. Questo uomo non so quanto potrà durare, è

avversato all'interno della sua stessa chiesa. Si è visto anche nella comunicazione giornalistica

e politica l'insofferenza di organi di stampa, personalità politiche, non appena questo

uomo afferma i valori della unità del genere umano. Lo si svillaneggia. In America ci

sono le rette cattoliche che preparano con ogni mezzo la sua caduta. Questo è interessante

per lo storico, è drammatico da tutti i punti di vista, ma è anche deludente. Le formazioni

politiche che abbiano lo stesso intendimento, lo stesso proposito, io non ne vedo in giro.

Questo appunto appartiene anche forse a una difficoltà del pensiero, non solo della politica.

Tu prima dicevi proletari di tutto il mondo unite, quello era un'elaborazione di un pensiero

cosmopolita, internazionalistico. Quindi oggi se i politici dei vari paesi sono spesso ristretti

in una dimensione solo nazionale, questo forse deriva anche a un tema che ha a che fare con

chi elabora una cultura, un pensiero. Mars era un grande intellettuale, non solo un grande

stratega politico, o no?

Era un uomo d'azione, ha anche scritto che i filosofi devono smettere di dedicarsi a

inquadrare il mondo, ma cambiarlo. Per citare un'espressione famosissima, militante, molto

arrogante, molto impegnato nel conflitto, quindi una persona vera, sanguigna, ce ne

nascono pochi. Purtroppo l'intellettuale, a parte l'espressione che come sai illogora,

mediamente insegue il successo personale fiutando il potere per potersi accodare, questo è

un po' il vizio dominante. Il grande D'Alamberla aveva scritto a metà del Settecento il saggio

su gli intellettuali e i potenti e aveva in mente, lui spietato, persino il povero Seneca,

che a lungo cercò di trovare un punto di incontro, di contatto e di intesa con Nerone,

cioè con un capo tutt'altro che gradevole.

Gli intellettuali, tranne minoranze che alla fine poi vengono travolte dalla lotta politica,

dagli insuccessi soprattutto, sono inclini a collocarsi, a posizionarsi dove meglio può

rifugere la loro bravura intellettuale. Hanno le antenne, quindi questo va riconosciuto,

vedono in anticipo per esempio il tracollo della forza politica alla quale si erano legati.

Quanti erano negli anni 70-80 il Partito Comunista italiano pululava di intellettuali? Perché

tutti loro erano convinti che fossero alle soglie del potere, finalmente. Capirono presto

che invece era la vigilia del disastro e fuggirono in tempo, quindi trovarono altre sponde. Uno

può dire bravi dal punto di vista diagnostico, meno dal punto di vista etico.

Ma tornando al cosmopolitismo, alla fondamentale unità del genere umano, per certi versi uno

potrebbe dire che questa nel nostro tempo è sancita da diritti universali e che quindi

esistono trattati, c'è l'ONU, quindi c'è una retorica di questa unità a cui forze

politiche si potrebbero appellare?

Senza dubbio, ma infatti un campo molto interessante di intervento e anche degno di essere popolarizzato

è la storia delle formulazioni cosmopolitiche, a cominciare dalla dichiarazione dei diritti

dell'uomo e del cittadino 1789 e poi sancita nel 91 come preambolo della prima Costituzione

della Francia dopo la rivoluzione, dove si legge una frase impegnativa le cui radici

stanno nel pensiero di Rousseau, cioè gli uomini nascono e restano liberi e uguali.

Nascono è facile perché non ci vuole moltissimo a capire la sostanziale identità degli esseri

viventi alla nascita, restano è un programma colossale, però concretamente la Francia

che formulò quelle parole immortali, occupò un pezzo d'Europa e fece una politica di sostanziale

imperialismo, dopo la Seconda Guerra Mondiale o alla fine di essa, le dichiarazioni fondamentalissime

sui diritti universali sono state messe per iscritto, non sono convinto che si debba soltanto

dolersi di quanto poco siano applicate, c'è da compiacersi del fatto che esistano, perché

vuole dire che c'è qualcosa a cui appellarsi, per quanto sia difficile imporne l'applicazione.

Ci sono un sacco di commenti che stanno arrivando molto positivi, uno mi sembra abbastanza interessante,

Clementina Abattista scrive nell'internazionalismo ormai ci crede solo alla finanza.

Dice in forma non scherzosa, ma icastica una cosa vera, che i centri possidenti è in pari

a un certo punto, e in particolare il ceto finanziario è veramente internazionalista,

nel senso che i suoi interessi sono talmente unificati e intrecciati da comportare un comportamento

internazionalistico, egoistico indiscutibilmente tale, sono gli altri che sono divisi, perché

sono più deboli, perché sono divisi anche da fattori come la cultura, la religione,

la lingua, le tradizioni remote, mentre questi signori che stanno molto in alto nella società

hanno superato quel tipo di diversità e parlano un linguaggio comune, hanno gli stessi gusti,

visitano le stesse boutique, si mettono in testa gli stessi cappellini, quindi vanno

dallo stesso parrucchiere come la Lagarde certamente. Questo è un internazionalismo odioso che ha

molta forza dalla sua.

Riprendendo un filo del tema anche attraverso i libri, l'ultimo libro che abbiamo fatto

insieme è quello su Concetto Marchesi, prima avevi fatto un piccolo libro intitolato Fermare

l'odio, molto sul tema del rapporto con gli altri, con l'immigrazione, ancora prima c'era

un libro dal titolo molto suggestivo che era La scopa di Don Abbondio, il sottotitolo era

il moto violento della storia. In quel libro ho ritrovato un passo in cui tu dici siamo

alla fine forse di un'epoca di democrazia politica ottonovecitesca, di un ciclo, si

apre un ciclo nuovo in cui tornano anche varie forme di schiavitù, però ci sarà anche

molto probabilmente il ritorno delle rivoluzioni che ritornano costantemente soprattutto sulla

spinta dell'uguaglianza. Questa uguaglianza che rapporto ha col cosmopolitismo? Mi pare

molto forte, forse è un presupposto.

Come diceva un liberale intelligente come Tocqueville, la spinta all'uguaglianza è

come la fame, non si può dire decido di non avere fame, perché è un fatto strutturale,

mentre lui dice la libertà è amata soltanto in alcuni momenti, in alcune epoche. Questa

diagnosi che sembra quasi naturalistica o quasi medica, è molto giusta, la spinta

verso l'uguaglianza è un fatto storico perenne che ovviamente viene imbrigliato ogni volta

che si manifesta, dopo brevi successi viene sconfitto, però ricomincia.

L'obiezione che tu conosci molto bene è che questa uguaglianza non sia molto compatibile

con la diversità, la straordinaria diversità del genere umano è diversità di culture,

di istituzioni, di atteggiamenti sociali. Se tu predichi l'uguaglianza vai verso la

omologazione, l'omogenità, comprimi tutti a un unico standard.

