Parte 7
Il podestà era sulla piazza, il pomeriggio, per condurmi dalla sorella. Donna Caterina Magalone Cuscianna ci aspettava, aveva preparato il caffè e dei dolci di farina fatti con le sue mani. Mi accolse con grande cordialità sull'uscio, mi condusse in salotto, una stanza dai mobiletti modesti, piena di ninnoli a buon mercato, di cuscini con il Pierrot e di bamboline di panno, si informò della mia famiglia, commiserò la mia solitudine, mi assicurò che avrebbe fatto il possibile per rendere meno sgradevole il mio soggiorno: fu, insomma, l'amabilità in persona. Era una donna di una trentina d'anni, piccola e grassoccia. Di viso assomigliava al fratello, ma con un aspetto più volontario e appassionato. Gli occhi aveva nerissimi, come i capelli; la pelle lucida e giallastra e i denti guasti le davano un aspetto malsano. Era vestita da donna di casa in faccende, con gli abiti in disordine per il lavoro e per il caldo. Parlava con una voce alta, stridula, sempre tesa e esagerata. - Vedrà, dottore, qui si troverà bene. Per la casa me ne occuperò subito. Ora non ce ne sono, ma presto se ne faranno delle libere. Lei deve avere un buon alloggio, e una stanza per ricevere i malati. Le troverò anche una serva. Assaggi queste focacce, lei sarà abituato a cose più fini. La sua mamma ne farà di migliori. Queste sono all'uso del paese. Ma come mai l'hanno mandato al confino? Certamente è stato uno sbaglio. Mussolini non può essere informato di tutto, c'è chi magari crede di far bene, e fa delle cose ingiuste. E poi, in città, si possono avere dei nemici. Da queste parti ci sono anche dei fascisti confinati. C'è Arpinati, il federale di Bologna, in un paese qua vicino: lui però può viaggiare come gli pare. Ora avremo la guerra. Mio marito è andato volontario. Capisce, con la sua carica, doveva dare l'esempio. Non importano le idee, ma la Patria. Anche lei è per l'Italia, non è vero? Certo, l'hanno mandata qui per errore. Ma per noi e una grande fortuna che lei sia arrivato! - Don Luigi, con l'aria di chi non si vuol compromettere, taceva; e di lì a poco, dicendo che aveva da fare, se ne andò. Rimasti soli, donna Caterina, mentre mi versava il caffè nella tazzina giapponese, e mi invitava ad assaggiare una marmellata di cotogne fatta in casa, continuava, sullo stesso tono eccessivo, a lodarmi e a promettermi il suo aiuto in quanto potesse occorrermi. Era cordialità naturale, o gusto femminile e materno di protezione, o piacere di mostrare la sua autorità nel paese e la sua abilità di donna di casa a un signore del nord? C'era tutto questo, c'era la cordialità, c'era la maternità, c'era l'autorità politica, c'era l'abilità di cucina: donna Caterina Sapeva fare veramente bene le marmellate, le conserve, le torte, le olive al forno, i fichi secchi con le mandorle e le salsicce col peperone spagnolo. Ma, si sentiva, c'era anche dell'altro: una passione più precisa e personale, nella quale il mio arrivo inaspettato si inseriva e prendeva posto; una passione che il mio arrivo rinforzava, come un vento improvviso, un fuoco sopito. - È una grande fortuna averla qui con noi! Deve starci tre anni? Capisco che lei vorrà andarsene prima, e glielo auguro, ma per noi vorrei che lei restasse. Ė un buon paese, tutti buoni italiani e fascisti, e poi, Luigino e podestà; mio marito era segretario del fascio, e nella sua assenza sono io che ne faccio le veci: non c'è molto da fare. Lei sarà come in famiglia. Finalmente avremo un medico, non ci toccherà più fare un viaggio ogni volta che siamo malati. A proposito, le farò vedere mio suocero che sta qui con me. Lo zio Giuseppe, il dottor Milillo, è vecchio e si deve ritirare. E quell'altro, che avvelena tutto il paese con la farmacia delle sue nipoti, non avvelenerà più nessuno, lui e quelle donnacce, lui e quelle puttane!