Parte 9
Nei dintorni del cimitero non andavo soltanto per ozio, in cerca di solitudine e di racconti. Era quello l'unico luogo, nello spazio consentito, dove non ci fossero case, e qualche albero variasse la geometria dei tuguri. Perciò lo scelsi come primo soggetto dei miei quadri: uscivo, quando il sole cominciava a declinare, con la tela e i colori, piantavo il mio cavalletto all'ombra di un tronco d'ulivo o dietro il muro del cimitero, e mi mettevo a dipingere. La prima volta, pochi giorni dopo il mio arrivo, questa mia occupazione parve sospetta al brigadiere, che ne avvertì subito il podestà, e mandò, ad ogni buon conto, uno dei suoi uomini a sorvegliarmi. Il carabiniere rimase impalato due passi dietro di me, a contemplare il mio lavoro, dalla prima all'ultima pennellata. È noioso dipingere con qualcuno dietro le spalle, anche quando non si temono le malvage influenze, come pare avvenisse a Cézanne: ma checché facessi, non ci fu verso di smuoverlo: aveva la sua consegna. Soltanto, il suo stupido viso mutò a poco a poco la sua espressione indagatoria in una sempre più interessata; ed egli finì per chiedermi se sarei stato capace di fare un ingrandimento a olio della fotografia della sua mamma morta: che è, per un carabiniere, il massimo punto d'arrivo della pittura. Le ore passavano, il sole calava, le cose prendevano l'incanto del crepuscolo quando gli oggetti pare risplendano di luce propria, interna, non comunicata. Una grande luna esile, trasparente, irreale stava sopra gli ulivi grigi e le case, nell'aria rosata, come un osso di seppia corroso dal sale sulla riva del mare. Ero, in quel tempo, molto amico della luna, perché per molti mesi, chiuso in una cella, non avevo veduto la sua faccia, e il ritrovarla era per me un piacere nuovo. Perciò la dipinsi, in segno di saluto e di omaggio, rotonda e leggera in mezzo al cielo: con grande stupore del carabiniere. Ma già salivano, per controllare il mio lavoro, i dioscuri padroni del luogo, il brigadiere con la sciabola, azzimato e contegnoso, e il podestà, tutto sorrisi, cerimonie e affettata benevolenza. Don Luigino era, naturalmente, un intenditore, e desiderava che io me ne accorgessi, e non lesinò le sue lodi alla mia tecnica. Eppoi, il suo orgoglio patriottico era lusingato che io avessi trovato Gagliano, il suo paese, degno di essere dipinto. Approfittai del suo compiacimento per insinuargli che mi sarebbe stato necessario, perché potessi meglio ritrarre le bellezze del luogo, potermi allontanare un po' di più dall'abitato. Il podestà e il brigadiere non volevano impegnarsi esplicitamente a questa infrazione ai regolamenti: ma a poco a poco, nelle settimane seguenti, si venne a una specie di tacito accordo, per cui avrei potuto, e soltanto per dipingere, dilungarmi di un due o trecento metri al di là delle case. Più che il rispetto per l'arte, mi valsero queste concessioni gli intrighi e il desiderio di compiacermi di donna Caterina, e il terror panico delle malattie che si annidava continuamente nell'animo di don Luigino. Don Luigino stava benissimo. Se non si conti un certo squilibrio ormonico che si manifestava piú che altro nel carattere, insieme infantile e sadico, e che non gli portava altro inconveniente fisico che la voce di falsetto e una certa tendenza alla pinguedine, per il resto crepava di salute. Ma, per mia fortuna, egli era continuamente in preda alla fobia di essere malato: oggi aveva la tubercolosi, domani il mal di cuore, dopodomani l'ulcera di stomaco: si tastava il polso, si provava la temperatura, si guardava la lingua allo specchio, e per tutti questi mali, ogni volta che m'incontrava, aveva bisogno di essere rassicurato. Il malato immaginario aveva finalmente un medico a sua disposizione: andassi dunque, qualche volta, a dipingere un poco più in là: ma non troppo spesso, e non così lontano che non mi potessero vedere; di mia iniziativa e a mio rischio, perché egli aveva molti nemici che avrebbero potuto scrivere delle lettere anonime a Matera, mettendolo in cattiva luce per questa concessione. Quello che io guadagnavo, di spazio e di respiro, non era molto: perché il paese è tutto cinto di burroni, e ci se ne esce soltanto, oltre che dalla parte del cimitero (che non avrei potuto superare, perché al di là si scende sull'altro versante, e sarei uscito di vista), per due soli sentieri. L'uno è quello, in basso, che correndo sulla cresta delle forre, a saliscendi, conduce da Gagliano a Gaglianello, e su questo avrei potuto andare fino al Timbone della Madonna degli Angeli, al luogo dove il diavolo era apparso al vecchio becchino, poco lontano dalle ultime case del paese. Di qui si stacca, sulla destra, un sentieruolo largo pochi palmi, che scende a zig zag ripidissimi, nel fondo del precipizio, duecento metri più in basso: questo è il passaggio obbligato e pericoloso che ogni giorno quasi tutti i contadini scendono, con l'asino e la capra, per raggiungere i loro campi là in basso, verso la valle dell'Agri, e risalgono la sera, con i loro carichi d'erbe e di legna, come dei dannati. L'altro sentiero è in alto, all'altro capo del paese. Parte a destra della chiesa, vicino alla casa della vedova, e