4. SAECULUM AUREUM (1)
L'estate successiva al mio incontro con Osroe, la trascorsi in Asia Minore: sostai nella Bitinia per sorvegliare di persona il taglio delle foreste di Stato. A Nicomedia, città luminosa, civile, raffinata, presi alloggio in casa del procuratore della provincia, Cneo Pompeo Proculo, nell'antica residenza del re Nicomede, ancora impregnata dei ricordi voluttuosi di Giulio Cesare giovane. La brezza della Propontide ventilava quelle sale fresche e buie. Proculo, un uomo di gusto, organizzò qualche riunione letteraria in mio onore: sofisti di passaggio, gruppi di studenti e di letterati si riunirono nei suoi giardini, in riva a una sorgente dedicata al dio Pan. Di tanto in tanto, un servo vi immergeva una grande anfora di argilla porosa; e i versi più limpidi sembravano opachi a paragone di quell'acqua pura.
Una sera, si dette lettura d'un lavoro piuttosto astruso di Lycofrone, che mi è caro, peraltro, per le folli combinazioni di armonie, di allusioni e di immagini, quel suo sistema complesso di riflessi e di echi. Un giovinetto in disparte ascoltava quelle strofe ardue con un'attenzione pensosa e distratta al tempo stesso, e io pensai subito a un pastore nel cuore della foresta, vagamente in ascolto del grido misterioso d'un uccello. Non aveva né tavolette né stilo, con sé. Seduto sui bordi della vasca, sfiorava quella bella superficie levigata con le dita. Seppi che suo padre aveva occupato una modesta carica nell'amministrazione dei vasti domini imperiali; affidato giovanissimo alle cure d'un suo avo, lo scolaretto era stato inviato presso un ospite dei suoi genitori, ch'era armatore a Nicomedia, e che a quella povera famiglia appariva ricco.
Quando gli altri si furono allontanati, lo trattenni. Era poco istruito, ignaro quasi di tutto, ma riflessivo, ingenuo. Conoscevo Claudiopoli, la sua città natale: riuscii a farlo parlare della sua casa, al limitare delle grandi foreste di pini che forniscono l'albero maestro alle nostre navi, del tempio di Attys situato sulla collina, di quelle musiche stridenti che gli erano care, dei bei cavalli del suo paese, delle strane sue divinità. Quella voce lievemente velata s'esprimeva in greco con accento asiatico. Improvvisamente, nel sentirsi ascoltato, o fors'anche osservato, il ragazzo si confuse, arrossì, ricadde in uno di quei silenzi ostinati ai quali mi abituai ben presto. Si abbozzò, comunque, un'intimità. In seguito, mi accompagnò in tutti i miei viaggi; e cominciarono per me alcuni anni favolosi.
Antinoo era greco: sono risalito, nelle memorie di quella famiglia antica e oscura, sino all'epoca dei primi coloni arcadi sulle sponde della Propontide. Ma l'Asia aveva prodotto su quel sangue un po' acre l'effetto della goccia di miele che rende torbido e aromatico un vino puro. Ritrovavo in lui le superstizioni d'un discepolo d'Apollonio, il culto monarchico d'un suddito orientale del Gran Re. La sua presenza era straordinariamente silenziosa: m'ha seguito come un animale, o come un genio familiare. Aveva le infinite capacità di allegria e d'indolenza d'un cucciolo, la selvatichezza, la fiducia. Quel bel levriero, ansioso di carezze e di ordini, si distese sulla mia vita. Ammiravo quell'indifferenza quasi altera verso tutto ciò che non costituiva il suo piacere o il suo culto: essa suppliva in lui al disinteresse, allo scrupolo, a tutte le virtù volute, austere. Mi stupiva quella sua aspra dolcezza; quella devozione torva, che impegnava l'essere intero. E, tuttavia, quella sottomissione non era cieca: quelle palpebre tante volte abbassate nell'acquiescenza o nel sogno, si levavano; gli occhi più attenti del mondo mi scrutavano in viso; mi sentivo giudicato. Ma lo ero, come lo è un dio da un suo fedele: le mie asprezze, i miei attacchi di diffidenza (ne ebbi, più tardi) erano pazientemente, gravemente accettati. Sono stato padrone assoluto una volta sola, e di un solo essere.