Questo credo sia un sofisma molto corrente, ma molto debole. Potrei obiettare, così un

po' scherzosamente, che uno degli esperimenti di uguaglianza politica e anche sociale all'interno

però dei cittadini di condizione libera, c'era la massa degli schiavi naturalmente,

fu la Repubblica Ateniese del tardo V secolo. Una delle caratteristiche di questa Repubblica

Ateniese del tardo V secolo, a giudizio dei suoi avversari, era l'aver messo insieme

culture, ricchezze materiali, esperienze diversissime, dice un oligarca, l'italiano,

di cui non sappiamo il nome, che scrive in quegli anni, hanno preso da tutte le parti,

persino il cibo, tutti i tipi di cibo, uno diverso dal lato, li puoi trovare ad Atene,

ed era la città dell'uguaglianza, l'essere uguali, cioè giusti. Quindi non è affatto

vero che uguaglianza vuole dire cancellazione delle diversità, lo dicono in modo furbescamente

in modo furbescente, ma potremmo portare altri esempi, il fervore intellettuale di momenti

di grande uguaglianza, la Repubblica di Weimar sui primi anni, la Russia sovietica dell'anno

1, cosa c'è di più ricco intellettualmente diversificato? Credo raramente nella storia

umana si è trovato qualcosa del genere. Prova ulteriore del fatto che diversità soggettiva

e uguaglianza politica e sociale possono andare benissimo d'accordo, anzi l'una alimenta

l'altra. Vedo che anche in questo c'è un processo che poi si evolve nella storia, voglio

dire in società più omogenee per esempio si è più propensi a pagare le tasse per persone

di cui ci si fida di più, in una società molto differenziala, mi ricordo che un tempo

la professia di economia di Trento, dove anche tu sei stato, Robert Partnam, scienziato politico,

correlava la diversità multicoltorale con il capitale sociale, c'è la disponibilità

per esempio a donare sangue, ma pagare le tasse. Nella società americana come sappiamo

c'è una sanità pubblica depressa perché tendenzialmente gli americani bianchi non

volevano pagare le tasse per i neri, oggi credo la situazione è molto cambiata, quindi

la storia cambia questo, l'immigrazione produce turbamenti anche nella civilissima Svezia

sembrerebbe, perché i welfare di quel paese che è molto ricco e molto sostenuto, era

un welfare per una popolazione più omogenea, quindi c'è un tema nella storia che si risolve

dinamicamente. L'obiezione da farsi sempre, questo un po' pessimisticamente, ma è meglio

guardare la realtà, è quella che fa Machiavelli quando riprende da Polibio l'idea della circolarità

delle costituzioni, un ordinamento politico si trasforma e diventa un'altra cosa, questo

giro, questo cerchio come lui lo chiama, dalla monarchia all'aristocrazia, alla democrazia

e poi inversamente, dice Machiavelli non può durare all'infinito, non è eterno, quindi

non c'è da cullarsi nel fatto che tanto prima o poi si ricomincia, perché può arrivare

un punto di non ritorno che può essere determinato da fattori molteplici, compreso quello che

abbiamo sotto gli occhi, cioè uno sviluppo talmente violento e disordinato da mettere

in pericolo la vita del pianeta.

Arriviamo all'ultima questione che ti volevo porre, noi abbiamo costeggiato l'attualità,

perché in questo momento sembra che gli unici che abbiano cose da dirci sono i medici, in

realtà non è così, però mi sembrava che ci fosse un punto forte di congiunzione rispetto

a questo tema con la vicenda che stiamo attraversando, proprio nel libro La scopa di Don Abbondio,

anche per giustificare in parte il titolo, cita Manzoni in una fase che letta adesso

la professione, perché Manzoni nei Promessi sposi nel capitolo 28 scrive è stata un gran

flaggello questa peste, ma anche è stata una scopa, ha spazzato via certi soggetti

che figlioli miei non ce ne liberavamo più. Secondo te potrebbe succedere la stessa cosa

anche oggi?

La parola di questo prete di campagna piuttosto vendicativo non è affatto cristiana e neanche

oserei dire tollerante, è una parola vendicativa, ma l'ho citata semplicemente perché con ironia

Manzoni mette in bocca a quest'uomo il termine scopa, il fatto che un tornado tremendo come

in quel caso la pestilenza seicentesca che attraversò Milano tra l'altro ancora una

volta in modo devastante, è uno scossone che porta tutti a ripensare i fondamenti,

che cancella le differenze sociali, Don Rodrigo muore in modo terribile tanto quanto un povero

diavolo, in questo senso la scopa diventa un'immagine feroce, ma veridica, solo che

non ha senso sperare che attraverso tale flagello come si pensava nel medioevo il padre eterno

si liberi dei cattivi, quindi manda sulla terra un flagello che caccia insicurati e

lascia in vita le persone per bene, questo ovviamente non è, è una metafora che credo

si possa applicare anche all'altro fenomeno, all'altro tornado ciclico della storia umana

che sono i sonmovimenti sociali. A quelli naturalmente non si deve guardare con le euforie ingenue,

un po' letteraria, sono scadenze tremende nella vita, inutile nasconderselo, si vorrebbe

farne a meno, però torniamo al grande Tocqueville, uno dei suoi suoi suoi suoi suoi suoi suoi

suoi capitoli più belli del suo libro L'Ansien Regime e la Rivolucion è perché era inevitabile

che la rivoluzione scoppiasse in Francia e lui spiega con molto acume tutte le ragioni

per cui non poteva non, e allora dinanzi a queste situazioni concrete è meglio prenderne

atto e lavorare perché siano fruttuose anziché deprecarle o ignorarle.

Io mi riferivo esattamente a questo, tutti noi diciamo un po' retoricamente il mondo

sarà diverso, non potrà che cambiare, dopodiché può cambiare in varie direzioni, la storia

ci insegna che non c'è un percorso preordinato, quindi quando pensiamo a questa eventuale

scopa possiamo pensare che questa scopa spazi via per esempio egoismi nazionalistici perché

uno pensa siamo tutti soggetti a questa pandemia e quindi dobbiamo tutti cooperare, banalmente

dobbiamo dare più poteri a organismi sovranazionali che possano fissare protezioni, regole, oppure

no, oppure il contrario.

Direi che abbiamo due esperienze alle spalle interessanti da questo punto di vista, la

crisi economica esplosa nel 2007 e seguenti, improvvisamente portò tanti fanatici del

libero mercato, libera iniziativa, liberismo selvaggio a implorare l'intervento dello Stato,

curiosa conversione di persone che fino alla vigilia avevano predicato il contrario, era

un ancora di salvezza alla quale si appendevano, poi la crisi è passata e magari hanno ricominciato

a ragionare, a esprimersi nel modo che era usuale prima, oggi la tragedia tremenda che

sta attraversando il pianeta spinge a valorizzare la sanità pubblica come ancora di salvezza,

a deplorare la follia degli Stati Uniti di avere respinto quell'ipotesi da welfare state

tipica dell'Europa, ma se la biufera passerà, temo i vecchi pregiudizi torneranno, però

è sintomatico che nel momento del pericolo si torni a grandi pensieri di carattere collettivo

che sono l'intervento dello Stato a difesa di chi è più debole, l'intervento dello

Stato nel campo sanitario, è un po' amara come constatazione, meglio farla e magari

metterla per iscritto e lasciarla a futura memoria perché probabilmente ci ritorneremo

ancora! Questo serve anche la storia, lasciare per

iscritto traccia! Indaro diceva che il fatto muore se non viene raccontato!

Non solo, ma sempre in quel libro tu, anzi nella lezione sul cosmopolitismo mi veniva

in mente prima, citavi credo Polibbio nel dire ogni vera storia è storia universale

a proposito di cosmopolitismo applicato! Sì, certo, questo ha avuto anche influenza

sui manuali di storia, se uno risponde a quelli di 50-70 anni fa e gli attuali è cambiato

addirittura l'asse narrativo! L'ultimissima domanda davvero, poi ti chiedo

un consiglio di lettura, oggi si parla molto della competenza, il fatto che il ritornato

centrale la competenza, in TV vanno i medici, i talk show sono riempiti da illustri professori,

virologi, epidemiologi, ma è possibile un governo dei tecnici, un governo in senso lato,

di Palazzo Chigi, ti convince questa idea che tutti staremmo meglio se fossimo governati

dai tecnici? Platone su questo come la pensava e tu come la pensi?

