Parte 8
Rimasi in casa della vedova per una ventina di giorni, in attesa di trovare altro alloggio. L'estate splendeva nel suo ardore funesto: il sole pareva fermarsi in mezzo al cielo, le argille si spaccavano per l'arsura. Nelle fessure della terra assetata si annidavano le serpi, le vipere corte e tozze di qui, che i contadini chiamano cortopassi, dal veleno mortale. «Cortopassi cortopassi, ove te trova, là te lassi». Un vento continuo faceva asciugare anche i corpi degli uomini: le giornate passavano in una luce senza pietà, monotone nell'attesa del tramonto e del fresco della seta. Stavo seduto nella cucina, e contemplavo il volo delle mosche, unico segno di vita nell'immobile silenzio della canicola. Le imposte di legno, tinte di azzurro verdastro, ne erano coperte: migliaia di punti neri, fermi nel sole, vagamente sussurranti, su cui l'occhio si fissava, oziosamente incantato. A un tratto uno dei punti neri scompariva, col brusio di un volo subitaneo e invisibile, e al suo posto appariva come una piccola stella, un punto luminosissimo bianco coi bordi dorati, che si spegneva a poco a poco. E un'altra mosca si alzava per l'aria, e un'altra stella appariva sull'azzurro dell'imposta; e così via, finché Barone, che sonnecchiava ai miei piedi, mugolando a qualche suo bizzarro sogno infantile, non balzava, risvegliato d'improvviso, e afferrava a volo un insetto, rompendo il silenzio col violento battere delle mascelle. Dalle ringhiere del balcone pendevano e dondolavano pigre al vento le trecce di fichi, nere di mosche che correvano a sorbirne gli ultimi umori, prima che la vampa del sole li avesse tutti succhiati. Davanti all'uscio, sulla strada, sotto agli stendardi neri seccavano al sole, su tavole dai bordi sporgenti, liquide distese color del sangue di conserva di pomodoro. Sciami di mosche passeggiavano a piede asciutto sulle parti già solidificate, innumerevoli come il popolo di Mosè; altri sciami precipitavano e s'impegolavano nelle zone bagnate di quel Mar Rosso, e vi annegavano come eserciti di Faraone, impazienti di preda. Il grande silenzio della campagna pesava nella cucina, e il mormorio continuato delle mosche segnava il passare delle ore, come la musica senza fine del tempo vuoto. Ma, a un tratto, dalla chiesa vicina, cominciava a suonare la campana, per qualche santo ignoto, o per qualche funzione deserta, e il suono riempiva lamentoso la stanza. Il campanaro, un ragazzotto sui diciott'anni, cencioso e scalzo, con un ipocrita sorriso ladresco, seguiva, nel suonare, una sua triste fantasia interminabile: per tutte le occasioni, era sempre la campana a morto. Il mio cane, sensibile alla presenza degli spiriti, non poteva tollerare quel rumore funebre; e al primo rintocco cominciava ad ululare, con un'angoscia straziante, come se la morte passasse attorno a noi. O forse era in lui una qualche natura diabolica, che si arrovellava a quel sacro concerto? Ad ogni modo, dovevo alzarmi e per calmarlo uscire con lui nel sole. Sui selciati bianchi saltavano le pulci; delle grosse pulci affamate, in cerca d'albergo; le zecche pendevano in agguato dai fili d'erba. Il paese pareva deserto di uomini. I contadini erano nei campi, le donne si celavano dietro le porte semichiuse. L'unica strada correva giù tra le case e i burroni, fino alla frana, senza un riposo d'ombra. Risalivo lentamente, in cerca degli olivi magri e dei cipressi, verso il cimitero.