- La voce di donna Caterina era ad un tratto arrivata al massimo dell'acutezza e dell'esasperazione: la passione sotterranea, e che non riusciva a nascondersi, non c'era dubbio, era l'odio; un odio concentrato, continuo come una fissazione, e, nell'ozio di ogni altro sentimento, e nell'animo di una donna, pratico, creativo, combinatorio. Donna Caterina odiava quelle «donnacce» della farmacia, odiava il loro zio, il dottor Concetto Gibilisco, odiava tutto il partito di parenti e di compari di San Giovanni che faceva capo a lui, odiava quelli che a Matera lo proteggevano. Io ero stato mandato dalla Provvidenza, e non importava quale fosse il pretesto politico del mio arrivo, unicamente perché potessi servire di strumento al suo odio. Io dovevo ridurre Gibilisco sul lastrico, e far chiudere la farmacia, o farla togliere alle sue nipoti. Donna Caterina era una donna attiva e immaginativa. Era la vera padrona del paese. Molto più intelligente del fratello, e piú volontaria, sapeva di poter fare di lui quello che voleva, pur di lasciargli l'apparenza dell'autorità. Che cosa fosse il fascio e il fascismo, non le interessava e non lo sapeva. Per lei, essere segretario del fascio era un mezzo qualunque per comandare. Appena saputo del mio arrivo, aveva subito immaginato un piano d'azione, lo aveva imposto al fratello e aveva ottenuto, per quanto con maggiore difficoltà, di farlo tollerare al vecchio zio. Essa supponeva che io ci tenessi a fare il medico, e a cavarne il massimo guadagno possibile: bisognava incoraggiarmi in questo proposito, e assicurarmi che, grazie alla loro autorità, non me ne sarebbero venute delle noie; farmi capire che dipendeva da loro riuscire nel mio intento. Bisognava subito usarmi ogni cortesia e insieme farmi conoscere la sua potenza, per evitare che io potessi, magari inconsapevolmente, accordarmi in qualche modo con i loro nemici. Don Luigino, abituato a molto rigore con i confinati, temeva di compromettersi trattandomi con gentilezza, e non voleva invitarmi a casa sua: i suoi nemici avrebbero potuto denunciarlo; sarebbe stata dunque lei stessa ad agire, e a cercare di trarmi dalla loro parte. Questo suo odio era un aspetto dell'odio tradizionale fra i due gruppi di famiglie dominanti il paese; e forse anche qui, come a Grassano, si sarebbe potuto risalire molto addietro. Si può supporre che i Gibilisco, famiglia di medici, fossero un secolo fa dei liberali, e i Magalone, di estrazione piú popolare e più recente, avessero avuto a che fare coi borbonici e coi briganti; non potei mai appurare le cose. Ma è certo che, oltre alla inimicizia tradizionale, una ragione più particolare e privata muoveva il cuore di donna Caterina, e non tardai, dai suoi accenni non abbastanza reticenti e dalle chiacchiere delle donne in paese, a conoscerla. Il marito di donna Caterina, un grosso uomo dalla faccia militarescamente burbanzosa e ottusa, la cui fotografia in divisa da capitano troneggiava nel salotto, il maestro di scuola Nicola Cuscianna, segretario del fascio di Gagliano e braccio destro di suo cognato e di sua moglie nel dominio sul paese, era stato stregato dai begli occhi neri, dall'alto corpo flessuoso, dalla bianca carnagione della bella figlia del farmacista, che pure apparteneva alla famiglia nemica. Se fossero davvero amanti o se la cosa non fosse che una esagerazione di male lingue, non l'ho mai potuto sapere, ma donna Caterina ne era convinta. Donna Caterina non era più giovane, i vent'anni e la bellezza della sua rivale non potevano non farla tremare. I due supposti amanti non potevano mai vedersi, in un paese così piccolo, con mille occhi attenti su di loro, e con quelli vivi e sempre aperti di donna Caterina, che non li perdeva di vista un minuto. Non c'era che un mezzo per poter soddisfare l'irresistibile passione, secondo quanto immaginava, nella sua gelosia, la moglie tradita: donna Caterina doveva scomparire; ed essi così avrebbero potuto sposarsi. La bruna incantatrice e la sua bionda e insignificante sorella erano le padrone incontrollate e incompetenti della farmacia paterna, affidata illegalmente alla loro gestione; e tutto il paese mormorava e temeva gli effetti della loro eccessiva disinvoltura nel pesare le medicine. Il mezzo per la soppressione di donna Caterina era dunque a portata di mano: il veleno. E il veleno avrebbe operato senza pericolo di scoperta: dei due medici del paese, l'uno era lo zio dell'avvelenatrice, e certamente complice; l'altro, vecchio e rimbambito, non era in grado di accorgersi di nulla. Donna Caterina sarebbe morta, e i due amanti, impuniti e felici, avrebbero riso insieme sulla sua tomba.