Platone ha fatto bene a evocarlo, la sua Repubblica ideale che lui tratteggia nell'opera intitolata

Politeia, ha al vertice i filosofi e i guerrieri, i filosofi perché conoscono il sommo bene,

quindi sono dei competenti, non sono soltanto astrattamente quelli che guardano il cielo

per trarre ispirazione e i guerrieri perché lui dice il problema di difendere la città

è sempre fondamentale, quindi il tecnico allo stato puro non esiste, questo è il punto

di partenza, l'abbiamo visto anche in tempi abbastanza vicini a noi, un governo di tecnici

fu coniato nell'anno 2011, ma non erano dei tecnici puri, erano dei tecnici con delle

idee politiche ben salde, alle quali diede l'attuazione facendo forse un tantino di sacrifici

eccessivi, infliggendoli al nostro paese, allora si parlò di macelleria sociale, non

amo questo termine, ma certamente le freddite sono ancora aperte.

Ci consiglio due, uno è il decimo libro della Repubblica di Platone perché viene in taglio

le ultime cose che siamo detti, l'altro è completamente diverso e riguarda la scadenza

vicinissima del 25 aprile, che rischia di essere talvolta messa in sordina o celebrata

in modi a dir poco discutibili.

In questo caso Marcello Flores lo conosce bene, ma non è un po' il caso di un'altra

persona, un libro di un'autodidatta che fu anche un grande dirigente politico, pagò

di persone i suoi errori, che però fu l'artefice dell'insurrezione di Milano nel aprile 1945,

si chiamava Pietro Secchia, il quale scrisse un piccolo libro nel 1963 intitolato Aldo

dice 26 per 1. Questo libro è notevole perché è di un protagonista, è senza retorica e

termina con un paio di pagine molto serie e problematiche, i frutti della resistenza,

quanto è stato deluso di ciò che allora si voleva e si pensava fosse a portata di

mano e perché questa delusione almeno parziale, come spiegarla? Un libro da meditare oggi

più che mai.

Titolo ed editore?

Fu pubblicato da Feltrinelli e ripubblicato nel 1973 Aldo dice 26 per 1 il titolo. Credo

che si trovi ancora in libreria e forse varebbe la pena ristamparlo.

Ti ringrazio moltissimo Luciano, ringrazio tutte le persone che ci hanno seguito e ti

porto un saluto speciale della persona che insieme a te ha chiuso il Festia di Storia,

che è una grande storica, Eva Cantarella, che ho sentito qualche momento fa e che sarà

con noi per una conversazione come questa, quindi lo dico perché molti di quelli che

immagino hanno seguito saranno contenti, parleremo di una serie di questioni anche

diverse rispetto a quelle che abbiamo esaminato con te. Ti ringrazio tantissimo e credo che

il tuo impegno nella produzione delle idee, ma anche nel farle circolare, che è quello

che nel piccolo alla casitice prova a fare da sempre, ci dà una luce di ottimismo in

questi tempi così difficili. Grazie ancora e a presto!

Grazie a tutti!

Learn languages from TV shows, movies, news, articles and more! Try LingQ for FREE

Luciano Canfora sul cosmopolitismo Luciano Canfora on cosmopolitanism Luciano Canfora sobre el cosmopolitismo 卢西亚诺·坎福拉谈世界主义

Buonasera, iniziamo questo nostro incontro, dialogo, conversazione con Luciano Canfora.

Ciao Luciano.

Evviva, eccoci.

Buonasera, come stai?

Ottimamente, come d'abitudine, direi.

Comunque, più che mai.

Ti vedo addossato al tuo ambiente ideale, c'è una biblioteca, una libreria, una casa.

Eh sì, è una piccola libreria con oggetti di vario tipo, di vario formato.

Vabbè, si lavora.

Vedo dietro da una parte c'è un pupazzino.

Allora cos'è?

È una ex bambola dei tempi in cui i miei figli erano piccoli.

Loro ne hanno prodotti altri e quell'oggetto è rimasto lì.

Ah, ho capito.

Quindi, il segno della continuità.

Bene.

Senti, ma in questo periodo che stai facendo?

Tu sei un giramondo, però anche, come dire, credo che hai molto il piacere di starte neanche

tra i libri appunto a studiare.

Che fai in questi giorni di pandemia?

Se non sembrasse antipatico dirlo, è il momento ideale.

Ho dato due mesi a questa parte perché finalmente posso scrivere e lavorare con continuità,

cosa che viaggiando non si riesce a fare.

Poi mi sono reso conto che quello che scrivevo alternando viaggi e scrittura evidentemente

era pessimo.

Ora forse finalmente scrivo qualcosa di decoroso perché questa continuità consente un'autocritica

costante, correggere errori eccetera.

L'argomento che mi attrae e di cui mi sto dedicando non è molto popolare, diciamo così.

Si tratta dell'aggressione romana contro Gerusalemme.

L'anno 63, la prima volta che i romani entrano, devastano, saccheggiano il tempio, fanno migliaia

di morti, deportano prigionieri e infrangono una politica di collaborazione con lo Stato

ebraico che durava da un secolo.

L'artefice è un personaggio importante, Pompeo, sul quale si affisa l'odio degli ebrei finché

non lo vedono morto.

Insomma è una storia abbastanza dura, ricca di fonti che si contraddicono, dentro c'è

una serie di elementi anche di storia religiosa, la storia di questo tempio fondato da Salomone,

un tempio che in quel momento ha oltre 900 anni di vita.

Salomone a sua volta aveva 700 mogli, quindi come vedi le cifre sono tutte alte.

Perché hai deciso di occuparti di questo tema?

Mi sembra oggettivamente molto interessante.

Pompeo e Gerusalemme è un tema che ritorna, tu hai pubblicato un libro alcuni anni fa

con questo titolo, ma riguarda un periodo molto più ampio.

La partenza fu invece una lezioncina che ho fatto il 10 febbraio a Roma al seminario,

al dottorato di studi ebraici presso la comunità ebraica e io ero preparato, pensavo di essermi

preparato e non potevo valutare l'ignoranza nella quale invece mi trovavo.

Poi studiando e approfondendo mi sono reso conto che è un tema non solo di un certo

rilievo, ma che richiede un'analisi molto più dettagliata e intrecciata, quasi un giallo

filologico, potremmo chiamarlo, perché abbiamo a che fare con una fonte fondamentale, cioè

Giuseppe Flavio, il grande storico, noi lo leggiamo in greco, ma lui aveva scritto in

aramaico, il quale è passato dalla parte dei romani, quindi è un pentito, potremmo

dire anche un traditore, come Vidal Nacchè lo chiama nel famosissimo libro Del buon uso

del tradimento.

È una storia che riguarda meccanismi, comportamenti che si ripetono, che ritornano nel tempo,

passare dalla parte del vincitore convintamente, non solo per opportunismo soggettivo e al

tempo stesso fare i conti con la propria tradizione, con i propri correggionari, i compagni di

lotta, col proprio paese, diventare odiato da loro e non amato dai romani, è una vicenda

in cui anche l'aspetto psicologico conta parecchio.

Quello che dici mi fa vedere in mente una cosa, quando iniziai a lavorare negli anni

80, mi capitò di andare a trovare un grande storico, non un autore della casa, non faccio

il nome perché poi l'episodio, almeno dal mio punto di vista, non è meraviglioso, ma

insomma andai a pranzo molto tremante, emozionato perché aveva appena iniziato e questo disse

guardi dottor Laterza, la fermo subito, io ho il piacere di incontrarla, come sa sono

autore di un altro editore, io non ho mai lavorato su commessa degli editori.