Un incanto animalesco pareva stendersi sul paese abbandonato. Nel silenzio meridiano, un rumore improvviso rivelava una scrofa che si rotolava nelle immondizie: poi gli echi venivano svegliati dallo scroscio irresistibile di un raglio, più sonoro della campana, nella sua fallica grottesca angoscia. I galli cantavano, con quel loro canto del pomeriggio che non ha la gloriosa petulanza del saluto mattinale, ma la tristezza senza fondo della campagna desolata. Il cielo era pieno del volo nero dei corvi, e, più in alto, delle grandi ruote dei falchi: ci si sentiva guardati di fianco dai loro occhi immobili e rotondi. Invisibili presenze bestiali si manifestavano nell'aria, finché, di dietro a una casa, compariva, con un balzo delle sue gambe arcuate; la regina dei luoghi, una capra, e mi fissava con i suoi incomprensibili occhi gialli. Dietro alla capra correvano dei bambini, seminudi e cenciosi; e con loro veniva una minuscola monaca di quattro anni, con l'abitino e il soggolo e il velo; e un fraticello di cinque anni, con la tonaca e il cordone, così vestiti come dei monaci in miniatura o degli Infanti di Velasquez, come si usa spesso qui, per voto. I bambini volevano cavalcare sulla capra, il piccolo frate la prendeva per la barba e ne abbracciava il muso, la monachella si sforzava di salire sulla groppa, gli altri ragazzi la tenevano per le corna e per la coda; ed eccoli in sella, per un momento: poi la capra balzava d'un tratto, e si scrollava, e li buttava nella polvere, e si fermava a guardarli con un sorriso maligno. Quelli si rialzavano, la riacchiappavano e le rimontavano addosso, e la capra fuggiva saltando selvatica, finché tutti insieme scomparivano dietro la svolta.
I contadini dicono che la capra è un animale diabolico. Anche gli altri fruschi sono diabolici: ma la capra lo è più di tutti. Questo non vuol dire che sia cattiva, né che abbia nulla a che fare coi diavoli cristiani, anche se talvolta essi scelgano il suo aspetto per mostrarsi. Essa è demoniaca come ogni altro essere vivente, e più di ogni altro essere: poiché, nel suo aspetto animale, sta celata un'altra cosa, che è una potenza. Per il contadino essa è realmente quello che era un tempo il Satiro, un Satiro vero e vivo, magro e affamato, con le corna curve sul capo, e il naso arcuato, e le mammelle o il sesso penzolanti, peloso, un povero Satiro fraterno e selvatico in cerca d'erba spinosa sull'orlo dei precipizi. Guardato da questi occhi né umani né divini, accompagnato da queste potenze misteriose, arrivavo lentamente verso il cimitero. Ma gli olivi non fanno ombra: il sole attraversa la loro frasca leggera, come un velo di tulle. Preferivo allora entrare, per il cancelletto sgangherato, nel piccolo recinto del cimitero: era il solo luogo chiuso, fresco e solitario di tutto il paese. Era anche, forse, il luogo meno triste. Seduto in terra, il biancore abbagliante delle argille scompariva, nascosto dal muro: i due cipressi ondeggiavano al vento, e tra le tombe nascevano, strani in questa terra senza fiori, dei cespugli di rose. Nel mezzo del cimitero si apriva una fossa, profonda qualche metro, con le pareti ben tagliate nella terra secca pronta per il prossimo morto. Una scaletta a pioli permetteva di entrarci e di risalire senza difficoltà. In quei giorni di calura avevo preso l'abitudine, nelle mie passeggiate al cimitero, di scendere nella fossa e di sdraiarmi nel fondo. Il terreno era asciutto e liscio, il sole non arrivava laggiù, e non lo arroventava. Non vedevo altro che un rettangolo di cielo chiaro, e qualche bianca nuvola vagante: nessun suono giungeva al mio orecchio. In quella solitudine, in quella libertà passavo delle ore. Quando il mio cane era stanco di rincorrere le lucertole sul muro assolato, si affacciava sull'orlo della fossa e mi guardava interrogativo, poi rotolava per la scaletta, si accucciava ai miei piedi, e non tardava ad addormentarsi. E anch'io, ascoltando il suo respiro, finivo per lasciar cadere di mano il libro, e chiudevo gli occhi. Ci svegliava una strana voce senza sesso, né timbro, né età, che pronunciava parole incomprensibili. Un vecchio si sporgeva dal bordo della tomba, e mi parlava attraverso le sue gengive sdentate. Lo vedevo contro il cielo, alto e un po' curvo, con delle lunghissime braccia magre, come le ali di un mulino. Aveva quasi novant'anni, ma il suo viso era fuori