Quale verità stava sotto questa immaginazione delittuosa? Quali indizi segreti, quali biglietti d'amore carpiti, quali velati accenni nella convivenza quotidiana avevano generato in quell'animo geloso e violento, il dubbio prima, e poi una specie di ossessionata certezza? Lo ignoro: ma donna Caterina credeva al prodotto della sua fantasia; e del progettato delitto riversava la colpa non tanto sul marito, che era stato stregato, quanto sulla rivale, e su tutti coloro che avevano, in qualunque modo, a che fare con lei. L'odio tradizionale, la lotta personale per il potere in paese, alimentata da queste nuove ragioni, si fece violenta e feroce. L'avvelenatrice e tutti i suoi dovevano pagar caro il loro delitto. Quanto al marito, donna Caterina sapeva come trattarlo. Non si doveva fare scandali, nessuno doveva sospettare di nulla. Donna Caterina gli rinfacciò ogni giorno, fra le pareti domestiche, le sue colpe, lo accusò di adulterio e di assassinio, e gli vietò l'accesso al letto coniugale. L'autorevole e temuto segretario del fascio di Gagliano perdeva, entrando in casa sua, ogni burbanza: sotto gli occhi neri e fiammanti della moglie egli era l'ultimo dei reprobi, un peccatore senza possibilità di perdono; e doveva acconciarsi a dormire solo, su un sofà nel salotto. Questa triste vita durò sei mesi; finché apparve la sola possibilità di salvezza e di redenzione: la guerra d'Africa. Il delinquente umiliato chiese di andare volontario, pensando che avrebbe così espiato le sue colpe, si sarebbe riconciliato, al ritorno, con la moglie, e intanto avrebbe preso lo stipendio di capitano, assai superiore a quello di maestro di scuola; e partì. Il suo esempio, purtroppo, non fu seguito da nessuno. Il capitano Cuscianna e il tenente Decunto di Grassano di cui ho parlato furono i soli volontari in questi due paesi. Ma, seppure a pochi, anche le guerre servono a qualche cosa. Il capitano Cuscianna era dunque un eroe, donna Caterina la moglie di un eroe, e nessuno del partito avverso poteva vantare, a Matera, simile benemerenza. E ora io ero arrivato, mandato evidentemente da Dio, per aiutare donna Caterina a compiere le sue vendette.
- Anche Luigino voleva andare volontario, con mio marito. Si vogliono bene come due fratelli. Sempre assieme, sempre l'uno per l'altro. Ma Luigino ha poca salute, è sempre malato. Fortuna che ora c'è lei. E poi, chi sarebbe rimasto in paese, per tenere un po' d'ordine e fare la propaganda? - mi diceva la donna, mentre, attirato dall'odore delle focaccine, faceva il suo ingresso nella stanza, a passettini cortissimi, lenti e impacciati, avvolto in una palandrana, con una papalina ricamata in capo e la pipa nella bocca sdentata, don Pasquale Cuscianna, suo suocero. Era un vecchio grasso, pesante e sordo, goloso e avidissimo come un enorme baco da seta. Era anche lui, come suo figlio e don Luigi Magalone, maestro elementare: da parecchi anni in pensione. Gagliano, come l'Italia, era in quel tempo in mano ai maestri di scuola. Onorato da tutti, stava in casa tutto il giorno mangiando o dormendo, o si sedeva sul muretto della piazza a fumare. Era malato, mi disse subito la nuora, aveva un restringimento uretrale, e forse un po' di diabete. Questo non gli impedì di buttarsi, appena arrivato, a divorare con straordinaria voracità le focaccette avanzate. Si sdraiò poi, con dei grugniti di soddisfazione, su una sedia a sdraio, fece mostra di partecipare alla conversazione, di cui non sentiva nulla per la sordità, con qualche borbottìo, e, bofonchiando e soffiando a tratti, non tardò ad addormentarsi.
Stavo per prendere congedo, quando si precipitarono nella stanza strillando, saltando, gesticolando, stupefacendosi, esclamando, levando le braccia al cielo, abbracciando donna Caterina due ragazze sui venticinque anni, età, in questi paesi, già rispettabile per una guagnedda vacantía, per una fanciulla da marito. Erano tarchiate, grassotte, esuberanti, nere come sacchi di carbone, con neri capelli corti arricciolati e svolazzanti, neri occhi che lanciavano fiamme, neri baffi sulle grandi bocche carnose e neri peli sulle braccia e sulle gambe in perpetuo movimento. Erano le due figlie del dottor Milillo, Margherita e Maria. Donna Caterina le aveva mandate a chiamare per presentarmele; le due fanciulle si erano tinte le labbra per l'occasione, con spessi strati di rossetto stridente, si erano infarinate il viso con una cipria candida, avevano infilate delle scarpe col tacco, ed erano accorse. Erano delle gran buone ragazze, senza un pensiero in mente, di una meravigliosa ingenuità e ignoranza. Tutto le stupiva, di tutto facevano le meraviglie, del mio cane, del mio vestito, della mia pittura, con degli urti di voce acutissimi, il frinire e i salti di due nere cavallette. Si misero subito a parlare di focacce, di torte e di cucina. Donna Caterina non finiva di farmi il loro elogio: erano due ottime massaie. Probabilmente anche Margherita e Maria entravano nei calcoli appassionati di donna Caterina: erano insieme il mezzo, nella sua immaginazione, per persuadere lo zio a farmi buon viso, e per attrarmi, e forse legarmi, al suo partito: chi infatti avrei potuto desiderare di meglio, in un paese, che una figlia di dottore? Donna Caterina mi aveva chiesto se non ero fidanzato, e avrebbe poi, con comodo, potuto controllare la mia risposta negativa con la censura postale fatta di nascosto da don Luigino.