conduce, in pochi passi, a una piccola sorgente, che fino a pochi anni fa era la sola risorsa del paese. Un filo d'acqua esce da un tubo arrugginito fra due pietre e cade in un trogolo di legno, dove le donne vanno talvolta a lavare; di qui trabocca, e, senza nessuno scarico, s'impantana nella terra, paradiso delle zanzare. Il sentiero continua per un breve tratto di campi di stoppie con qualche magro ulivo, e si perde in un complicato labirinto di monticciuoli e di buche di argilla bianca, che si rompe improvviso verso il Sauro, su un altro precipizio. Qui passeggiavo e dipingevo; e qui incontrai un giorno una vipera, avvertito in tempo dall'abbaiare furioso del mio cane. Questa strana e scoscesa configurazione del terreno fa di Gagliano una specie di fortezza naturale, da cui non si esce che per vie obbligate. Di questo approfittava il podestà, in quei giorni di cosiddetta passione nazionale, per aver maggior folla alle adunate che gli piaceva di indire per sostenere, come egli diceva, il morale della popolazione, o per fare ascoltare, alla radio, i discorsi dei nostri governanti che preparavano la guerra d'Africa. Quando don Luigino aveva deciso di fare un'adunata, mandava, la sera, per le vie del paese, il vecchio banditore e becchino con il tamburo e la tromba; e si sentiva quella voce antica gridare cento volte, davanti a tutte le case, su una sola nota alta e astratta: - Domattina alle dieci, tutti nella piazza, davanti al municipio, per sentire la radio. Nessuno deve mancare. - Domattina dovremo alzarci due ore prima dell'alba, - dicevano i contadini, che non volevano perdere una giornata di lavoro, e che sapevano che don Luigino avrebbe messo, alle prime luci del giorno, i suoi avanguardisti e i carabinieri sulle strade, agli sbocchi del paese, con l'ordine di non lasciar uscire nessuno. La maggior parte riusciva a partire pei campi, nel buio, prima che arrivassero i sorveglianti; ma i ritardatari dovevano rassegnarsi ad andare, con le donne e i ragazzi della scuola, sulla piazza, sotto il balcone da cui scendeva l'eloquenza entusiastica ed uterina di Magalone. Stavano là, col cappello in capo, neri e diffidenti, e i discorsi passavano su di loro senza lasciar traccia.
I signori erano tutti iscritti al Partito, anche quei pochi, come il dottor Milillo, che la pensavano diversamente, soltanto perché il Partito era il Governo, era lo Stato, era il Potere, ed essi si sentivano naturalmente partecipi di questo potere. Nessuno dei contadini, per la ragione opposta, era iscritto, come del resto non sarebbero stati iscritti a nessun altro partito politico che potesse, per avventura, esistere. Non erano fascisti, come non sarebbero stati liberali o socialisti o che so io, perché queste faccende non li riguardavano, appartenevano a un altro mondo, e non avevano senso. Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!
Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.
Perciò essi, com'è giusto, non si rendono affatto conto di che cosa sia la lotta politica: è una questione personale di quelli di Roma. Non importa ad essi di sapere quali siano le opinioni dei confinati, e perché siano venuti quaggiù: ma li guardano benigni, e li considerano come propri fratelli, perché sono anch'essi, per motivi misteriosi, vittime del loro stesso destino. Quando, nei primi giorni, mi capitava d'incontrare sul sentiero, fuori del paese, qualche vecchio contadino che non mi conosceva ancora, egli si fermava, sul suo asino, per salutarmi, e mi chiedeva: - Chi sei? Addò vades? (Chi sei? Dove vai?) - Passeggio, - rispondevo, - sono un confinato. - Un esiliato? (I contadini di qui non dicono confinato, ma esiliato). - Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male -. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna.
Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l'antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l'uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. È un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti.
- Peccato! Qualcuno ti ha voluto male-. Anche tu dunque sei soggetto al destino. Anche tu sei qui per il potere di una mala volontà, per un influsso malvagio, portato qua e là per opera ostile di magia. Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri. Non importano i motivi che ti hanno spinto, né la politica, né le leggi, né le illusioni della ragione. Non c'è ragione ne cause ed effetti, ma soltanto un cattivo Destino, una Volontà che vuole il male, che è il potere magico delle cose. Lo Stato è una delle forme di questo destino, come il vento che brucia i raccolti e la febbre che ci rode il sangue. La vita non può essere, verso la sorte, che pazienza e silenzio. A che cosa valgono le parole? E che cosa si può fare? Niente.
Corazzati dunque di silenzio e di pazienza, taciturni e impenetrabili, quei pochi contadini che non erano riusciti a fuggire nei campi stavano sulla piazza, all'adunata; ed era come se non udissero le fanfare ottimistiche della radio, che venivano di troppo lontano, da un paese di attiva facilità e di progresso, che aveva dimenticato la morte, al punto di evocarla per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede.