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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE TERZA - 2. Solenne rullo (parte 2)

PARTE TERZA - 2. Solenne rullo (parte 2)

«Scusi, signore», disse il cameriere che serviva. «Mi pare che il signore parlasse di entrare nel 9° reggimento!» «Sì!» «Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel 10°. Ci siamo fatti onore nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia, Governolo, Volta! Adesso tocca a Loro.»

«Faremo il possibile.» Luisa ebbe un lieve brivido. Gl'inglesi che pranzavano alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco. Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passò la visione di una colonna di fanteria lanciata alla baionetta, fra la mitraglia. Dopo pranzo lo zio rimase all'albergo per il suo solito chilo e Franco uscì con Luisa. Presero a destra, verso il Palazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche rara gocciolina, gli scalini che mettevano dalla riva al cortile della villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco offerse il braccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si fermarono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contar le ore che suonavano all'orologio del Palazzo. Sei. Erano passate due ore, ne restavano altre undici; poi veniva la separazione, l'ignoto. Si incamminarono lentamente, sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e il fianco del Palazzo, a quell'angolo che guarda l'isola dei Pescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donne venivano loro incontro a braccetto, chiacchierando. Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie se si ricordava dei Rancò. Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto con altri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pascoli di Valsolda, che si attraversano per salire al Passo Stretto. Avevano avuto una disputa vivace, un'ora di broncio e di tormento. «Sì», rispose Luisa. «Mi ricordo.» Sentirono ambedue nello stesso momento quanto l'ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fosse doloroso a dire. Non parlarono più fino all'angolo. Un suono di campane veniva dall'isola dei Pescatori. Franco lasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto. Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumi dell'altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle campane che parevano di una nave perduta in mare, il silenzio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova, tutto era così triste! «E ti ricordi poi?», mormorò Franco senza voltar il viso. Anche Luisa s'era appoggiata al parapetto. Tacque un poco, indi rispose sottovoce:

«Sì, caro». Ah vi era nel suo caro un lieve recondito principio di calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentì, n'ebbe una scossa di gioia ma si contenne. «Penso», riprese, «alla lettera che t'ho scritto subito, appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai detto il giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar a prendere il tuo scialletto che avevi posato sull'erba. Te le ricordi?» «Sì.» Egli le prese una mano, se la recò alle labbra. «Ti ringrazio ancora», diss'egli, «per quelle tre parole. Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella discesa t'ho dato il braccio e che c'era chiaro di luna?» «Sì.» «E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di arrivare al ponte e che tu mi hai detto: "Caro signore, tocca a Lei di sostenere me"?» Luisa non rispose, gli strinse la mano. «Non sono stato buono a nulla», diss'egli tristemente. «Non ti ho saputo sostenere.» «Hai fatto tutto quello che potevi.» La voce di Luisa, dicendo così, era fioca, ma ben diversa da quando ell'aveva detto: il mio cuore è freddo. Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passi lenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inerte quanto prima, tradiva un'agitazione, una lotta. Franco si fermò e disse piano: «E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?» Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla e sussurrò: «No, resta». Franco non intese, domandò: «Cosa?». Non udì rispondere, piegò adagio adagio il viso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuore gli batté, gli batté forte, più forte ancora di quando aveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzò il viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscì di metter fuori queste parole: «Le dirò che hai promesso...». «No», mormorò Luisa, accorata, «quello non lo posso, non domandarmelo, non è più possibile.» «Cosa, non è possibile?» «Oh, intendi bene! Anch'io ho inteso bene cosa volevi dir tu.» Ella riprese a camminare, volendo staccarsi da quel discorso. Tenne però il braccio del marito, che la fermò. «Luisa!», diss'egli, severo, quasi impetuoso. «Mi lascerai partire così? Sai cosa vuol dire per me partire così?» Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello di lui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiò guardando l'acqua come a Oria, quella sera. Franco le restò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò di rispondergli. «Per me sarebbe meglio finirla nel lago», diss'ella, amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio, la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccio in aria. «Tu?», esclamò con sdegno. «Parlar così, tu che dicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo una volta che la più forte fossi tu. Adesso intendo che sono io il più forte. Molto più! Sai neanche immaginare cosa ho sofferto io in questi anni? Sai neanche immaginare...» Sentì la voce sfuggirsi un momento ma si padroneggiò e proseguì: «Sai neanche immaginare cosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza necessità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importi nulla di lacerarmi l'anima?». Ella gli si gettò fra le braccia. Nel silenzio che seguì, rotto solo da uno spasimo di singhiozzi repressi, Franco udì venir gente e durò fatica a staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa il cammino dell'albergo. «Tu! tu!», sussurrò. «E non vuoi che desideri di morire io, quando posso morir bene, per il mio paese?» Luisa gli stringeva il braccio senza parlare. Incontrarono due giovani amanti, che passando loro accanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise. Giunti sugli scalini che scendono sul piazzaletto davanti a S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa si fermò un momento sul primo scalino e disse piano le tre parole di Muzzaglio: «Ti amo tanto».