Le due povere fanciulle, come me strumenti inconsapevoli di una superiore Provvidenza, erano accompagnate da un ragazzotto sui diciott'anni mal vestito, con un viso giallo e storto, dagli occhi ebeti, e un grande labbrone penzolante, che rimaneva, zitto e intontito, in un angolo della stanza. Era il loro fratello, l'unico maschio di casa Milillo. Il vecchio dottore, che intanto era arrivato, mi confidò che il ragazzo, che era buonissimo, gli dava però pensiero, perché, avendo avuto una cefalopatia, era rimasto un po' arretrato, e non c'era verso di farlo studiare. Lo aveva mandato al ginnasio, e in non so quali altre scuole, ma senza successo. Aveva provato a fargli studiare agraria, e non c'era riuscito. Il ragazzo voleva entrare ora al corso per sottufficiale dei carabinieri, e sarebbe partito tra poco. Non sognava che la divisa. Non era questo l'avvenire che il padre aveva sperato per lui, ma era tuttavia una buona posizione. Io non potevo dargli torto: sarebbe stato, il povero demente, un brigadiere inoffensivo.
Donna Caterina riportò il discorso, ad intenzione dello zio, sulla mia arte medica. Avevo un bello sforzarmi a farle intendere che io desideravo soltanto di fare il pittore: essa non mi ascoltava. E il dottore, col suo abituale imbarazzato balbettio, mi raccomandò che, ad ogni modo, se avessi visitato dei malati, badassi a non lasciarmi ingannare da una malintesa generosità o dal buon cuore, perché tutti cercavano di non pagare, ma invece le tariffe nazionali erano obbligatorie, che si era tenuti a rispettarle per solidarietà professionale, per il decoro a cui non si poteva mancare, o che so io. Il vecchio medico non apparteneva se non passivamente al partito dei suoi nipoti, e non partecipava se non per obbligo di parentela alle loro passioni. Era «troppo buono», come dicevano donna Caterina e don Luigino. Antico nittiano, arrivava anche a disapprovare in privato il fascismo del podestà e a criticare la sua fanfaronaggine, le sue arie di autorità e i suoi gusti polizieschi, ma finiva per adattarvisi, per amor di pace, e per trovarci il suo tornaconto. Si sarebbe acconciato, sotto la spinta dei nipoti, e fors'anche per l'interesse delle figlie, a non mettermi i bastoni nelle ruote; ma non voleva apparire come un vecchio di cui non si dovesse tener conto e che, si potesse manovrare a piacimento. Aveva il suo decoro e il suo puntiglio. Perciò dovetti subirmi da lui delle lunghissime, complicate spiegazioni e un mucchio di paterni e interessati consigli. Badassi a farmi pagare, rispettassi le tariffe, non credessi alle chiacchiere dei contadini, che sono bugiardi e ignoranti, e quanto più sono beneficiati, tanto più sono sconoscenti e ingrati. Egli era in paese da più di quarant'anni, li aveva curati tutti, li aveva beneficati in tutti i modi, e quelli lo ripagavano dicendo che era rimbambito e incapace. Ma egli era tutt'altro che rimbambito. Era doloroso vedere l'ingratitudine dei contadini. E le loro superstizioni. E la loro ostinazione. E così via, all'infinito. Quando potei finalmente liberarmi dai balbettii senili del dottore, dagli strilli entusiastici delle figlie, dai grugniti di don Pasquale e dai sorrisi d'intesa di donna Caterina, era il crepuscolo. I contadini risalivano le strade con i loro animali e rifluivano alle loro case, come ogni sera, con la monotonia di una eterna marea, in un loro oscuro, misterioso mondo senza speranza. Gli altri, i signori, li avevo ormai fin troppo conosciuti, e sentivo con ribrezzo il contatto attaccaticcio della assurda tela di ragno della loro vita quotidiana; polveroso nodo senza mistero, di interessi, di passioni miserabili, di noia, di avida impotenza, e di miseria. Ora, come domani e sempre, ripassando per l'unica strada del paese, avrei dovuto ancora rivederli sulla piazza, e riascoltare senza fine i loro astiosi lamenti. Che cosa ero venuto a fare quaggiù?
Il cielo era rosa verde e viola, gli incantevoli colori delle terre malariche, e pareva lontanissimo.