PREFAZIONE DI ITALO CALVINO
«La compresenza dei tempi. Un libro da cui deve cominciare ogni discorso su Carlo Levi scrittore è Paura della libertà, il primo libro che egli scrisse (anche se lo pubblicò solo una decina di anni dopo, quando era già famoso come l'autore di Cristo si é fermato a Eboli), un tipo di libro raro nella nostra letteratura, inteso a proporre le grandi linee d'una concezione del mondo, d'una reinterpretazione della storia. Carlo Levi lo scrisse in un'epoca tragica della storia d'Europa, nel 1939 e '40, mentre egli era esule in Francia. Mai come allora, su questo nero scenario di apocalissi, l'ottimismo proverbiale di Carlo Levi ha tanto mordente e tanto significato: perché lo vediamo come ottimismo fatto di calma interiore, come stile; e la classicità della parola si realizza di fronte a una materia che è tragedia, che è caos, che e catastrofe. La meditazione di Levi si basa sull'opposizione tra sacro e religioso, una di quelle semplici opposizioni che tante altre volte poi egli inventerà per classificare la realtà; e da essa prende forma una selva di figure allegoriche, d'animali, di simboli: nella forzata allusività e reticenza che la situazione esterna imponeva, la temperatura magica del libro si carica, e la scrittura sostenuta su un tono alto, evocativo, ieratico ha una sua funzione, è una cosa sola con il suo oggetto. C'è nel libro un alto livello intellettuale, vi si respira la cultura europea in cui Carlo Levi ha affondato le sue radici, diciamo la cultura europea fino a quell'epoca, fino alla seconda guerra mondiale; c'è la passione di sistemarne tutti i dati di un discorso coerente, e non ancora il timore di spezzare l'armonia d'una sistemazione con nuove acquisizioni, con nuove messe in questione; non ancora insomma l'olimpicità culturamente paga di se stessa che Carlo Levi si forgiò in seguito come una corazza contro tanta parte del problematismo contemporaneo. Con Paura della libertà la passione dell'intelligenza in un momento di scacco generale muove a inglobare e classificare istituzioni, miti, personaggi storici, movimenti profondi dell'animo umano. Questa vena di discorso intellettuale, di interpretazione generale continuerà poi a scorrere negli scritti di Carlo Levi, ma è in Paura della libertà che è animata da una forza continua, mentre nell'Orologio, altra narrazione d'un momento di crisi, il discorso è distribuito tra vari personaggi, diventa una specie di complesso dialogo filosofico. (Ma all'Orologio va dato un posto diverso nella valutazione dell'opera di Carlo Levi: è il suo libro più costruito, più scritto, soprattutto all'inizio, e contiene alcune delle sue pagine più belle e mosse e complesse). E da questo nucleo teorico che bisogna partire per esaminare l'opera di Levi direttamente legata alla testimonianza del nostro tempo. Perché testimoni del nostro tempo ce ne sono tanti, e la peculiarità di Carlo Levi sta in questo: che egli è il testimone della presenza d'un altro tempo all'interno del nostro tempo, è l'ambasciatore d'un altro mondo all'interno del nostro mondo. Possiamo definire questo mondo il mondo che vive fuori della storia di fronte al mondo che vive nella storia. Naturalmente questa è una definizione esterna, e diciamo la situazione di partenza dell'opera di Carlo Levi: il protagonista di Cristo si é fermato a Eboli, è un uomo impegnato nella storia che viene a trovarsi nel cuore d'un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più, sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo più complesse e pi ú elementari. Il discorso di Carlo Levi si diparte da questo nucleo, cercando di fissare i nodi, i punti di passaggio, da quel mondo alla storia. Perché è in quel mondo tenuto finora fuori dalla storia che Carlo Levi vede una potenziale forza storica determinante. La "rivoluzione contadina" di cui Carlo Levi si faceva profeta nel 1945, con accenti che allora suonavano paradossali e provocatori, è in questi vent'anni diventato uno dei termini del grande dibattito storico del secolo, anche se il quadro si è spostato da quello della "meridionalistica" italiana a un quadro afroasiatico e latinoamericano. Considerare il posto di Carlo Levi in questo quadro teorico esorbita dalle mie competenze; dirò che anziché quella d'un teorico, la sua è stata la strada di chi osserva e rappresenta, dell'uomo che sceglie e fissa degli aspetti della realtà e descrivendoli dà loro un valore privilegiato. In questo senso ho parlato di Carlo Levi come d'un ambasciatore del mondo "contadino" presso il nostro mondo urbano. Durante gli ultimi vent'anni, il suo studio romano, prima a palazzo Altieri, poi a villa Strohl Fern, ha funzionato come una ambasciata, o meglio, come un avamposto di questo mondo contadino. Le notizie che arrivano allo studio di Carlo Levi raramente si trovano sui giornali, a differenza di quelle portate dai corrieri diplomatici o dalle staffette degli stati maggiori: sono notizie di paesi dove prima dell'alba gli uomini sono in marcia per raggiungere i campi lontani, notizie di lutti, di arresti, di occupazioni di terre, ma anche notizie di filtri d'amore, d'incantesimi, di spiriti notturni. Alla sua ambasciata si possono trovare i tesori appena giunti da questi lontani regni, i formaggi caprini, i vini mielati, i santini di gesso. Talvolta vi si possono incontrare i messaggeri: donne nerovestite, giovani dalle scarpe polverose, come se una strada segreta collegasse quei campi e quei villaggi lontani alla casa del loro ambasciatore. E allora ci prende come una vertigine d'un mondo diverso che ruota nel suo tempo diverso, in un'altra dimensione dal nostro, da noi che seguiamo il tempo dei contachilometri e delle rotative dei quotidiani. Che il mondo vero sia quello e non il nostro, per lui è una certezza, di cui almeno un barbaglio, come un attimo di dubbio, egli riesce a comunicare anche a noi. Ma quello che conta è questo senso della compresenza dei tempi che Carlo Levi trasmette, questo suo tenersi librato come in un punto `in cui può vedere scorrere le lancette degli orologi in sensi divergenti. Una concezione che potrebbe essere vertiginosa e drammatica se Carlo Levi non ce la presentasse costantemente gremita di cose, di cose e di persone (e animali, e piante), viste e descritte sempre con grande amore, con una naturale propensione per recuperare l'antico nel nuovo, per trovare nell'antico le vie di comprendere il nuovo con una naturale predilezione anche per la parola antico, specialmente in chiusa di periodo, tale da dare alla frase una dolcezza carezzevole, capace di esorcizzare gli aspetti pi ú^ stridenti e crudi del presente e del futuro. Questa dell'amore per le cose di cui parla è una caratteristica che bisogna tener presente se si vuole riuscire a definire la singolarità dell'operazione letteraria di Levi. Perché quest'uomo che si dice sempre che mette se stesso al centro d'ogni narrazione, che fa scaturire sempre attorno alla sua presenza incontri straordinari, è poi lo scrittore più dedito alle cose, al mondo oggettivo, alle persone. Il suo metodo è di descrivere con rispetto e devozione ciò che vede, con uno scrupolo di fedeltà che gli fa moltiplicare particolari e aggettivi. La sua scrittura è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col mondo, di questa fedeltà agli oggetti della. sua rappresentazione».
ITALO CALVINO
Da «Galleria», 3-6 (1967), pp. 237-40, a cura di A. Marcovecchio. Numero interamente dedicato a Carlo Levi.