Franco non rispose che con una stretta del braccio. Discesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all'Albergo del Delfino . Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamazzavano si alzarono all'apparir di Franco e di Luisa, si fecero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò del momento buono per vuotare l'ultima bottiglia. «Signora», disse il primo che si presentò a Luisa. «Suo marito Le avrà già annunciato i Sette Sapienti.» Successe subito un gran baccano perché Franco aveva dimenticato di dire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Torino e s'erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, promettendo una visitina d'omaggio alla signora. «El più sapiente son mi», disse alzandosi il Padovano, che aveva vuotata la bottiglia. «Vualtri fè bordelo e non bevì; mi bevo e no fazzo bordelo.» «Quello, signora», disse un bel giovane, «è, com'Ella ben intende, l'asino sapiente della compagnia.» «Tasi, Fante!» «Signora!», fece il Padovano avanzandosi e salutando. «Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?», disse Luisa, sorridendo, al bel giovane. Ella fu affabile con tutti, ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro, dai baffi arricciati: «Lei dev'essere il signor Caval di spade». «No xe vero, signora», esclamò il Padovano mentre gli altri applaudivano, «che se vede la bestia?» Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartire subito, ma Franco fece portare altre due bottiglie e il chiasso divenne così enorme, malgrado la presenza di Luisa, che l'albergatore venne a pregare, per amore dè suoi inglesi, di non far tanto «rabello». Il Padovano gli snocciolò dolcemente una litania placida di vituperi padovani. Colui non capì, fece un risolino stupido e se n'andò. I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche loro una giornata di libertà prima di arruolarsi. Entravano tutti, meno il Caval di spade, nello stesso reggimento. Bevvero al 9° fanteria, alla brigata Regina, a tutti i «pistapauta» nazionali nel presente e nell'avvenire e discussero sul luogo e il nome della prima battaglia che si darebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padovano furono per una «battaglia del Ticino». Il Padovano voleva una battaglia di Gorgonzola. «No sentì che nome militar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!» Era scritto nel Libro del Destino ch'egli sarebbe caduto appunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheggia di granata nella coscia, combattendo da buon soldato a due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parlavano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate, parlavano della futura Italia dicendo alquante corbellerie, ma si sentiva che non importava loro un fico secco della vita pur di farla libera, questa vecchia patria, e grande. «Ghe pàrele teste da far l'Italia?», disse il Padovano a Luisa. «Gnanca So marìo, sala. Un bon toso, ma par far l'Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia che vien fora! I nostri fioi ne farà el monumento, ma dopo vegnarà, capisela, con licenza, quelle figure porche de quei nevodi, che me par de sentirli: "Che da can", i dirà, "che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia! "» I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco di trovarsi l'indomani mattina sul primo battello. Franco li accompagnò alla barca e intanto sua moglie salì a vedere dello zio Piero. Egli aveva dato l'incarico all'albergatore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto sonno, era andato a letto. Infatti Luisa lo udì dormire rumorosamente. Posò il lume e attese Franco. Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dormiva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui prima d'andar a letto, perché il battello partiva di gran mattino, alle cinque e mezzo. L'uscio della camera era chiuso, tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in punta di piedi e di parlar sottovoce. Gli raccontò ciò che le aveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ella sperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alle dieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Magadino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su queste apprensioni per la salute dello zio; parlava, parlava, nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tener lontane con quest'ombra carezze troppo tenere. In pari tempo andava e veniva per la camera, pigliando e posando le stesse cose, un po' per nervosità, un po' con la intenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Egli pareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tracolla che non riusciva ad aprire. Finalmente l'aperse, chiamò sua moglie a sé, le diede un rotolo d'oro, cinquanta pezzi da venti lire. «Capisci», le disse, «che almeno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questi non sono miei, li ho avuti a prestito.» Poi trasse di tasca una lettera suggellata. «E questo è il mio testamento», soggiunse. «Ho poco ma devo pur disporre anche di quel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre che hai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cui devo le mille lire. A parte del testamento ci sono due righe particolari per te. Ecco.» Egli parlava con dolcezza grave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera, le mani tremavano. Gli disse «grazie», cominciò a sciogliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene che si facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e da un'altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rotta che dovendo alzarsi così presto per accompagnarlo al vapore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsi vestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e si cominciò a spogliare, si levò dal collo una catenella e una crocettina d'oro ch'erano state di sua madre. «Tienle tu», diss'egli porgendole a Luisa. «È meglio. Non si sa mai, potrebbero cadere in mano ai croati.» Ella inorridì, tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinse da soffocarlo.