Allora io rimasi molto colpito da questo e capitò che poco tempo dopo a Parigi presentammo

la storia delle donne e c'erano George Duby e Michel Perrault, i due direttori, e alla

conferenza e presentazione Duby disse a parte la tesi non ho mai fatto nessun libro se non

su commessa di un editore, disse sono grato agli editori Laterza che ci hanno sollecitato

a fare la storia delle donne, d'altra parte nella mia vita, perché dico questo? Perché

naturalmente a me piaceva più Duby che il signore, ma questa è una mia prospettiva

molto soggettiva, perché quello che tu hai detto mi porta a farti una domanda che non

era nella mia intenzione iniziale, ma tu hai detto mi è stato chiesto di fare una lezione,

mi sono accorto che quello è un argomento interessante su cui potevo capire di più,

studiare di più eccetera, l'ho fatto, nei tanti libri che tu hai fatto le motivazioni

di partenza immagino sia state diverse, anche queste, di avere un incentivo, un'occasione,

una richiesta di un editore, com'è che ha funzionato per te?

Per esempio, uno riguarda Cesare, tuo padre lesse un articoletto, l'ho pubblicato nel

Corriere, un po' malizioso l'articolo perché era il tempo in cui furoreggiava il libro

nero del comunismo che Berlusconi regalava ai quattro angoli delle strade, eccetera,

e mi piace cominciare con l'articolo con la frase il libro nero della conquista gallica

l'ha scritto Plinio il Vecchio, perché Plinio il Vecchio nel settimo libro della storia

naturale fa l'elenco dei massacri cesariani dicendo Cesare è una canalgia e Pompeo è

un uomo umanissimo, cosa non vera, ma comunque Plinio è un debole. Perché feci questo?

Perché il Corriere avrebbe vietato qualunque articolo che affrontasse la questione dei

libri neri, tuo padre si invaghì di questo pezzo cesariano e mi ordinò, devi scrivere

un libro su Giulio Cesare, io stavo facendo tutt'altro in realtà, stavo inseguendo una

storia complicata che non ho mai finito di scrivere riguardante un nobile francese abbastanza

curioso, navigatore tra anzian regime, rivoluzione, Napoleone, restaurazione, un grande girella

potremmo dire, però anche un grande erudito, abbandonai questo e scrissi Cesare, questo

per dire commissione perentoria, poi tuo padre aveva un'autorità, un dislivello di età

per cui uno era alla fine indotto ad assecondarlo con piacere.

Altrimenti invece mi è capitato di partire da problemi testuali, cioè un testo che non

mi è chiaro diventa il punto di partenza per una ricostruzione storica, per dire le

famose letterine di Grieco a Gramsci in carcere, anche quelle diventarono un libro della tua

casa editrice, ma il punto di partenza era la curiosità di quel testo, un altro è la

lettera prefatoria del patriarca Fozio, di cui non si capisce benissimo cosa voglia e

di lì scavando tu capisci che è una lettera fittizia che nasconde invece un grande disegno

culturale, quello di salvare la lettura da lui organizzata dei libri profani, siamo nel

IX secolo d.C. a Bisanzio, quindi la Chiesa domina e contrasta la cultura laica.

Questi sono i testi come punto di partenza.

Questa è molto interessante, devo dire che la mia esperienza con te, ma anche con mio

padre prima con cui tu hai lavorato a lungo, ogni autore è diverso, nel tuo caso tu sei

molto attento e molto sensibile alle proposte degli editori, dopodiché l'editore deve

sapere che tu raccogli queste riflessioni e poi arriva un momento in cui dice ho fatto

questo, che magari non c'entra niente, però spesso invece sì, nel senso che c'è un'interazione.

Tu hai citato mio padre e mi fa molto piacere, lo dico perché molti di quelli che ci ascoltano

sanno chi sei, però come ci siamo detti ieri conversando, bisogna sempre, come insegnava

Tullio De Mauro, pensare anche a una persona che magari, Luciano Canfora, è un autore

molto prolifico e una delle cose di cui io sono più felice è che i primi passi di Luciano,

non solo per il fatto che è l'editore di Barese come la casa editrice, sono stati fatti

anche con la casa editrice, c'è una storia di famiglia che in realtà comincia anche prima

di Luciano, di un rapporto la famiglia Canfora e la casa editrice. Ma con Luciano tu mi raccontavi

l'altro giorno, io sono andato a riprendere nel nostro archivio il nostro volume fatto

sui cent'anni della casa editrice, che nel 72, nell'uglio del 72, quindi tu eri trentenne,

facessi una proposta a mio padre, come avvenne la cosa? Devo dire nella forma più elementare

e naif in certo senso, perché avevo elaborato un datilo scritto, irto di riferimenti eruditi,

lo portai sotto braccio, mi presentai da lui in via Dante e gli dissi ho scritto questo

libro potrebbe interessarti, invece lui anziché dire quella è la porta, si accomodi, mi disse

e quindi dopo un po' mi rispose lo pubblico e io ne fui lietissimo beninteso, il libro

uscì in autunno, due o tre mesi dopo, poi ho saputo a distanza di tempo che egli aveva

anche chiesto un parere, non per farsi condizionare, ma come è giusto che faccio un editore, ha

un grandissimo storico al quale noi guardiamo sempre con ammirazione, cioè Arnaldo Mumiliano,

storico non soltanto del mondo antico, ma del mondo ebraico, del mondo moderno, della

storiografia, un gigante potremmo dire del Novecento, il quale però ebbe come tipico

suo una battuta, l'autore o è un pazzo o è un genio, un pubblico abbastanza sconcertante.

Le due cose qualche volta possono anche andare insieme.

Non sconcertò per nulla tuo padre, il quale fu il procedente verso la pubblicazione e

di lì cominciò il nostro rapporto abbastanza intenso.

Diciamo che ho calcolato ieri, non so se ho fatto un a spanne, tu hai fatto 30 libri con

la casa editrice e almeno altrettanti con altri editori, perché poi hai frequentato

molto prestigiosi come Selleri, Rinaudi e altri, piccoli e grandi, Mulino.

Devo dire che pensando a un modo per raccontare i tuoi interessi, le tue curiosità, credo

che il modo migliore è proprio dire alcuni dei temi di cui ti sei occupato, perché si

va dalla democrazia antica e contemporanea al marxismo, da Tuscivide a Giulio Cesare,

a Gramsci e a Concetto Marchesi, l'ultimo libro che hai fatto con noi è relativo a questo

grande e sfaccettato personaggio.

Ti sei occupato di letteratura, ma anche di teatro, di storiografia, ma anche di retorica

del potere, hai attraversato le tante oligarchie che hanno governato in circostanze diverse

e tanti paesi, ti sei occupato molto di libri e per ultimo, ti fa piacere che io dica, ti

sei occupato molto di scuola, di educazione, di formazione, non è un caso che prima ho

citato Tullio De Mauro, perché una delle cose che mi ha sempre colpito del tuo impegno

è che magari tra i tanti impegni qualcuno non riesce a svolgere, qualche volta devi

dire no ai tanti che ti invitano, ma quasi sempre dici sì alle scuole se non sbaglio.

Così sì, è vero, ma mi sono persuaso che è giusto affrontare direttamente il pregiudizio

della decadenza, il pregiudizio della decadenza campeggia in tutte le epoche, basta metterla

in fila e si deduce che non esiste decadenza o che tutto lo è e quindi è come se non

esiste decadenza. Uno dei bersagli della decadenza è gli studenti ignoranti e sbuccioni

oppure fanulloni, ce ne sono stati si fatti in tutte le epoche, devo dire che il contatto

diretto però porta a capire che c'è tantissima intelligenza, curiosità e anche preparazione

imprevedibile. Mi sono trovato a Firenze, a Roma in vari licei, al Visconti di Roma

c'è uno studente che credo ormai si sia congedato, sarà all'università, il quale

leggeva appassionatamente Ermete Trismegisto, che è un autore difficilissimo fra l'altro,

che piaceva molto a Tullio Gregory, ma quando diciamo Tullio Gregory, un conoscitore supremo

della filosofia antica e medievale… E' un'altra persona molto vicina a mio padre

e alla casa di Trisce come pensai? Lo so, con lui ho continuato a corrispondere,

mi mando ogni tanto dei suoi scritti anche strampalati, il che non è strano, se uno

ama Ermete Trismegisto, indubbiamente ha un temperamento estroso.

