3. TELLUS STABILITA (4)
Gli artigiani che conducevo con me nelle ispezioni di rado mi procurarono grattacapi: la loro passione per i viaggi era pari alla mia. Ma con gli uomini di lettere ebbi qualche difficoltà. L'insostituibile Flegone, ad esempio, ha i difetti d'una vecchia zitella, ma è il solo segretario che abbia resistito: è tuttora con me. Il poeta Floro, al quale offrii un segretariato in lingua latina, è andato a proclamare ai quattro venti che non avrebbe mai voluto essere Cesare, se doveva sopportare i freddi sciti e le piogge bretoni. Le lunghe marce non lo attiravano affatto. Da parte mia, gli lasciavo ben volentieri le delizie dei cenacoli letterari romani, le taverne dove ci s'incontra per scambiarsi ogni sera le stesse arguzie e farsi punzecchiare fraternamente dalle stesse viete battute. Avevo affidato a Svetonio l'incarico di curatore degli archivi, che gli consentì di accedere a quei documenti segreti che gli bisognavano per le sue biografie dei Cesari. Quest'uomo abile, giustamente detto Tranquillo, era fuori di luogo dovunque, meno che in una biblioteca; rimase così a Roma, e divenne uno dei familiari di mia moglie, in quella cerchia ristretta di conservatori malcontenti che si riunivano da lei per criticare un po' tutti. Quel gruppo non mi andava a genio: mandai in pensione Tranquillo, il quale si ritirò nella sua casetta sui monti Sabini a pensare in tutta pace ai vizi di Tiberio. Favorino D'Arles resse per qualche tempo un segretariato greco: quel nano dalla voce flautata non era sprovvisto di acume. E' uno spirito d'una doppiezza come ne ho incontrati pochi: si discuteva, ma la sua erudizione m'incantava. Mi divertivano le sue manie, come quella di occuparsi della sua salute come un amante della donna amata. Un servo indù gli preparava il riso che faceva venire dall'Oriente con forte spesa; disgraziatamente, questo cuoco esotico parlava il greco malissimo, e quasi nessun'altra lingua; non m'insegnò nulla sulle meraviglie del suo paese natale. Favorino si vantava d'aver compiuto nella vita tre cose piuttosto rare: da Gallo, s'era ellenizzato meglio di chiunque; uomo di umili origini, poteva bisticciarsi continuamente con l'imperatore, e non ne riportava alcun danno - singolarità, questa, che però tornava tutta a mio onore -; infine, benché impotente, pagava continue ammende per adulterio. Ed è proprio vero che le sue ammiratrici di provincia gli procurarono dei guai, dai quali mi toccò tirarlo fuori più d'una volta. Mi stancai di lui, e il suo posto fu preso da Eudemone. Ma, nell'insieme, sono stato eccezionalmente ben servito. Il rispetto di questo piccolo gruppo di amici e di subalterni s'è conservato intatto, Dio sa come, a onta dell'intimità brutale dei viaggi; la loro discrezione è stata, se possibile, ancor più sorprendente della loro fedeltà. Gli Svetoni dell'avvenire avranno ben pochi aneddoti da raccontare sul mio conto: quel che il pubblico conosce della mia vita, l'ho rivelato io stesso. I miei amici hanno serbato i miei segreti, sia quelli politici, sia gli altri; è giusto dire che spesso ho fatto altrettanto nei loro riguardi.
Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell'uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa delle città. Quanta cura, per escogitare la collocazione esatta d'un ponte e d'una fontana, per dare a una strada di montagna la curva più economica che è al tempo stesso la più pura!... L'ampliamento della strada di Megara trasformava il paesaggio delle rocce schironiane; quelle duecento miglia di via lastricata, dotate di cisterne e di guarnigioni, che uniscono Antinoa al Mar Rosso, hanno creato nel deserto l'era della sicurezza dopo quella del pericolo. Il reddito di cinquecento città asiatiche non era di troppo per costruire una rete d'acquedotti nella Troade; l'acquedotto di Cartagine compensava, in certo modo, le asprezze delle guerre puniche. Elevare fortificazioni in fin dei conti equivale a costruire dighe: equivale a trovare la linea sulla quale si può difendere una sponda o un impero, il punto dove sarà contenuto, arrestato, infranto, l'assalto delle onde o quello dei barbari. Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d'un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.
Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di «passato», coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti. La nostra vita è breve: parliamo continuamente dei secoli che han preceduto il nostro o di quelli che lo seguiranno, come se ci fossero totalmente estranei; li sfioravo, tuttavia, nei miei giochi di pietra: le mura che faccio puntellare sono ancora calde del contatto di corpi scomparsi; mani che non esistono ancora carezzeranno i fusti di queste colonne. Più ho meditato sulla mia morte, e specialmente su quella d'un altro, più ho cercato di aggiungere alle nostre esistenze queste appendici quasi indistruttibili. A Roma, ho adottato, di preferenza, il mattone eterno, che assai lentamente torna alla terra donde deriva, e il cui cedimento, lo sbriciolamento impercettibile avviene in tal guisa che l'edificio resta una mole, anche quando ha cessato d'essere una fortezza, un circo, una tomba. In Grecia e in Asia, ho adoperato il marmo natio, la bella sostanza che, una volta tagliata, resta fedele alla misura umana, tanto che la pianta del tempio intero resta contenuta in ogni frammento di tamburo spezzato. L'architettura è ricca di possibilità più varie di quel che non farebbero supporre i quattro ordini di Vitruvio; i blocchi, come i toni musicali, sono suscettibili d'infinite variazioni. Per il Pantheon, sono risalito ai monumenti dell'antica Etruria degli indovini e degli aruspici; il santuario di Venere, al contrario, innalza al sole forme joniche, una profusione di colonne bianche o rosate, attorno alla dea di carne da cui discende la progenie di Cesare. L'Olympieion di Atene non poteva non rappresentare il contrappeso esatto del Partenone adagiato nella pianura come l'altro si erge sulla collina, immenso dove l'altro è perfetto: l'ardore ai piedi della calma, lo splendore ai piedi della bellezza. Le cappelle di Antinoo, i suoi templi, stanze magiche, monumenti d'un misterioso passaggio tra la vita e la morte, oratori d'un dolore e d'una felicità indicibili, erano il luogo della preghiera e della riapparizione: lì mi abbandonai al mio lutto. La mia tomba in riva al Tevere riproduce, su scala gigantesca, gli antichi sepolcri della via Appia, ma le sue stesse proporzioni la trasformano, fanno pensare a Ctesifone, a Babilonia, alle terrazze e alle torri attraverso le quali l'uomo si avvicina agli astri. L'Egitto funerario ha disposto gli obelischi, i viali di sfinge del cenotafio che impone a una Roma vagamente ostile la memoria dell'amico mai pianto abbastanza. La Villa era la tomba dei viaggi, l'ultimo accampamento del nomade, l'equivalente, in marmo, delle tende da campo e dei padiglioni dei principi asiatici. Quasi tutto ciò che il nostro gusto consente di tentare, già lo fu nel mondo delle forme: io volli provare quello del colore: il diaspro, verde come i fondi marini, il porfido poroso come le carni, il basalto, l'ossidiana opaca... Il rosso denso dei tendaggi si ornava di ricami sempre più raffinati; i mosaici delle mura e degli impiantiti non erano mai abbastanza dorati, bianchi, o cupi a sufficienza. Ogni pietra rappresentava il singolare conglomerato d'una volontà, d'una memoria, a volte d'una sfida. Ogni edificio sorgeva sulla pianta d'un sogno.
Plotinopoli, Andrinopoli, Antinopoli, Adrianotera... Ho moltiplicato quanto più possibile questi alveari umani. Idraulici e muratori, ingegneri e architetti presiedono alla fondazione di nuove città; ma è una funzione che esige altresì alcune doti di stregoneria. In un mondo ancor dominato, più che per metà, dalle selve, dal deserto, dalla terra incolta, è bello lo spettacolo d'una via lastricata, d'un tempio dedicato a un dio qualsiasi, di bagni e latrine pubblici, della bottega dove il barbiere commenta con i suoi clienti le notizie di Roma, il banco del pasticcere o del sandalaio, fors'anche una libreria, un'insegna di medico, un teatro nel quale di tanto in tanto si recita una commedia di Terenzio. Vi sono raffinati, tra noi, che si lamentano dell'uniformità delle nostre città: soffrono di trovar dappertutto le stesse statue d'imperatori, lo stesso acquedotto. Hanno torto: la bellezza di Nìmes è diversa da quella di Arles. Ma questa stessa uniformità, su tre continenti, appaga i viaggiatori come quella d'una pietra miliare; persino le più insignificanti, tra le nostre città, godono del prestigio rassicurante d'essere un posto di ristoro, una guarnigione o un rifugio. La città: uno schema, una costruzione umana, monotona se si vuole, ma così come sono monotone le arnie colme di miele; un luogo di contatti e di scambi, dove i contadini vanno a vendere i loro prodotti o si attardano stupefatti a contemplare le pitture d'un porticato... Le mie città nascono da incontri: il mio con un angolo della terra, quello dei miei piani imperiali con gli incidenti della mia esistenza d'uomo... Plotinopoli è nata dal bisogno di stabilire nuove banche agricole in Tracia, ma altresì dall'affettuoso desiderio di onorare Plotina. Adrianotera è destinata a servire d'emporio agli stranieri dell'Asia Minore: sulle prime, fu per me il ritiro estivo, la foresta ricca di selvaggina, un padiglione di tronchi squadrati ai piedi della collina di Attys, il torrente coronato di spuma nel quale ci si bagna ogni mattina. Adrianopoli, in Epiro, riapre un centro urbano nel mezzo d'una provincia impoverita, e nasce da una mia visita al santuario di Dodona. Andrinopoli, città agreste e militare, centro nevralgico ai margini delle regioni barbare, è popolata di veterani delle guerre sarmate; conosco personalmente ciascuno di quegli uomini, il lato buono e il lato cattivo, i nomi, il numero degli anni di servizio, le loro ferite. Antinopoli, la più cara, sorta nel luogo della sventura, è serrata tra il fiume e la roccia su una fascia angusta di terreno arido. Ecco perché tenevo ad arricchirla con altre risorse: il commercio dell'India, i trasporti fluviali, le attrattive raffinate d'una metropoli greca. Non c'è luogo sulla terra che io desideri meno di rivedere; pochi a cui abbia consacrato maggiori premure. Quella città è un perpetuo peristilio. Sono in corrispondenza con il suo governatore, Fido Aquila, a proposito dei propilei del tempio, delle sue statue; ho scelto i nomi dei raggruppamenti urbani e dei rioni, simboli palesi e segreti, catalogo completo dei miei ricordi. Ho tracciato io stesso il disegno dei colonnati che, lungo le rive, corrispondono allo sfilare regolare delle palme. Ho percorso mille volte nel pensiero quel quadrilatero quasi perfetto, percorso da strade regolari, tagliato da un viale trionfale che va da un teatro greco a un sepolcro.
Siamo ingombri di statue, rimpinzati di capolavori della pittura e della scultura; ma questa abbondanza è illusoria; non facciamo che riprodurre all'infinito poche decine di capolavori che non saremmo più in grado di inventare. Io stesso, ho fatto copiare per la mia Villa l'Ermafrodito e il Centauro, la Niobide e la Venere, ansioso di vivere il più possibile tra queste melodie della forma. Ho secondato le esperienze con il passato, l'arcaismo sapiente che ritrova il senso di intenzioni e tecniche perdute. Ho tentato le variazioni che consistono nel riprodurre in marmo rosso un Marsia scorticato di marmo bianco e trasferirlo così nel mondo delle figure dipinte; o trasporre nei toni del marmo pario la grana nera delle statue egizie, e mutare l'idolo in fantasma. La nostra arte è perfetta, cioè a dire raffinata, ma la sua perfezione è suscettibile di modulazioni varie quanto quelle d'una voce pura: dipende da noi questo gioco abile, che consiste nell'accostarsi e nell'allontanarsi perpetuamente da soluzioni trovate una volta per tutte, di spingerci sino al fondo del rigorismo o della ridondanza, e racchiudere un numero sconfinato di creazioni entro la stessa sfera. I mille termini di paragone alle nostre spalle tornano tutti a nostro vantaggio, ci consentono di continuare intelligentemente Scopas o contraddire voluttuosamente Prassitele. I miei contatti con le arti barbare mi hanno indotto a ritenere che ogni razza si limita a determinati soggetti, a determinate esperienze tra tutte quelle possibili; ogni epoca, per di più, opera una cernita tra le possibilità offerte a ogni razza. In Egitto, ho visto déi e re colossali; al polso dei prigionieri sarmati, ho trovato bracciali che ripetono all'infinito lo stesso cavallo al galoppo o gli stessi serpenti che si divorano l'un l'altro. Ma la nostra arte (quella dei Greci, voglio dire) ha preferito attenersi all'uomo. Noi soli abbiamo saputo mostrare in un corpo immobile la forza e l'agilità ch'esso cela; noi soli abbiamo fatto d'una fronte levigata l'equivalente d'un pensiero. Io sono come i nostri scultori: l'umano mi appaga. Vi trovo tutto, persino l'eternità. La foresta tanto amata si racchiude tutta nell'immagine del centauro; mai la tempesta soffia più impetuosa che nel velo gonfio d'una déa marina. Gli oggetti della natura, gli emblemi sacri, valgono solo se pregni di riferimenti umani: la pigna fallica e funerea, la vasca circondata di colombe che suggerisce la siesta in riva alle fonti, il grifone che trasporta in cielo il nostro diletto.