Il cameriere bussò all'uscio degli sposi verso le quattro e mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella camera dello zio ch'era svegliato. Prese congedo da lui e propose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisse lì. Ell'aveva nel viso e anche nella voce una espressione di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse, abbracciò e baciò suo marito come trasognata e come trasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse in esso un lampo del pensiero che occupava l'animo di lei? Se ciò avvenne fu nel salotto dell'albergo mentre prendeva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve che scoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisionomia, perché si fermò a contemplarla con la tazza di caffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza, un'ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manifestamente, non desiderava di parlare ma egli sì. Una parola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli luceva negli occhi; la bocca non osò dire niente.

Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si appoggiarono al muro cui s'era appoggiata Luisa il giorno prima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbracciarono per l'ultima volta, si dissero addio senza lagrime, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occulto che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò con fracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò: «Avanti chi parte!». Un bacio ancora: «Dio ti benedica!», disse Franco e saltò sul battello.

Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delle ruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornò all'albergo, sedette sul letto, stette lì come petrificata in quest'idea, in questa istintiva certezza ch'era madre una seconda volta. Benché fosse appunto la cosa tanto temuta, non si può dire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsi dentro una voce così forte, chiara e inesplicabile, vinse in lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sempre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro del Destino nulla potesse più avere di nuovo per lei, che certe intime fibre del suo cuore fossero morte. E adesso una Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: «Sappi che nel Libro del tuo Destino una pagina si chiude, un'altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita intensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto, continua e dev'essere straordinario se Io te lo annuncio». Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisa restò assorta in questa Voce.

Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempo era umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non volle saperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desiderato, sino all'ora di partire per Magadino. Sapeva, per averne chiesto all'albergatore, che dalle nove in poi si poteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte, vi si avviò con Luisa. Passando da San Vittore desiderò entrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, il celebrante si voltava a dire: « Benedicat vos omnipotens Deus ». Lo zio si fece un gran crocione, ascoltò l'ultimo vangelo, rinunciò a veder le pitture perché c'era poca luce e uscì di chiesa dicendo con la sua giovialità solita: «Eccomi felice e contento d'essere andato a farmi benedire». Non era possibile aver fretta, con lui. Si fermava ad ogni passo, guardando tutto che avesse forma d'arte, tutto che fosse disposto per venir guardato. Contemplò la facciata della chiesa, la triplice gradinata della sbarco Borromeo, ciascuno dei tre lati del cortile e la gran palma nel mezzo, che Luisa, con grave scandalo di lui, non aveva neppur veduta passando di là insieme a Franco, la sera prima. Quando il custode li introdusse nel Palazzo ci vollero almeno dieci minuti per salire, ammirando, lo scalone. Come ne fu a capo uscì un raggio di sole e il custode propose di approfittarne per vedere il giardino. Prese a sinistra e per una fila di sale vuote accompagnò i visitatori al cancello di ferro, suonò il campanello. Venne un giardiniere, un giovinetto educato che piacque molto allo zio perché gli spiegava tutto con buon garbo, e lo zio non domandava poco. Ci vollero cinque minuti per l'albero della canfora, presso l'entrata. Luisa ci soffriva, temeva che lo zio si stancasse troppo e si stancava moltissimo ella stessa di dover guardare tante piante, udire tanti nomi latini e volgari, fare attenzione allo zio, mentre i suoi pensieri avrebbero voluto silenzio e solitudine. Il giardiniere propose di salire al Castello di Nettuno. Lo zio avrebbe desiderato veder da vicino il liocorno dei Borromei che s'impenna lassù, ma c'erano parecchi scalini a fare, l'aria era pesante ed egli esitava. Luisa approfittò di quell'esitazione per chiedere al giardiniere dove avrebbero trovato un sedile. «Qui sotto», rispose colui, «a sinistra, sulla piazza degli Strobus .» Lo zio si lasciò persuadere a discendere su questa piazza degli Strobus .

Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e d'interrogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udì venir da lontano, dalla parte dell`Isola Madre, un rullo di tamburi e ne domandò al giardiniere. Erano i tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizi sulla riva. «Adesso si fa per giuoco», disse il giovinetto. «Mica per giuoco, ma insomma...! Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro.» Il mostro era il vapore austriaco da guerra Radetzki , detto dai riverani piemontesi Radescòn . «Entra adesso nel porto di Laveno», disse il giovinetto. «Viene da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene.»

Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buoni e sedette sul primo sedile che trovò sotto gli strobus , posto a ridosso di una macchia di bambù e fiancheggiato da due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambù, fra i grossi tronchi distorti degli strobus , si vedeva tremolare lo specchio delle acque bianche fino alla lista nera delle colline d'Ispra. Il cielo, fosco a settentrione, era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono fino al cancello stemmato che guarda la verde Isola Madre, Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla gran distesa delle acque plumbee, incoronate di colossi nebbiosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno ai monti di Maccagno, alle nevi lontane della Spluga. Del Radetzki si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giardiniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fianco al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano inferiore. L'albero le toglieva la vista del chiaro levante; ella era contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoi sguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lontane e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo un momento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le eriche bianche del ripiano inferiore, pure fiorite. «Le bruyères blanches portano fortuna», diss'egli. Vedendo che Luisa, distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra delle begonie. «Vecchio strobus », diss'egli parlando forte per farsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. «Vecchio strobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardino privato...»

Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il braccio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspettando presso l'entrata del boschetto di lauri, vide la signora muovere verso il signore seduto, affrettare il passo, precipitarsi con un grido sopra di lui. Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Piero era stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiato alla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto col mento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Era proprio stato uno spettacolo di addio quello che la sua Valsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro venerato vecchio, l'uomo savio, l'uomo giusto, il benefattore dè suoi, lo zio Piero era partito, partito per sempre. Egli era venuto, sì, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superiore, ed ecco era suonato l'appello, egli aveva risposto. I tamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di un mondo, l'avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spuntava un germe vitale preparato alle future battaglie dell'era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quelli onde l'uomo del mondo antico usciva in pace, benedetto all'ultimo momento, senza saperlo, da quell'ignoto prete dell'Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le sante parole a un più degno.