Questo è un esempio concreto, anche molto limitato, di quanto sia falso il pregiudizio

sulla decadenza. Gli insegnanti rincorrono, perché sono obberati da tanta inutile burocrazia,

alle spalle ormai hanno anche anni di sofferenza nel curriculum, queste invenzioni recenti,

pedagogistiche, per diventare professori devono fare dei tirocini assurdi a base di pedagogia,

cose insopportabili. Superano anche questo e finalmente approdano in una classe per mettersi

al lavoro e al cimento. Anche loro sono sofferenti e talvolta insofferenti, ma di tutto questo

si può parlare andandoci vicino, vedendolo incorporevili, non attraverso le pagine generiche

di un quotidiano.

Questo che tu dici è fondamentale, come tu ben sai, perché hai fatto anche con noi delle

opere per la scuola, La Terza è anche un editore scolastico, ma al di là di questo

il tema della scuola è sempre stato fortissimo, Alessandro La Terza, mio cugino che è l'amministratore

delegato e responsabile scolastico con cui tu hai un rapporto anche molto forte, si occupa

molto di questo. Il tema qui, poi passiamo al tema del cosmopolitismo, perché avevamo

deciso di parlare, ma con te è difficile parlare di un tema perché poi ne vengono

fuori, il tema è questo, ed è un tema di nuovo di De Mauro. La scuola italiana, la

scuola pubblica, nonostante tutto fa moltissimo, come tu hai detto. Ecco, perché la classe

dirigente italiana, con poche eccezioni, De Mauro citava ogni tanto qualche parentesi,

perché la classe dirigente italiana ha investito così poco nella scuola? Non solo risorse,

perché non è solo una questione di soldi che alla fine negli ultimi anni forse hanno

un pochino cresciuto, ma dal punto di vista proprio dell'interesse del progetto, perché?

Non so a quale periodo tu ti voglia riferire, perché a rigore è un tema che meriterebbe

un po' di approfondimento. Nell'Italia postunitaria la scuola fu al vertice degli interessi della

nuova classe dirigente dell'Italia riunificata, liberale, che guardava modelli importanti,

il migliore era la Germania che aveva creato il ginnasio umanistico dei fratelli Humboldt,

e gli italiani coniarono, modellarono il liceo su quel modello lì. Quando la Germania inventò

il liceo scientifico, lo chiamavano liceo inglese, anzi ginnasio inglese, in Italia

con la riforma gentile nacque il liceo scientifico degnissimo fratello del liceo classico e ministri

come Coppino o Benedetto Croce o Giovanni Gentile erano dei colossi.

Mi riferivo al periodo più recente. Il periodo recente ha avuto due fasi, quella

subito dopo la liberazione, saltiamo il fascismo che pure meriterebbe un discorso a parte,

perché certamente Bottai non fu un ministro irrilevante, De Vecchi era stato mediocre

ministro, ma Bottai se vogliamo è colui che ha inventato la scuola media unica, questo

non lo ha dimenticato, che poi l'Italia repubblicana ha recuperato più o meno quando fu Moro ministro

dell'istruzione, quindi un altro ministro di spicco, di preparazione profonda, non un

improvvisatore raccattato nelle segreterie di partito.

Poi ancora potremmo dire Medici, Medici era un insigne studioso con il quale Concetto

Marchesi ha avuto ottimi rapporti, stando i due su due sponde contrapposte politicamente,

ci fu una riforma della scuola e dell'università abbozzata dai due che creò un problema ad

entrambi i partiti da cui essi provenivano, quindi credo che il declino sia recente ed

è dovuto alla decadenza complessiva del ceto politico italiano, questo non va dimenticato,

la scuola diventa la cenerentola, non tanto e non solo nel bilancio, siamo quelli che

diamo meno quattrini alla scuola degli altri paesi europei, ma alla fine per la scuola

mettiamo delle persone di terza fila perché lottizzate nell'equilibrio della formazione

dei governi o dei sottosegretari e compagnia. Mi ricordo De Mauro, De Mauro è stato ministro

brevemente, si immolò, si lanciò nel lavoro in maniera addirittura giovanile ed era molto

avanti negli anni, ma fu un'eccezione, il tempo a noi più vicino vede e non voglio

fare dei nomi devastanti, Germini che ha cacciato la geografia dall'insegnamento, non si è

capito perché ha un conto con la geografia e altri, questa nuovissima signora Sicula

cambia parere così ogni 24 ore dando indicazioni contraddittorie, non mi piace per nulla e

devo dire che nessuno nei governi che si sono succeduti da ultimo si pone il problema di

selezionare un ministro dell'istruzione che sia davvero un competente di cose scolastiche

universitarie.

Questo che tu dici rinvia un tema più generale, se noi discutessimo della scuola con un centesimo

della passione con cui discutiamo del MES, in questi ultimi mesi si è discusso del MES,

che per carità sarà una cosa fondamentale, ma non trovo gli economisti, tutte le evidenze

dicono che la scuola è il lievito dello sviluppo economico, i paesi che investono nella scuola,

qual è il problema? Che come diceva De Mauro, bisogna essere un pochino, non dico lungimiranti,

ma non ciecati, avere una vista non proprio a sei mesi, bisogna fare i calcoli a una distanza

un pochino superiore.

Cosa dire? Uno è sospinto verso delle congetture, per esempio si può temere che coloro i quali

guidano i partiti abbiano alle spalle un'esperienza scolastica talmente scadente o addirittura

incomprensibile, da essersi convinti che si tratta di un settore inutile e parassitario,

lo temo, perché se li passassimo in rassegna tutti quanti nelle loro rispettive carriere

scolastiche, potremmo rabbrividire.

Questo sarà un compito che affideremo a qualche cronista di raccoltare il curriculum, però

torniamo a noi, intanto già in queste cose che ci hai detto, anche nel modo in cui hai

analizzato il passato, si vede una tua caratteristica che secondo me è veramente fondamentale in

chi pensa, tu rispondi molto bene a una definizione che ho ritrovato l'altro giorno di Intellettuale,

che dava Ralph Darendorf, che è un altro grande autore della Casa Editrice, diceva

che gli intellettuali sono i giullari del tempo moderno, sono quelli che spiazzano,

perché sono portati a sfidare il senso comune, a mettere in prospettiva critica ogni forma

di autorità, ponendosi in questione domande che altri non si fidano di sollevare. A me

pare che questa sia una buona definizione del tuo approccio, e credo che questo sia

il motivo per cui in questo momento ci stanno seguendo, mi danno i numeri, centinaia di

persone, ci sono dei commenti entusiastici, tu sei un caso di uno che non è che promuove

i suoi seguiti online, non mi sembra! Non saprei!

Però questo secondo me è un segno positivo, vuol dire che c'è un'attenzione nel confronto

di quello che fai, e ho citato i tuoi libri, una cosa molto interessante, non affatto scontata,

la gran parte dei tuoi libri sono tradotti anche nelle principali lingue del mondo da

editori molto prestigiosi, quindi questo è anche interessante, perché c'è una possibile

lingua comune che ci porta al tema, cosmopolitismo, nel senso che tu potresti essere un pezzo

di un pensiero cosmopolita. Ti vorrei pregare, perché abbiamo scelto cosmopolitismo? Banalmente

per avere un punto di partenza, perché in una cosa che abbiamo fatto insieme a Napoli,

al Festival di lezioni di storia, a fine febbraio tu hai fatto una lezione su questo tema, ne

avevamo parlato perché il tema generale era noi e loro, e alla fine tu mi hai detto guarda

io su questo tema vorrei lavorare su questa parola, su questa idea, e hai cominciato definendolo,

dicendo anzi ci sono due possibilità, ci vuoi rapidamente restituire che cos'è nella

tua accezione il cosmopolitismo, come possiamo descriverlo?