L'arte del ritratto m'interessava ben poco. I ritratti romani non hanno altro valore che quello della cronaca: copie del vero, contrassegnate da rughe esatte, o da verruche uniche, calchi di modelli che sfioriamo distrattamente per via e che dimentichiamo non appena scompaiono dalla nostra vista. I Greci, al contrario, hanno amato la perfezione umana al punto da curarsi ben poco della varietà dei volti umani. Non gettavo più d'uno sguardo alla mia propria immagine; il marmo candido snatura il mio volto abbronzato, dagli occhi bene aperti, la bocca sottile e carnosa, controllata sino a tremare. Ma il volto d'un altro mi ha sempre interessato molto di più. Non appena egli cominciò a contare nella mia vita, l'arte ha smesso d'esser un lusso, è diventata una risorsa, una forma di soccorso. Ho imposto al mondo questa immagine: oggi, esistono più copie dei ritratti di quel fanciullo che non di qualsiasi uomo illustre, di qualsiasi regina. Sulle prime, mi stava a cuore far registrare dalle statue la bellezza successiva d'una forma nel suo mutare; in seguito, l'arte divenne una specie di magia, capace di evocare un volto perduto. Le immagini colossali mi sembravano un mezzo per esprimere le vere proporzioni che l'amore conferisce agli esseri; queste immagini, le volevo enormi come un volto visto da vicino, alte e solenni come le visioni degli incubi, pesanti come il ricordo che mi perseguita. Esigevo una finitezza perfetta, una perfezione assoluta, quella divinità che rappresenta per coloro che lo hanno amato ogni essere morto a vent'anni; e, oltre la somiglianza esatta, volevo la presenza familiare, tutte le irregolarità d'un viso più caro della bellezza stessa. Quante controversie per stabilire l'esatto spessore d'un sopracciglio, la curva lievemente tumefatta d'un labbro! Contavo disperatamente sull'eternità della pietra, sulla fedeltà del bronzo, per perpetuare un corpo perituro o già distrutto, ma insistevo anche perché il marmo, a cui facevo dare ogni giorno una politura d'olio e di acidi, assumesse la lucentezza, quasi la morbidezza delle carni adolescenti. Quel viso unico, lo ritrovavo dappertutto: amalgamavo le persone divine, i sessi e gli attributi eterni, la dura Diana delle foreste al Bacco malinconico, l'Ermes vigoroso delle palestre al dio duplice che dorme, la testa reclinata sul braccio, con l'abbandono d'un fiore. Constatavo sino a che punto un giovinetto che pensa somiglia alla virile Atena. I miei scultori vi si smarrivano; i più mediocri cadevano qua e là nella mollezza o nell'enfasi; tuttavia, tutti, più o meno, hanno partecipato al mio sogno.