Se non ho detto ancora nulla d'una bellezza così evidente, non bisogna credere che l'abbia fatto per una sorta di reticenza, il silenzio d'un uomo avvinto in modo troppo totale. Ma i volti che noi cerchiamo disperatamente ci sfuggono: è sempre solo un istante... Ritrovo una testa reclina sotto una capigliatura disfatta dal sonno, degli occhi che le palpebre allungate facevano parere obliqui, un giovane viso, come disteso. Quel tenero corpo s'è modificato di continuo, a guisa d'una pianta, e alcune di queste alterazioni sono imputabili all'opera del tempo. Il fanciullo mutava: si faceva grande. Bastava una settimana d'indolenza per intorpidirlo; un pomeriggio di caccia gli rendeva la solidità, lo scatto dell'atleta. Un'ora di sole lo faceva mutare dal colore del gelsomino a quello del miele. Le gambe un po' pesanti del puledro si andavano man mano allungando; la gota perdeva la delicata rotondità infantile, s'incavava leggermente sotto lo zigomo sporgente; il torace gonfio d'aria del giovane corridore allo stadio lungo assumeva le curve lisce e polite d'un seno di Baccante. Il broncio delle labbra s'impregnava d'un'amarezza ardente, d'una sazietà triste. In verità, quel volto mutava, come se ogni notte e ogni giorno io lo avessi scolpito.
Quando mi volgo indietro a quegli anni, mi sembra di ritrovare l'Età dell'Oro. Tutto era facile: le fatiche d'altri tempi erano compensate da una facilità quasi sovrumana. Viaggiare era un gioco, un piacere controllato, noto, e abilmente praticato. Il lavoro incessante non era che un altro modo di godere. La mia vita, in cui tutto è arrivato tardi - il potere, la felicità -, assumeva lo splendore del meriggio, la radiosità solare delle ore di siesta, quando tutto è soffuso di un'atmosfera dorata, gli oggetti della nostra camera e il corpo disteso al nostro fianco. La passione appagata ha la sua innocenza, fragile quasi quanto ogni altra: il resto della bellezza umana declinava al rango di spettacolo, cessava d'esser quella selvaggina di cui ero stato il cacciatore. Quell'avventura iniziata in modo banale arricchiva la mia vita, ma la rendeva, d'altro canto, più semplice: l'avvenire contava poco; cessavo d'interrogare gli oracoli; le stelle non furono più, d'allora in poi, che disegni mirabili sulla volta del cielo. Non avevo osservato mai con altrettanto rapimento il pallore dell'alba sull'orizzonte delle isole, la frescura delle grotte consacrate alle Ninfe, abitate da uccelli migratori, il lento volo delle quaglie al crepuscolo. Mi diedi a rileggere i poeti: alcuni mi sembrarono migliori, la maggior parte peggiori di prima. Scrissi versi che mi parvero meno mediocri del solito.
Vi fu il mare d'alberi: le foreste di sughero e le pinete della Bitinia; il padiglione di caccia dalle aperte gallerie nelle quali il giovinetto, ripreso dall'indolenza del suo paese natio, disseminava a caso le frecce, la daga, la cintura dorata, si rotolava con i cani sui divani di cuoio. Le pianure avevano trattenuto la calura della lunga estate; un vapore umido fumigava dalle praterie lungo le rive del Sangario, dove galoppavano branchi di cavalli bradi; allo spuntar del giorno, scendevamo a bagnarci sulle sponde del fiume, sfiorando lungo il cammino le erbe alte imperlate di rugiada notturna, sotto un cielo da cui pendeva la sottile falce di luna che serve di emblema alla Bitinia. Quel paese fu colmato di favori: assunse persino il mio nome.
L'inverno piombò su di noi a Sinope; con un freddo degno della Scizia, inaugurai le opere d'ampliamento del porto, intraprese dai marinai della flotta ai miei ordini. Sulla strada di Bisanzio, a ogni villaggio i notabili avevano fatto accendere fuochi immensi, e le mie guardie vi si riscaldavano. La traversata del Bosforo sotto una bufera di neve fu bellissima; poi, le cavalcate nella foresta tracia, il vento pungente che si ingolfava nelle pieghe dei mantelli, il crepitio innumerevole della pioggia sulle foglie e sul tetto della tenda, la sosta al campo dei muratori dove sarebbe sorta Adrianopoli, le ovazioni dei veterani delle guerre daciche, la terra molle dalla quale ben presto sarebbero sorte e torri e mura. A primavera una visita alle guarnigioni del Danubio mi ricondusse in quella borgata prospera che oggi è Sarmizegetusa; il fanciullo di Bitinia recava al polso un bracciale del re Decebalo. Il ritorno in Grecia lo compimmo dal nord: mi attardai qualche giorno nella valle del Tempe, tutta percorsa da acque vive; ci venne incontro la bionda Eubea, poi l'Attica dal colore del vino rosato; Atene la sfiorammo appena; a Eleusi, durante le mie iniziazioni ai Misteri, trascorsi tre giorni e tre notti confuso tra la folla dei pellegrini che s'iniziavano anch'essi durante quella stessa festa: la sola precauzione fu di proibire agli uomini di portare il coltello.