Credo di poterlo fare partendo dal perché io abbia scelto quell'argomento, perché mi

è parso quell'argomento pertinente al quadro da te tracciato noi e loro, noi e loro era

molto pungente sul piano politico, anche se elegante nella formulazione, perché noi e

loro vuole dire che la società contemporanea non soltanto in Europa, ma anche nel resto

del mondo è attraversata da contrapposizioni sempre più feroci ed escludenti, alcuni a

vantaggio di altri, come alimento per così dire di un atteggiamento che viene ormai definito

fra il razzista, sovranista, ci sono vari populista, ma particolarmente connesso questo

populismo ad un atteggiamento di chiusura totale verso il resto del mondo, insomma in

questo clima noi e loro era una formula particolarmente felice che indicava una malattia dalla quale

guardarsi. Qual è l'antidoto a un atteggiamento di questo genere? Ricordarsi un tema se vogliamo

antichissimo, l'unità del genere umano, che è un tema filosofico, non soltanto scientifico,

che me parse giusto raccogliere sin dai suoi esordi, quando comincia a formularsi una idea,

una concezione di quel genere all'interno del pensiero filosofico e scientifico del

mondo antico e poi via via le vicissitudini che ha avuto questa formulazione così larga,

l'unità del genere umano nel corso dei secoli, misi anche in guardia, ma così non per fare

il pedagogo, ma semplicemente per chiarezza lessicale, che il termine viene usato anche

in un altro significato, in un'altra accezione, cioè l'elite straricca del mondo è a casa

sua dovunque nel pianeta, perché il benessere, gli alberghi molto lussuosi, la disponibilità

di denaro, la possibilità di intendersi medialmente, ne fanno un ceto cosmopolitico superprivilegiato.

Allora, ribadisco ora che il cosmopolitismo di cui parlo e di cui sono assertore, sostenitore

è l'esatto opposto, cioè il fatto che a partire dalla visione del vecchio sofista

antifonte non c'è distinzione tra gli esseri umani e che essi come disse un pensatore minore

di corrente epicurea, hanno come casa, gli esseri umani, il pianeta, l'intera terra,

non ci sono confini se non fittizi. Questo è un punto difficile da praticare nel tempo

nostro che è un tempo di divisioni feroci, basta vedere la nostra povera Unione Europea

che si sta frantumando in conflitti pesantissimi, però è un punto secondo me irrinunciabile.

Mettere in fila una serie di considerazioni filosofiche attingendo al passato, da Seneca

in avanti, può essere anche mal visto, può essere considerato una forma così professoria,

però se noi argomentiamo storicamente e vediamo perché in alcune epoche questo pensiero si

è affacciato con forza e in altre invece è stato respinto, facciamo un esercizio utile.

In una delle precedenti conversazioni, persona che ben conosci, Andrea Giardina, ha detto

siamo in presenza di un virus cosmopolita, nel senso che sembrerebbe un virus che colpisce

ugualmente in tutto il mondo e che ci restituisce una dimensione di naturalità, in questo caso

patologia naturale comune. Il tema del cosmopolitismo tu l'hai trattato

in quella lezione anche relativamente al fatto che questa natura comune rimuove o dovrebbe

rimuovere le barriere, le distinzioni sociali, di classe, oltre che culturali e razziali.

I cosmopoliti dell'antichità come quelli del presente sono…

Sono un po' auspicano. La cosa un po' dolorosa è constatare che

formazioni politiche che facciano di tale presupposto o di tale obiettivo una bandiera,

non ce ne sono più. Questo è un punto dolente. Potremmo dire che l'internazionalismo, ovvero

che è nato a metà dell'Ottocento attraverso organizzazioni, errori, battaglie, sconfitte,

successi, è definitivamente scomparso. La frase, non posso non ricordarla, con cui si

conclude molto ad effetto il manifesto di Marx, proletari di tutto il mondo unitevi, oggi

ci fa sorridere perché sono proprio i proletari di tutto il mondo ultradivisi e in lotta gli

uni con gli altri, per responsabilità di tanti, ma anche per la difficoltà estrema.

Quando quell'uomo scrisse quella frase, diceva tutto il mondo, ma pensava l'Europa, anzi

una parte di essa, la parte più avanzata. Figuriamoci se pensava alla Cina, all'India

o all'Africa, ovviamente no. La sfida è gigantesca. Ci sono le grandi religioni di

salvezza, ma godono pessima salute. Alcune di esse hanno addirittura imbracciato il fucile

per fare la guerra santa, l'abbiamo vista all'opera in modo drammatico nel Medio Oriente

ancora fino a qualche tempo fa. Le chiese cristiane, anche queste godono di una pessima

salute. Se uno pensa alle chiese riformate, che sono sostanzialmente delle chiese nazionali.

La Chiesa Cattolica ha un leader, oserei dire, internazionalista, anche perché è

gesuita. I gesuiti furono i primi bolscevichi in realtà, come formazione, serietà di impegno,

capacità di essere presenti ai quattro angoli del pianeta, dalla Cina all'America Meridionale.

Questi sono i veri intellettuali organici. Questo uomo non so quanto potrà durare, è

avversato all'interno della sua stessa chiesa. Si è visto anche nella comunicazione giornalistica

e politica l'insofferenza di organi di stampa, personalità politiche, non appena questo

uomo afferma i valori della unità del genere umano. Lo si svillaneggia. In America ci

sono le rette cattoliche che preparano con ogni mezzo la sua caduta. Questo è interessante

per lo storico, è drammatico da tutti i punti di vista, ma è anche deludente. Le formazioni

politiche che abbiano lo stesso intendimento, lo stesso proposito, io non ne vedo in giro.

Questo appunto appartiene anche forse a una difficoltà del pensiero, non solo della politica.

Tu prima dicevi proletari di tutto il mondo unite, quello era un'elaborazione di un pensiero

cosmopolita, internazionalistico. Quindi oggi se i politici dei vari paesi sono spesso ristretti

in una dimensione solo nazionale, questo forse deriva anche a un tema che ha a che fare con

chi elabora una cultura, un pensiero. Mars era un grande intellettuale, non solo un grande

stratega politico, o no?

Era un uomo d'azione, ha anche scritto che i filosofi devono smettere di dedicarsi a

inquadrare il mondo, ma cambiarlo. Per citare un'espressione famosissima, militante, molto

arrogante, molto impegnato nel conflitto, quindi una persona vera, sanguigna, ce ne

nascono pochi. Purtroppo l'intellettuale, a parte l'espressione che come sai illogora,

mediamente insegue il successo personale fiutando il potere per potersi accodare, questo è

un po' il vizio dominante. Il grande D'Alamberla aveva scritto a metà del Settecento il saggio

su gli intellettuali e i potenti e aveva in mente, lui spietato, persino il povero Seneca,

che a lungo cercò di trovare un punto di incontro, di contatto e di intesa con Nerone,

cioè con un capo tutt'altro che gradevole.

Gli intellettuali, tranne minoranze che alla fine poi vengono travolte dalla lotta politica,

dagli insuccessi soprattutto, sono inclini a collocarsi, a posizionarsi dove meglio può

rifugere la loro bravura intellettuale. Hanno le antenne, quindi questo va riconosciuto,

vedono in anticipo per esempio il tracollo della forza politica alla quale si erano legati.

Quanti erano negli anni 70-80 il Partito Comunista italiano pululava di intellettuali? Perché

tutti loro erano convinti che fossero alle soglie del potere, finalmente. Capirono presto

che invece era la vigilia del disastro e fuggirono in tempo, quindi trovarono altre sponde. Uno

può dire bravi dal punto di vista diagnostico, meno dal punto di vista etico.