Vi sono statue e ritratti del giovinetto da vivo, quelle che riflettono il paesaggio immenso e mutevole che va dai quindici anni ai vent'anni: il profilo compunto del bambino buono; e quella statua in cui uno scultore di Corinto ha osato cogliere l'abbandono del fanciullo che, il ventre in avanti e le spalle cascanti, la mano al fianco, sembra sostare all'angolo d'una strada a sorvegliare una partita ai dadi. E c'è quel marmo di Papias di Afrodisia nel quale è tracciato un corpo assai più che nudo, inerme, d'una freschezza fragile di narciso. E Aristea ha scolpito sotto i miei ordini, in una pietra lievemente rugosa, quella piccola testa imperiosa e fiera... Poi, vi sono i ritratti dopo la morte; ivi, la morte è passata: sono grandi volti dalle labbra sapienti, dense di segreti che non sono più i miei, poiché non sono più quelli della vita. C'è quel bassorilievo nel quale Antoniano Cario ha dotato d'una grazia che non è di questa terra il vendemmiatore vestito di seta grezza, il muso del cane che gli si accosta amichevolmente alla gamba nuda. E quella maschera quasi tragica, d'uno scultore di Cirene, nella quale piacere e dolore si fondono e si combattono a vicenda sullo stesso volto, come due onde sulla stessa roccia. E quelle statuette d'argilla, da un soldo, che sono servite alla propaganda imperiale: TELLUS STABILITA, il Genio della Terra pacificata, con l'aspetto d'un giovinetto disteso che regge frutta e fiori.
TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS: ciascuno la sua china; ciascuno il suo fine, la sua ambizione se si vuole, il gusto più segreto, l'ideale più aperto. Il mio era racchiuso in questa parola: IL BELLO, di così ardua definizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. Volevo che le città fossero splendide, piene di luce, irrigate d'acque limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non fosse deturpato né dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore d'una ricchezza volgare; che gli alunni recitassero con voce ben intonata lezioni non fatue; che le donne al focolare avessero nei loro gesti una sorta di dignità materna, una calma possente; che i ginnasi fossero frequentati da giovinetti non ignari dei giochi né delle arti; che i frutteti producessero le più belle frutta, i campi le messi più opime. Volevo che l'immensa maestà della pace romana si estendesse a tutti, insensibile e presente come la musica del firmamento nel suo moto; che il viaggiatore più umile potesse errare da un paese, da un continente all'altro, senza formalità vessatorie, senza pericoli, sicuro di trovare ovunque un minimo di legalità e di cultura; che i nostri soldati continuassero la loro eterna danza pirrica alle frontiere; che ogni cosa funzionasse senza inciampi, l'officina come il tempio; che il mare fosse solcato da belle navi e le strade percorse da vetture frequenti; che, in un mondo ben ordinato, i filosofi avessero il loro posto e i danzatori il proprio. A questo ideale, in fin dei conti modesto, ci si avvicinerebbe abbastanza spesso se gli uomini vi applicassero una parte di quell'energia che van dissipando in opere stupide o feroci. E durante l'ultimo quarto di secolo, la sorte propizia mi ha consentito di realizzarlo in parte. Arriano di Nicomedia, uno degli spiriti più eletti del nostro tempo, si compiace di rammentarmi i bei versi nei quali il vecchio Terpandro ha definito in tre parole l'ideale di Sparta, il "modus vivendi" perfetto, sognato, e mai raggiunto, da Lacedemone: la FORZA, la GIUSTIZIA, le MUSE. La Forza stava alla base, e senza il suo rigore non può esserci Bellezza, senza la sua stabilità non v'è Giustizia. La Giustizia componeva l'equilibrio delle parti, le proporzioni armoniose che nessun eccesso deve turbare. Ma la Forza e la Giustizia non erano che uno strumento agile e duttile nelle mani delle Muse: consentivano di tener lontane tutte le miserie e le violenze come altrettante offese al bel corpo dell'umanità. Ogni nequizia era come una nota falsa da evitare nella armonia delle sfere.