del tempo, rugoso e sformato come una mela vizza: fra le pieghe della carne rinsecchita brillavano due occhi chiarissimi, azzurri e magnetici. Non un pelo di barba né di baffi gli cresceva, né gli era mai cresciuto, sul mento, e questo dava alla sua vecchia pelle un carattere bizzarro. Parlava un dialetto che non era quello di Gagliano, un miscuglio di linguaggi, perché aveva girato molti paesi, ma vi prevaleva la parlata di Pasticci, dove era nato in tempi remotissimi. Per questo, e per la mancanza dei denti che gli impastava le parole, e per il modo sentenzioso e rapido del suo discorso, dapprincipio mi riusciva oscuro: poi ci facevo l'orecchio, e si conversava a lungo. Ma non ho mai capito se egli veramente mi ascoltasse, o se seguisse soltanto il misterioso gomitolo dei suoi pensieri, che parevano uscire dalla indeterminata antichità di un mondo animalesco. Questo essere indefinibile indossava una camicia sudicia strappata, aperta sul petto, e anche qui non aveva peli, ma uno sterno sporgente come quello degli uccelli. Sul capo aveva un berretto rossastro, a visiera; che indicava forse una delle sue molte funzioni pubbliche: egli era insieme il becchino e il banditore comunale. Era lui che passava a tutte le ore per le vie del paese, suonando una trombetta e battendo su un tamburo che portava a tracolla, e con quella sua voce disumana annunciava le novità del giorno, il passaggio di un mercante, l'uccisione di una capra, gli ordini del podestà, l'ora di un funerale. Ed era lui che portava i morti al cimitero, che scavava le fosse e li seppelliva. Queste erano le sue attività normali, ma dietro ad esse c'era un'altra vita, piena di una oscura potenza impenetrabile. Le donne scherzavano con lui, quando passava, perché non aveva barba, e si diceva che in vita sua non avesse mai fatto all'amore. - Ci vieni stasera a letto con me? - gli dicevano dagli usci, e ridevano, nascondendo il viso dietro la mani. - Perché mi lasci dormire sola? - Scherzavano, ma ne avevano rispetto, e quasi paura. Perché quel vecchio aveva un potere arcano, era in rapporti con le forze sotterranee, conosceva gli spiriti, domava gli animali. Il suo antico mestiere, prima che gli anni e le vicende lo avessero fissato qui a Gagliano, era l'incantatore di lupi. Egli poteva, secondo che volesse, far scendere i lupi nei paesi, o allontanarli: quelle belve non potevano resistergli, e dovevano seguire la sua volontà. Si raccontava che, quando egli era giovane, girava per i paesi di queste montagne, seguito da mandre di lupi feroci. Perciò egli era temuto e onorato, e, negli inverni pieni di neve, i paesi lo chiamavano perché tenesse lontani gli abitatori dei boschi, che il gelo e la fame spingevano negli abitati. Ma anche tutte le altre bestie subivano il suo fascino, che non poteva rivolgersi alle donne; e non solo le bestie, ma gli elementi della natura e gli spiriti che sono nell'aria. Si sapeva che, nella sua gioventù, quand'egli falciava un campo di grano, faceva in un giorno il lavoro di cinquanta uomini: c'era qualcuno d'invisibile che lavorava per lui. Alla fine della giornata, quando gli altri contadini erano sporchi di sudore e di polvere, e avevano le schiene rotte dalla fatica e la testa rintronata dal sole, l'incantatore di lupi era più fresco e riposato che al mattino. Risalivo dalla mia fossa per parlare con lui: gli offrivo un mezzo toscano, che egli si affrettava ad accendere, infilandolo in un bocchino fatto dell'osso della gamba posteriore destra di un lepre maschio, annerito dagli anni. Si appoggiava alla vanga (egli scavava sempre nuove fosse) e si chinava a raccogliere, per terra, la scapola di un cristiano; la teneva un poco in mano, parlando, e poi la buttava in un canto. Il terreno era disseminato di ossa, che affioravano dalle vecchie tombe, che le acque e i soli avevano consumato; vecchie ossa bianche e calcinate. Per il vecchio le ossa, i morti, gli animali e i diavoli erano cose familiari, legate, come lo sono del resto, qui, per tutti, alla semplice vita di ogni giorno. - Il paese è fatto delle ossa dei morti, - mi diceva, nel suo gergo oscuro, gorgogliante come un'acqua sotterranea che esca improvvisamente fra le pietre; e faceva, con quel buco sdentato che gli serviva di bocca, una smorfia che forse era un sorriso. Se cercavo di fargli spiegare che cosa intendesse dire, non mi ascoltava, ma