PARTE TERZA - 2. Solenne rullo (parte 2) PART THREE - 2. Solemn roll (part 2)

«Scusi, signore», disse il cameriere che serviva. «Mi pare che il signore parlasse di entrare nel 9° reggimento!» «Sì!» «Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel 10°. Ci siamo fatti onore nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia, Governolo, Volta! Adesso tocca a Loro.»

«Faremo il possibile.» Luisa ebbe un lieve brivido. Gl'inglesi che pranzavano alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco. Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passò la visione di una colonna di fanteria lanciata alla baionetta, fra la mitraglia. Dopo pranzo lo zio rimase all'albergo per il suo solito chilo e Franco uscì con Luisa. Presero a destra, verso il Palazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche rara gocciolina, gli scalini che mettevano dalla riva al cortile della villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco offerse il braccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si fermarono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contar le ore che suonavano all'orologio del Palazzo. Sei. Erano passate due ore, ne restavano altre undici; poi veniva la separazione, l'ignoto. Si incamminarono lentamente, sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e il fianco del Palazzo, a quell'angolo che guarda l'isola dei Pescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donne venivano loro incontro a braccetto, chiacchierando. Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie se si ricordava dei Rancò. Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto con altri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pascoli di Valsolda, che si attraversano per salire al Passo Stretto. Avevano avuto una disputa vivace, un'ora di broncio e di tormento. «Sì», rispose Luisa. «Mi ricordo.» Sentirono ambedue nello stesso momento quanto l'ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fosse doloroso a dire. Non parlarono più fino all'angolo. Un suono di campane veniva dall'isola dei Pescatori. Franco lasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto. Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumi dell'altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle campane che parevano di una nave perduta in mare, il silenzio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova, tutto era così triste! «E ti ricordi poi?», mormorò Franco senza voltar il viso. Anche Luisa s'era appoggiata al parapetto. Tacque un poco, indi rispose sottovoce:

«Sì, caro». Ah vi era nel suo caro un lieve recondito principio di calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentì, n'ebbe una scossa di gioia ma si contenne. «Penso», riprese, «alla lettera che t'ho scritto subito, appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai detto il giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar a prendere il tuo scialletto che avevi posato sull'erba. Te le ricordi?» «Sì.» Egli le prese una mano, se la recò alle labbra. «Ti ringrazio ancora», diss'egli, «per quelle tre parole. Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella discesa t'ho dato il braccio e che c'era chiaro di luna?» «Sì.» «E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di arrivare al ponte e che tu mi hai detto: "Caro signore, tocca a Lei di sostenere me"?» Luisa non rispose, gli strinse la mano. «Non sono stato buono a nulla», diss'egli tristemente. «Non ti ho saputo sostenere.» «Hai fatto tutto quello che potevi.» La voce di Luisa, dicendo così, era fioca, ma ben diversa da quando ell'aveva detto: il mio cuore è freddo. Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passi lenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inerte quanto prima, tradiva un'agitazione, una lotta. Franco si fermò e disse piano: «E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?» Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla e sussurrò: «No, resta». Franco non intese, domandò: «Cosa?». Non udì rispondere, piegò adagio adagio il viso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuore gli batté, gli batté forte, più forte ancora di quando aveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzò il viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscì di metter fuori queste parole: «Le dirò che hai promesso...». «No», mormorò Luisa, accorata, «quello non lo posso, non domandarmelo, non è più possibile.» «Cosa, non è possibile?» «Oh, intendi bene! Anch'io ho inteso bene cosa volevi dir tu.» Ella riprese a camminare, volendo staccarsi da quel discorso. Tenne però il braccio del marito, che la fermò. «Luisa!», diss'egli, severo, quasi impetuoso. «Mi lascerai partire così? Sai cosa vuol dire per me partire così?» Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello di lui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiò guardando l'acqua come a Oria, quella sera. Franco le restò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò di rispondergli. «Per me sarebbe meglio finirla nel lago», diss'ella, amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio, la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccio in aria. «Tu?», esclamò con sdegno. «Parlar così, tu che dicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo una volta che la più forte fossi tu. Adesso intendo che sono io il più forte. Molto più! Sai neanche immaginare cosa ho sofferto io in questi anni? Sai neanche immaginare...» Sentì la voce sfuggirsi un momento ma si padroneggiò e proseguì: «Sai neanche immaginare cosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza necessità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importi nulla di lacerarmi l'anima?». Ella gli si gettò fra le braccia. Nel silenzio che seguì, rotto solo da uno spasimo di singhiozzi repressi, Franco udì venir gente e durò fatica a staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa il cammino dell'albergo. «Tu! tu!», sussurrò. «E non vuoi che desideri di morire io, quando posso morir bene, per il mio paese?» Luisa gli stringeva il braccio senza parlare. Incontrarono due giovani amanti, che passando loro accanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise. Giunti sugli scalini che scendono sul piazzaletto davanti a S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa si fermò un momento sul primo scalino e disse piano le tre parole di Muzzaglio: «Ti amo tanto».