In Germania mi trattennero quasi un anno le fortificazioni e gli accampamenti da costruire o da restaurare, le strade da aprire o da riparare; nuovi bastioni, eretti per un percorso di settanta leghe lungo il Reno, rafforzarono le nostre frontiere. Quel paese di scialbi vigneti e di corsi d'acqua spumeggianti non mi offriva nulla d'imprevisto; vi ritrovavo le orme del giovane tribuno che recò a Traiano la notizia del suo avvento al trono. Vi ritrovavo pure, oltre il nostro fortilizio estremo, fatto di tronchetti d'abete, lo stesso orizzonte monotono e cupo, lo stesso mondo che ci è precluso, dopo il cuneo imprudente che v'insinuarono le legioni di Augusto: l'oceano di alberi, l'immensa riserva di uomini bianchi e biondi. Una volta compiuta quell'opera di riorganizzazione, ridiscesi sino alla foce del Reno, lungo le pianure belghe e batave. Dune desolate componevano quel paesaggio nordico tagliato da erbe sibilanti; le case del porto di Noviomagus, innalzate su palafitte, si affiancavano alle navi ormeggiate quasi alla loro soglia; sul tetto, si appollaiavano gli uccelli marini. Amavo la malinconia di quei luoghi, che apparivano detestabili ai miei aiutanti di campo, quel cielo imbronciato, quei fiumi fangosi che si scavano il letto in una terra informe, senza una luce, senza un dio che ne abbia modellato il limo.
Una barca dal fondo quasi piatto ci trasportò nell'isola di Britannia. Più volte il vento ci respinse verso la costa che avevamo lasciata; e quella traversata contrastata mi concesse qualche straordinaria ora vuota. Nubi gigantesche sorgevano dal mare tempestoso, intorpidito dalle sabbie incessantemente smosse nel suo fondo. Come un tempo, presso i Daci e i Sarmati, avevo contemplato religiosamente la Terra, qui scorgevo per la prima volta un Nettuno più caotico del nostro, un infinito mondo liquido. Avevo letto in Plutarco una leggenda di naviganti, riguardante un'isola situata in quei mari prossimi al Mare Tenebroso; da secoli gli déi vittoriosi dell'Olimpo vi avrebbero relegato i Titani vinti. Quei grandi prigionieri delle rocce e delle onde, eternamente flagellati dall'oceano insonne, votati anch'essi a un'insonnia perenne, ma intenti senza posa a sognare, continuerebbero a opporre all'ordine olimpico la loro violenza, la loro angoscia, il loro desiderio perpetuamente frustrato. Ritrovavo in quel mito, ambientato ai confini del mondo, le teorie dei filosofi di cui m'ero nutrito: ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia a ogni speranza, tra i piaceri dell'anarchia e quelli dell'ordine, tra il Titano e l'Olimpico. Scegliere tra essi, o riuscire a comporre, tra essi, l'armonia.
Le riforme civili poste in atto in Britannia fanno parte della mia opera amministrativa, della quale t'ho parlato altrove. Quello che importa qui, è che io fui il primo tra gli imperatori che si sia insediato pacificamente in quell'isola situata ai confini del mondo conosciuto, dove il solo Claudio s'era azzardato a sostare per qualche giorno in qualità di comandante in capo. Per un inverno intero, Londinium divenne, per mia elezione, quel centro effettivo del mondo che Antiochia era stata durante la guerra partica. Così, ogni viaggio spostava il centro di gravità del potere, lo collocava per un periodo di tempo in riva al Reno o lungo le prode del Tamigi, mi permetteva di valutare la convenienza o gli svantaggi d'una simile sede imperiale. Quel soggiorno in Britannia mi fece prendere in considerazione l'ipotesi d'uno Stato accentrato in Occidente, d'un mondo atlantico: intuizioni dello spirito, prive di qualsiasi valore pratico: ma cessano d'essere assurde non appena chi le ipotizza si concede un volger d'anni abbastanza esteso per i suoi piani.