rideva, e ripeteva, senza mutarla, la stessa frase, rifiutando di aggiungere altro: - Proprio così, il paese è fatto delle ossa dei morti -. Aveva ragione, il vecchio, in tutti i modi, sia che lo si dovesse intendere in modo figurato e simbolico, sia che lo si dovesse prendere alla lettera. Quando, qualche tempo dopo, il podestà fece fare, non lontano dalla casa della vedova, uno scavo per porre le fondamenta di una casetta, opera del regime, da servire da sede dei balilla, a due palmi di profondità, invece di terra si trovarono ossa di morti, a migliaia, e per parecchi giorni il paese fu attraversato dai carretti carichi, che trasportavano le spoglie di quei nostri antichi parenti per essere buttate alla rinfusa giù nella Fossa del Bersagliere. Più recenti erano le ossa delle tombe sotto il pavimento della Madonna degli Angeli, la chiesa crollata; non ancor calcinate come quelle del cimitero; anzi molte portavano ancora attaccati dei brandelli secchi di carne o di pelle incartapecorita; e i cani le dissotterravano e se le disputavano, correndo con una tibia in bocca e abbaiando furiosi su per la via del paese. Qui, dove il tempo non scorre, e ben naturale che le ossa recenti, e meno recenti e antichissime, rimangano, ugualmente presenti, dinanzi al piede del passeggero. I morti della Madonna degli Angeli sono i più infelici nei loro sepolcri rovinati. Non soltanto i cani e gli uccelli ne disperdono i resti, ma quella fossa paurosa e viscida dove sono scivolati sotto le macerie, è visitata da altre presenze, e più spaventose. Una notte, non molto tempo prima, qualche mese o qualche anno, non potei farglielo precisare, poiché le misure del tempo erano, pel vecchio incantatore, indeterminate, egli tornava da Gaglianello, la frazione, e, giunto su un poggio, che è di fronte alla chiesa, il Timbone della Madonna degli Angeli, aveva sentito in tutto il corpo una strana stanchezza, e aveva dovuto sedersi in terra, sul gradino di una cappelletta. Gli era stato poi impossibile alzarsi e proseguire: qualcuno glielo impediva. La notte era nera, e il vecchio non poteva discernere nulla nel buio: ma dal burrone una voce bestiale lo chiamava per nome. Era un diavolo, installato là tra i morti, che gli vietava il passaggio. Il vecchio si fece il segno della croce, e il demonio cominciò a digrignare i denti e a urlare di spasimo. Nell'ombra il vecchio distinse per un momento una capra sulle rovine della chiesa saltare spaventosa, e scomparire. Il diavolo fuggì nel precipizio, ululando. - Uh! uh! - gridava dileguandosi: e il vecchio si senti ad un tratto libero e riposato, e in pochi passi ritornò in paese. Avventure di questo genere, del resto, glien'erano successe infinite, e me ne raccontava, se lo interrogavo, senza dare ad esse nessuna importanza. La sua vita era così lunga, che questi incontri non potevano non essere stati numerosi. Egli era così vecchio che al tempo dei briganti era già un giovanotto. Non potei mai sapere con certezza né fargli dire precisamente, se anch'egli fosse stato, come è probabile, uno dei loro: ma certo aveva conosciuto il famoso Ninco Nanco, e mi descriveva come l'avesse vista ieri, la compagna di Ninco Nanco, la Brigantessa, Maria 'a Pastora, che come lui era di Pisticci. Questa Maria 'a Pastora era una donna bellissima, una contadina, e viveva con il suo amante, in giro per i boschi e le montagne depredando e combattendo, vestita da uomo, sempre a cavallo. La banda di Ninco Nanco era la più crudele e la più ardita della regione; Maria 'a Pastora partecipava a tutte le azioni, agli assalti alle cascine e ai paesi, alle imboscate, alle taglie, alle vendette. Quando Ninco Nanco strappava con le sue mani il cuore dal petto dei bersaglieri che aveva catturato, Maria 'a Pastora gli porgeva il coltello. Il vecchio affossatore la ricordava benissimo, e un'ombra di compiacenza passava nella sua strana voce quando mi diceva come essa era bella, grande, bianca e rosata come un fiore, con le grandi trecce nere lunghe fino ai piedi, ritta in arcione al suo cavallo. Ninco Nanco era stato ammazzato, ma il vecchio non mi sapeva dire come fosse finita Maria 'a Pastora, questa dea della guerra contadina. Non era morta e non l'avevano presa, mi diceva; era stata vista a Pisticci, tutta vestita di nero: poi era scomparsa, col suo cavallo, nel bosco, e non s'era mai più saputo nulla di lei.