Ma tornando al cosmopolitismo, alla fondamentale unità del genere umano, per certi versi uno

potrebbe dire che questa nel nostro tempo è sancita da diritti universali e che quindi

esistono trattati, c'è l'ONU, quindi c'è una retorica di questa unità a cui forze

politiche si potrebbero appellare?

Senza dubbio, ma infatti un campo molto interessante di intervento e anche degno di essere popolarizzato

è la storia delle formulazioni cosmopolitiche, a cominciare dalla dichiarazione dei diritti

dell'uomo e del cittadino 1789 e poi sancita nel 91 come preambolo della prima Costituzione

della Francia dopo la rivoluzione, dove si legge una frase impegnativa le cui radici

stanno nel pensiero di Rousseau, cioè gli uomini nascono e restano liberi e uguali.

Nascono è facile perché non ci vuole moltissimo a capire la sostanziale identità degli esseri

viventi alla nascita, restano è un programma colossale, però concretamente la Francia

che formulò quelle parole immortali, occupò un pezzo d'Europa e fece una politica di sostanziale

imperialismo, dopo la Seconda Guerra Mondiale o alla fine di essa, le dichiarazioni fondamentalissime

sui diritti universali sono state messe per iscritto, non sono convinto che si debba soltanto

dolersi di quanto poco siano applicate, c'è da compiacersi del fatto che esistano, perché

vuole dire che c'è qualcosa a cui appellarsi, per quanto sia difficile imporne l'applicazione.

Ci sono un sacco di commenti che stanno arrivando molto positivi, uno mi sembra abbastanza interessante,

Clementina Abattista scrive nell'internazionalismo ormai ci crede solo alla finanza.

Dice in forma non scherzosa, ma icastica una cosa vera, che i centri possidenti è in pari

a un certo punto, e in particolare il ceto finanziario è veramente internazionalista,

nel senso che i suoi interessi sono talmente unificati e intrecciati da comportare un comportamento

internazionalistico, egoistico indiscutibilmente tale, sono gli altri che sono divisi, perché

sono più deboli, perché sono divisi anche da fattori come la cultura, la religione,

la lingua, le tradizioni remote, mentre questi signori che stanno molto in alto nella società

hanno superato quel tipo di diversità e parlano un linguaggio comune, hanno gli stessi gusti,

visitano le stesse boutique, si mettono in testa gli stessi cappellini, quindi vanno

dallo stesso parrucchiere come la Lagarde certamente. Questo è un internazionalismo odioso che ha

molta forza dalla sua.

Riprendendo un filo del tema anche attraverso i libri, l'ultimo libro che abbiamo fatto

insieme è quello su Concetto Marchesi, prima avevi fatto un piccolo libro intitolato Fermare

l'odio, molto sul tema del rapporto con gli altri, con l'immigrazione, ancora prima c'era

un libro dal titolo molto suggestivo che era La scopa di Don Abbondio, il sottotitolo era

il moto violento della storia. In quel libro ho ritrovato un passo in cui tu dici siamo

alla fine forse di un'epoca di democrazia politica ottonovecitesca, di un ciclo, si

apre un ciclo nuovo in cui tornano anche varie forme di schiavitù, però ci sarà anche

molto probabilmente il ritorno delle rivoluzioni che ritornano costantemente soprattutto sulla

spinta dell'uguaglianza. Questa uguaglianza che rapporto ha col cosmopolitismo? Mi pare

molto forte, forse è un presupposto.

Come diceva un liberale intelligente come Tocqueville, la spinta all'uguaglianza è

come la fame, non si può dire decido di non avere fame, perché è un fatto strutturale,

mentre lui dice la libertà è amata soltanto in alcuni momenti, in alcune epoche. Questa

diagnosi che sembra quasi naturalistica o quasi medica, è molto giusta, la spinta

verso l'uguaglianza è un fatto storico perenne che ovviamente viene imbrigliato ogni volta

che si manifesta, dopo brevi successi viene sconfitto, però ricomincia.

L'obiezione che tu conosci molto bene è che questa uguaglianza non sia molto compatibile

con la diversità, la straordinaria diversità del genere umano è diversità di culture,

di istituzioni, di atteggiamenti sociali. Se tu predichi l'uguaglianza vai verso la

omologazione, l'omogenità, comprimi tutti a un unico standard.

Questo credo sia un sofisma molto corrente, ma molto debole. Potrei obiettare, così un

po' scherzosamente, che uno degli esperimenti di uguaglianza politica e anche sociale all'interno

però dei cittadini di condizione libera, c'era la massa degli schiavi naturalmente,

fu la Repubblica Ateniese del tardo V secolo. Una delle caratteristiche di questa Repubblica

Ateniese del tardo V secolo, a giudizio dei suoi avversari, era l'aver messo insieme

culture, ricchezze materiali, esperienze diversissime, dice un oligarca, l'italiano,

di cui non sappiamo il nome, che scrive in quegli anni, hanno preso da tutte le parti,

persino il cibo, tutti i tipi di cibo, uno diverso dal lato, li puoi trovare ad Atene,

ed era la città dell'uguaglianza, l'essere uguali, cioè giusti. Quindi non è affatto

vero che uguaglianza vuole dire cancellazione delle diversità, lo dicono in modo furbescamente

in modo furbescente, ma potremmo portare altri esempi, il fervore intellettuale di momenti

di grande uguaglianza, la Repubblica di Weimar sui primi anni, la Russia sovietica dell'anno

1, cosa c'è di più ricco intellettualmente diversificato? Credo raramente nella storia

umana si è trovato qualcosa del genere. Prova ulteriore del fatto che diversità soggettiva

e uguaglianza politica e sociale possono andare benissimo d'accordo, anzi l'una alimenta

l'altra. Vedo che anche in questo c'è un processo che poi si evolve nella storia, voglio

dire in società più omogenee per esempio si è più propensi a pagare le tasse per persone

di cui ci si fida di più, in una società molto differenziala, mi ricordo che un tempo

la professia di economia di Trento, dove anche tu sei stato, Robert Partnam, scienziato politico,

correlava la diversità multicoltorale con il capitale sociale, c'è la disponibilità

per esempio a donare sangue, ma pagare le tasse. Nella società americana come sappiamo

c'è una sanità pubblica depressa perché tendenzialmente gli americani bianchi non

volevano pagare le tasse per i neri, oggi credo la situazione è molto cambiata, quindi

la storia cambia questo, l'immigrazione produce turbamenti anche nella civilissima Svezia

sembrerebbe, perché i welfare di quel paese che è molto ricco e molto sostenuto, era

un welfare per una popolazione più omogenea, quindi c'è un tema nella storia che si risolve

dinamicamente. L'obiezione da farsi sempre, questo un po' pessimisticamente, ma è meglio

guardare la realtà, è quella che fa Machiavelli quando riprende da Polibio l'idea della circolarità

delle costituzioni, un ordinamento politico si trasforma e diventa un'altra cosa, questo

giro, questo cerchio come lui lo chiama, dalla monarchia all'aristocrazia, alla democrazia

e poi inversamente, dice Machiavelli non può durare all'infinito, non è eterno, quindi

non c'è da cullarsi nel fatto che tanto prima o poi si ricomincia, perché può arrivare

un punto di non ritorno che può essere determinato da fattori molteplici, compreso quello che

abbiamo sotto gli occhi, cioè uno sviluppo talmente violento e disordinato da mettere

in pericolo la vita del pianeta.

Arriviamo all'ultima questione che ti volevo porre, noi abbiamo costeggiato l'attualità,

perché in questo momento sembra che gli unici che abbiano cose da dirci sono i medici, in

realtà non è così, però mi sembrava che ci fosse un punto forte di congiunzione rispetto

a questo tema con la vicenda che stiamo attraversando, proprio nel libro La scopa di Don Abbondio,

anche per giustificare in parte il titolo, cita Manzoni in una fase che letta adesso

la professione, perché Manzoni nei Promessi sposi nel capitolo 28 scrive è stata un gran

flaggello questa peste, ma anche è stata una scopa, ha spazzato via certi soggetti

che figlioli miei non ce ne liberavamo più. Secondo te potrebbe succedere la stessa cosa

anche oggi?

La parola di questo prete di campagna piuttosto vendicativo non è affatto cristiana e neanche

oserei dire tollerante, è una parola vendicativa, ma l'ho citata semplicemente perché con ironia

Manzoni mette in bocca a quest'uomo il termine scopa, il fatto che un tornado tremendo come

in quel caso la pestilenza seicentesca che attraversò Milano tra l'altro ancora una

volta in modo devastante, è uno scossone che porta tutti a ripensare i fondamenti,

che cancella le differenze sociali, Don Rodrigo muore in modo terribile tanto quanto un povero

diavolo, in questo senso la scopa diventa un'immagine feroce, ma veridica, solo che

non ha senso sperare che attraverso tale flagello come si pensava nel medioevo il padre eterno

si liberi dei cattivi, quindi manda sulla terra un flagello che caccia insicurati e

lascia in vita le persone per bene, questo ovviamente non è, è una metafora che credo

si possa applicare anche all'altro fenomeno, all'altro tornado ciclico della storia umana

che sono i sonmovimenti sociali. A quelli naturalmente non si deve guardare con le euforie ingenue,

un po' letteraria, sono scadenze tremende nella vita, inutile nasconderselo, si vorrebbe

farne a meno, però torniamo al grande Tocqueville, uno dei suoi suoi suoi suoi suoi suoi suoi

suoi capitoli più belli del suo libro L'Ansien Regime e la Rivolucion è perché era inevitabile

che la rivoluzione scoppiasse in Francia e lui spiega con molto acume tutte le ragioni

per cui non poteva non, e allora dinanzi a queste situazioni concrete è meglio prenderne

atto e lavorare perché siano fruttuose anziché deprecarle o ignorarle.

Io mi riferivo esattamente a questo, tutti noi diciamo un po' retoricamente il mondo

sarà diverso, non potrà che cambiare, dopodiché può cambiare in varie direzioni, la storia

ci insegna che non c'è un percorso preordinato, quindi quando pensiamo a questa eventuale

scopa possiamo pensare che questa scopa spazi via per esempio egoismi nazionalistici perché

uno pensa siamo tutti soggetti a questa pandemia e quindi dobbiamo tutti cooperare, banalmente

dobbiamo dare più poteri a organismi sovranazionali che possano fissare protezioni, regole, oppure

no, oppure il contrario.

Direi che abbiamo due esperienze alle spalle interessanti da questo punto di vista, la

crisi economica esplosa nel 2007 e seguenti, improvvisamente portò tanti fanatici del

libero mercato, libera iniziativa, liberismo selvaggio a implorare l'intervento dello Stato,

curiosa conversione di persone che fino alla vigilia avevano predicato il contrario, era

un ancora di salvezza alla quale si appendevano, poi la crisi è passata e magari hanno ricominciato

a ragionare, a esprimersi nel modo che era usuale prima, oggi la tragedia tremenda che

sta attraversando il pianeta spinge a valorizzare la sanità pubblica come ancora di salvezza,

a deplorare la follia degli Stati Uniti di avere respinto quell'ipotesi da welfare state

tipica dell'Europa, ma se la biufera passerà, temo i vecchi pregiudizi torneranno, però

è sintomatico che nel momento del pericolo si torni a grandi pensieri di carattere collettivo

che sono l'intervento dello Stato a difesa di chi è più debole, l'intervento dello

Stato nel campo sanitario, è un po' amara come constatazione, meglio farla e magari

metterla per iscritto e lasciarla a futura memoria perché probabilmente ci ritorneremo

ancora! Questo serve anche la storia, lasciare per

iscritto traccia! Indaro diceva che il fatto muore se non viene raccontato!

Non solo, ma sempre in quel libro tu, anzi nella lezione sul cosmopolitismo mi veniva

in mente prima, citavi credo Polibbio nel dire ogni vera storia è storia universale

a proposito di cosmopolitismo applicato! Sì, certo, questo ha avuto anche influenza

sui manuali di storia, se uno risponde a quelli di 50-70 anni fa e gli attuali è cambiato

addirittura l'asse narrativo! L'ultimissima domanda davvero, poi ti chiedo

un consiglio di lettura, oggi si parla molto della competenza, il fatto che il ritornato

centrale la competenza, in TV vanno i medici, i talk show sono riempiti da illustri professori,

virologi, epidemiologi, ma è possibile un governo dei tecnici, un governo in senso lato,

di Palazzo Chigi, ti convince questa idea che tutti staremmo meglio se fossimo governati

dai tecnici? Platone su questo come la pensava e tu come la pensi?

Platone ha fatto bene a evocarlo, la sua Repubblica ideale che lui tratteggia nell'opera intitolata

Politeia, ha al vertice i filosofi e i guerrieri, i filosofi perché conoscono il sommo bene,

quindi sono dei competenti, non sono soltanto astrattamente quelli che guardano il cielo

per trarre ispirazione e i guerrieri perché lui dice il problema di difendere la città

è sempre fondamentale, quindi il tecnico allo stato puro non esiste, questo è il punto

di partenza, l'abbiamo visto anche in tempi abbastanza vicini a noi, un governo di tecnici

fu coniato nell'anno 2011, ma non erano dei tecnici puri, erano dei tecnici con delle

idee politiche ben salde, alle quali diede l'attuazione facendo forse un tantino di sacrifici

eccessivi, infliggendoli al nostro paese, allora si parlò di macelleria sociale, non

amo questo termine, ma certamente le freddite sono ancora aperte.

Ci consiglio due, uno è il decimo libro della Repubblica di Platone perché viene in taglio

le ultime cose che siamo detti, l'altro è completamente diverso e riguarda la scadenza

vicinissima del 25 aprile, che rischia di essere talvolta messa in sordina o celebrata

in modi a dir poco discutibili.

In questo caso Marcello Flores lo conosce bene, ma non è un po' il caso di un'altra

persona, un libro di un'autodidatta che fu anche un grande dirigente politico, pagò

di persone i suoi errori, che però fu l'artefice dell'insurrezione di Milano nel aprile 1945,

si chiamava Pietro Secchia, il quale scrisse un piccolo libro nel 1963 intitolato Aldo

dice 26 per 1. Questo libro è notevole perché è di un protagonista, è senza retorica e

termina con un paio di pagine molto serie e problematiche, i frutti della resistenza,

quanto è stato deluso di ciò che allora si voleva e si pensava fosse a portata di

mano e perché questa delusione almeno parziale, come spiegarla? Un libro da meditare oggi

più che mai.

Titolo ed editore?

Fu pubblicato da Feltrinelli e ripubblicato nel 1973 Aldo dice 26 per 1 il titolo. Credo

che si trovi ancora in libreria e forse varebbe la pena ristamparlo.

Ti ringrazio moltissimo Luciano, ringrazio tutte le persone che ci hanno seguito e ti

porto un saluto speciale della persona che insieme a te ha chiuso il Festia di Storia,

che è una grande storica, Eva Cantarella, che ho sentito qualche momento fa e che sarà

con noi per una conversazione come questa, quindi lo dico perché molti di quelli che

immagino hanno seguito saranno contenti, parleremo di una serie di questioni anche

diverse rispetto a quelle che abbiamo esaminato con te. Ti ringrazio tantissimo e credo che

il tuo impegno nella produzione delle idee, ma anche nel farle circolare, che è quello

che nel piccolo alla casitice prova a fare da sempre, ci dà una luce di ottimismo in

questi tempi così difficili. Grazie ancora e a presto!

Grazie a tutti!