Franco non rispose che con una stretta del braccio. Discesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all'Albergo del Delfino . Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamazzavano si alzarono all'apparir di Franco e di Luisa, si fecero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò del momento buono per vuotare l'ultima bottiglia. «Signora», disse il primo che si presentò a Luisa. «Suo marito Le avrà già annunciato i Sette Sapienti.» Successe subito un gran baccano perché Franco aveva dimenticato di dire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Torino e s'erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, promettendo una visitina d'omaggio alla signora. «El più sapiente son mi», disse alzandosi il Padovano, che aveva vuotata la bottiglia. «Vualtri fè bordelo e non bevì; mi bevo e no fazzo bordelo.» «Quello, signora», disse un bel giovane, «è, com'Ella ben intende, l'asino sapiente della compagnia.» «Tasi, Fante!» «Signora!», fece il Padovano avanzandosi e salutando. «Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?», disse Luisa, sorridendo, al bel giovane. Ella fu affabile con tutti, ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro, dai baffi arricciati: «Lei dev'essere il signor Caval di spade». «No xe vero, signora», esclamò il Padovano mentre gli altri applaudivano, «che se vede la bestia?» Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartire subito, ma Franco fece portare altre due bottiglie e il chiasso divenne così enorme, malgrado la presenza di Luisa, che l'albergatore venne a pregare, per amore dè suoi inglesi, di non far tanto «rabello». Il Padovano gli snocciolò dolcemente una litania placida di vituperi padovani. Colui non capì, fece un risolino stupido e se n'andò. I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche loro una giornata di libertà prima di arruolarsi. Entravano tutti, meno il Caval di spade, nello stesso reggimento. Bevvero al 9° fanteria, alla brigata Regina, a tutti i «pistapauta» nazionali nel presente e nell'avvenire e discussero sul luogo e il nome della prima battaglia che si darebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padovano furono per una «battaglia del Ticino». Il Padovano voleva una battaglia di Gorgonzola. «No sentì che nome militar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!» Era scritto nel Libro del Destino ch'egli sarebbe caduto appunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheggia di granata nella coscia, combattendo da buon soldato a due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parlavano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate, parlavano della futura Italia dicendo alquante corbellerie, ma si sentiva che non importava loro un fico secco della vita pur di farla libera, questa vecchia patria, e grande. «Ghe pàrele teste da far l'Italia?», disse il Padovano a Luisa. «Gnanca So marìo, sala. Un bon toso, ma par far l'Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia che vien fora! I nostri fioi ne farà el monumento, ma dopo vegnarà, capisela, con licenza, quelle figure porche de quei nevodi, che me par de sentirli: "Che da can", i dirà, "che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia! "» I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco di trovarsi l'indomani mattina sul primo battello. Franco li accompagnò alla barca e intanto sua moglie salì a vedere dello zio Piero. Egli aveva dato l'incarico all'albergatore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto sonno, era andato a letto. Infatti Luisa lo udì dormire rumorosamente. Posò il lume e attese Franco. Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dormiva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui prima d'andar a letto, perché il battello partiva di gran mattino, alle cinque e mezzo. L'uscio della camera era chiuso, tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in punta di piedi e di parlar sottovoce. Gli raccontò ciò che le aveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ella sperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alle dieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Magadino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su queste apprensioni per la salute dello zio; parlava, parlava, nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tener lontane con quest'ombra carezze troppo tenere. In pari tempo andava e veniva per la camera, pigliando e posando le stesse cose, un po' per nervosità, un po' con la intenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Egli pareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tracolla che non riusciva ad aprire. Finalmente l'aperse, chiamò sua moglie a sé, le diede un rotolo d'oro, cinquanta pezzi da venti lire. «Capisci», le disse, «che almeno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questi non sono miei, li ho avuti a prestito.» Poi trasse di tasca una lettera suggellata. «E questo è il mio testamento», soggiunse. «Ho poco ma devo pur disporre anche di quel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre che hai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cui devo le mille lire. A parte del testamento ci sono due righe particolari per te. Ecco.» Egli parlava con dolcezza grave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera, le mani tremavano. Gli disse «grazie», cominciò a sciogliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene che si facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e da un'altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rotta che dovendo alzarsi così presto per accompagnarlo al vapore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsi vestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e si cominciò a spogliare, si levò dal collo una catenella e una crocettina d'oro ch'erano state di sua madre. «Tienle tu», diss'egli porgendole a Luisa. «È meglio. Non si sa mai, potrebbero cadere in mano ai croati.» Ella inorridì, tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinse da soffocarlo.