Solo tre mesi prima del mio arrivo, la Sesta Legione Vittoriosa era stata trasferita in territorio britannico. Veniva a sostituirvi la sventurata Nona Legione che i Caledoni avevano decimato durante i disordini in Britannia, orrendo contraccolpo della nostra spedizione contro i Parti. Per impedirne che un disastro simile si replicasse, due misure s'imponevano: che le nostre truppe venissero rinforzate mediante la creazione d'un corpo ausiliario indigeno: a Eboracum, dall'alto d'una collina verde, ho visto manovrare per la prima volta quell'armata britannica di formazione recente. Nello stesso tempo, feci erigere una muraglia che tagliava l'isola in due nel punto più stretto a proteggere le regioni fertili e civilizzate del Sud contro gli attacchi delle tribù del Nord. Ho ispezionato di persona buona parte dei lavori, iniziatisi simultaneamente lungo un crinale di ottanta leghe; fu per me un'occasione per sperimentare, lungo quello spazio ben limitato che si estende da una costa all'altra, un sistema difensivo che in seguito si potrebbe applicare ovunque. Ma già quell'opera, puramente militare, secondava la pace, incrementava la prosperità di quella regione della Britannia; si creavano villaggi; si produceva un moto di afflusso verso le nostre frontiere. Gli sterratori della legione erano secondati da squadre indigene, nel loro compito; per molti di quei montanari, ieri ancora indomi, quel muro rappresentava la prima prova irrefutabile della potenza tutelatrice di Roma; il soldo della paga, la prima moneta romana che passava per le loro mani. Quel baluardo divenne l'emblema della mia rinuncia alla politica di conquista: ai piedi del bastione più avanzato, feci erigere un tempio al dio Termine.
Tutto mi piacque in quella terra piovosa: le frange di bruma sui fianchi delle colline, i laghi votati a Ninfe ancor più estrose delle nostre; quella razza malinconica, dagli occhi grigi. Avevo, per guida, un giovane tribuno del corpo ausiliario britannico: quel dio biondo aveva imparato il latino, balbettava in greco, e s'ingegnava timidamente a comporre versi d'amore in quella lingua. Una fredda notte d'autunno, ne feci il mio interprete presso una Sibilla. Sedevamo nella capanna affumicata d'un carbonaio celta, a riscaldarci le gambe ravvolte in grosse pezze di lana ruvida, quando vedemmo strisciare verso di noi una vecchia fradicia di pioggia, scarmigliata dal vento, selvatica e furtiva come un animale della foresta. Si avventò su piccoli pani di avena che si cuocevano al focolare. La mia guida riuscì a blandire quella profetessa, ed ella acconsentì a interrogare per me le volute del fumo, le scintille che scoppiettavano improvvise, le fragili architetture degli arbusti in fiamme e della cenere. Vide le città che si edificavano, le folle plaudenti, ma anche città in fiamme, cupe sfilate di vinti che smentivano i miei progetti di pace, e un viso giovane e dolce che prese per un volto di donna, e al quale mi rifiutai di credere; si trattava, probabilmente, d'uno spettro bianco, forse una statua, oggetto più misterioso ancora di un fantasma per quella abitatrice di boschi e di lande. E, a distanza di un numero imprecisato di anni, la mia morte, che avrei prevista egualmente anche senza di lei.
La prospera Gallia, l'opulenta Spagna mi trattennero meno a lungo della Britannia. Nella Gallia Narbonense, ritrovai la Grecia, che ha sciamato fin là: le splendide scuole d'eloquenza, i bei portici sotto un limpido cielo. Sostai a Nìmes per ordinare la fondazione di una basilica dedicata a Plotina, e destinata a divenire un giorno il suo tempio. L'imperatrice era legata a quella città da ricordi di famiglia, che me ne rendevano più caro il paesaggio asciutto e dorato.
Ma la rivolta in Mauretania ancora divampava. Abbreviai la traversata della Spagna, trascurando persino, tra Cordova e il mare, di fermarmi un istante a Italica, la città della mia infanzia e dei miei avi. A Gades, m'imbarcai per l'Africa.
I vigorosi guerrieri tatuati delle montagne di Atlante vessavano ancora le città costiere dell'Africa. Vissi là, per brevissimi giorni, l'equivalente numida dei disordini sarmati; rividi le tribù soggiogate ad una ad una, l'altera sottomissione dei capi prosternati nel deserto, al centro d'un viluppo di donne, di masserizie, di bestie inginocchiate. E la sabbia rimpiazzava la neve.
Mi sarebbe stato caro, una volta tanto, trascorrere interamente a Roma la primavera, ritrovare la Villa incominciata, le carezze capricciose di Lucio, l'amicizia di Plotina. Ma questo mio soggiorno in città fu presto interrotto da allarmanti voci di guerra. Erano appena tre anni dacché s'era conclusa la guerra con i Parti, e già sull'Eufrate erano sorti gravi incidenti. Partii immediatamente per l'Oriente.