Il cameriere bussò all'uscio degli sposi verso le quattro e mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella camera dello zio ch'era svegliato. Prese congedo da lui e propose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisse lì. Ell'aveva nel viso e anche nella voce una espressione di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse, abbracciò e baciò suo marito come trasognata e come trasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse in esso un lampo del pensiero che occupava l'animo di lei? Se ciò avvenne fu nel salotto dell'albergo mentre prendeva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve che scoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisionomia, perché si fermò a contemplarla con la tazza di caffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza, un'ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manifestamente, non desiderava di parlare ma egli sì. Una parola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli luceva negli occhi; la bocca non osò dire niente.

Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si appoggiarono al muro cui s'era appoggiata Luisa il giorno prima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbracciarono per l'ultima volta, si dissero addio senza lagrime, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occulto che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò con fracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò: «Avanti chi parte!». Un bacio ancora: «Dio ti benedica!», disse Franco e saltò sul battello.

Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delle ruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornò all'albergo, sedette sul letto, stette lì come petrificata in quest'idea, in questa istintiva certezza ch'era madre una seconda volta. Benché fosse appunto la cosa tanto temuta, non si può dire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsi dentro una voce così forte, chiara e inesplicabile, vinse in lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sempre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro del Destino nulla potesse più avere di nuovo per lei, che certe intime fibre del suo cuore fossero morte. E adesso una Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: «Sappi che nel Libro del tuo Destino una pagina si chiude, un'altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita intensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto, continua e dev'essere straordinario se Io te lo annuncio». Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisa restò assorta in questa Voce.

Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempo era umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non volle saperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desiderato, sino all'ora di partire per Magadino. Sapeva, per averne chiesto all'albergatore, che dalle nove in poi si poteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte, vi si avviò con Luisa. Passando da San Vittore desiderò entrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, il celebrante si voltava a dire: « Benedicat vos omnipotens Deus ». Lo zio si fece un gran crocione, ascoltò l'ultimo vangelo, rinunciò a veder le pitture perché c'era poca luce e uscì di chiesa dicendo con la sua giovialità solita: «Eccomi felice e contento d'essere andato a farmi benedire». Non era possibile aver fretta, con lui. Si fermava ad ogni passo, guardando tutto che avesse forma d'arte, tutto che fosse disposto per venir guardato. Contemplò la facciata della chiesa, la triplice gradinata della sbarco Borromeo, ciascuno dei tre lati del cortile e la gran palma nel mezzo, che Luisa, con grave scandalo di lui, non aveva neppur veduta passando di là insieme a Franco, la sera prima. Quando il custode li introdusse nel Palazzo ci vollero almeno dieci minuti per salire, ammirando, lo scalone. Come ne fu a capo uscì un raggio di sole e il custode propose di approfittarne per vedere il giardino. Prese a sinistra e per una fila di sale vuote accompagnò i visitatori al cancello di ferro, suonò il campanello. Venne un giardiniere, un giovinetto educato che piacque molto allo zio perché gli spiegava tutto con buon garbo, e lo zio non domandava poco. Ci vollero cinque minuti per l'albero della canfora, presso l'entrata. Luisa ci soffriva, temeva che lo zio si stancasse troppo e si stancava moltissimo ella stessa di dover guardare tante piante, udire tanti nomi latini e volgari, fare attenzione allo zio, mentre i suoi pensieri avrebbero voluto silenzio e solitudine. Il giardiniere propose di salire al Castello di Nettuno. Lo zio avrebbe desiderato veder da vicino il liocorno dei Borromei che s'impenna lassù, ma c'erano parecchi scalini a fare, l'aria era pesante ed egli esitava. Luisa approfittò di quell'esitazione per chiedere al giardiniere dove avrebbero trovato un sedile. «Qui sotto», rispose colui, «a sinistra, sulla piazza degli Strobus .» Lo zio si lasciò persuadere a discendere su questa piazza degli Strobus .

Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e d'interrogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udì venir da lontano, dalla parte dell`Isola Madre, un rullo di tamburi e ne domandò al giardiniere. Erano i tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizi sulla riva. «Adesso si fa per giuoco», disse il giovinetto. «Mica per giuoco, ma insomma...! Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro.» Il mostro era il vapore austriaco da guerra Radetzki , detto dai riverani piemontesi Radescòn . «Entra adesso nel porto di Laveno», disse il giovinetto. «Viene da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene.»

Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buoni e sedette sul primo sedile che trovò sotto gli strobus , posto a ridosso di una macchia di bambù e fiancheggiato da due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambù, fra i grossi tronchi distorti degli strobus , si vedeva tremolare lo specchio delle acque bianche fino alla lista nera delle colline d'Ispra. Il cielo, fosco a settentrione, era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono fino al cancello stemmato che guarda la verde Isola Madre, Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla gran distesa delle acque plumbee, incoronate di colossi nebbiosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno ai monti di Maccagno, alle nevi lontane della Spluga. Del Radetzki si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giardiniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fianco al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano inferiore. L'albero le toglieva la vista del chiaro levante; ella era contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoi sguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lontane e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo un momento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le eriche bianche del ripiano inferiore, pure fiorite. «Le bruyères blanches portano fortuna», diss'egli. Vedendo che Luisa, distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra delle begonie. «Vecchio strobus », diss'egli parlando forte per farsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. «Vecchio strobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardino privato...»

Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il braccio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspettando presso l'entrata del boschetto di lauri, vide la signora muovere verso il signore seduto, affrettare il passo, precipitarsi con un grido sopra di lui. Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Piero era stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiato alla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto col mento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Era proprio stato uno spettacolo di addio quello che la sua Valsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro venerato vecchio, l'uomo savio, l'uomo giusto, il benefattore dè suoi, lo zio Piero era partito, partito per sempre. Egli era venuto, sì, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superiore, ed ecco era suonato l'appello, egli aveva risposto. I tamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di un mondo, l'avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spuntava un germe vitale preparato alle future battaglie dell'era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quelli onde l'uomo del mondo antico usciva in pace, benedetto all'ultimo momento, senza saperlo, da quell'ignoto prete dell'Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le sante parole a un più degno.