Condussi Antinoo nell'Arcadia dei suoi avi; le foreste vi restavano impenetrabili come ai tempi in cui vi avevano abitato quegli antichi cacciatori di lupi. A volte, con un colpo di frusta, un cavallerizzo fugava una vipera; sulle cime sassose, il sole era rovente come nel pieno dell'estate; il giovinetto, addossato alla roccia, sonnecchiava, la testa reclinata sul petto, i capelli sfiorati dalla brezza, simile a un Endimione del giorno. Una lepre, che il mio cacciatore giovinetto aveva addomesticata con infinita pazienza, fu sbranata dai cani: fu l'unico dispiacere di quei giorni senza nubi. La popolazione di Mantinea scoprì antichi vincoli di parentela con quella famiglia di coloni bitini, sconosciuti fino a quel giorno: la città, nella quale in seguito il fanciullo ebbe i suoi templi, fu arricchita e abbellita da me. L'antichissimo santuario di Nettuno ormai, caduto in rovina, era così venerato che se ne vietava l'accesso a chiunque: dietro quelle porte perennemente sprangate si perpetuavano misteri più antichi forse della stessa razza umana. Edificai lì un nuovo tempio, assai più vasto, e l'edificio antico è racchiuso ormai all'interno di esso come il nocciolo nel cuore d'un frutto. Lungo le strade, non lontano da Mantinea, feci restaurare la tomba dove Epaminonda, ucciso in combattimento, riposa accanto a un giovane compagno colpito al suo fianco: vi fu innalzata a mia cura una colonna, sulla quale venne inciso un poema, per commemorare quel ricordo d'un tempo in cui tutto, visto a distanza, sembra sia stato nobile e semplice: la tenerezza, la gloria, la morte. In Acaia, i giochi istmici furono celebrati con uno splendore che non si era più visto dai tempi antichi; ripristinando le grandi feste elleniche, speravo di rifare della Grecia una unità viva. La caccia ci condusse nella valle d'Elicona, dorata dalle porpore estreme dell'autunno; sostammo in riva alla sorgente di Narciso, presso il santuario dell'Amore: la spoglia d'una giovane orsa, un trofeo sospeso con chiodi d'oro alla parete del tempio, fu offerta a quel dio, il più saggio di tutti.
La barca, che il mercante Erasto di Efeso mi cedeva per navigare nell'arcipelago, gettò l'ancora nella baia di Falero: mi stabilii ad Atene come un uomo che torna a casa sua. Osai metter mano a quella bellezza, tentai di rendere perfetta quella città ammirevole. Dopo una lunga decadenza, Atene si ripopolava nuovamente, e ricominciava a crescere dopo un lungo periodo di declino: ne raddoppiai l'estensione; mi prefiguravo un'Atene rinnovata, lungo l'Ilisso, la città di Adriano al fianco di quella di Teseo. Tutto era da riordinare, da ricostruire. Sei secoli innanzi era stato abbandonato, appena iniziato, il grande tempio consacrato a Giove Olimpico. I miei operai si misero al lavoro: Atene conobbe di nuovo l'attività gioiosa che non aveva assaporata più dai tempi di Pericle. Condussi a termine ciò che un Seleucide aveva tentato invano di compiere; riparai le rapine del nostro Silla. L'ispezione dei lavori richiese un via vai quotidiano in un dedalo di macchine, di carrucole sapienti, di fusti semieretti, di blocchi candidi ammucchiati negligentemente sotto un cielo turchino. Vi ritrovavo un poco l'atmosfera, l'eccitazione dei cantieri navali; un bastimento in disarmo tornava in servizio per l'avvenire. La sera, l'architettura cedeva il posto alla musica, edificio invisibile. Potrei dire d'aver praticato tutte le arti, ma quella dei suoni è l'unica in cui mi sia esercitato costantemente, e nella quale possa vantare una certa abilità. A Roma, dissimulavo questa mia passione: ad Atene, potevo abbandonarmi a essa, se pure con discrezione. Nella corte, dove sorgeva un cipresso, si radunavano i musici, ai piedi d'una statua di Ermes. Erano sei o sette soltanto: un'orchestra di flauti e di lire, alla quale a volte si univa un virtuoso armato di cetra. Molto spesso io tenevo il grande flauto traverso. Suonavamo arie antiche, quasi dimenticate, e melodie nuove, composte per me. Amavo l'austerità virile della musica dorica, ma non detestavo affatto le melodie voluttuose o appassionate, patetiche o sapienti, sdegnate come perturbatrici dei sensi e del cuore dalle persone gravi, la cui virtù consiste nel paventare ogni cosa. Tra le corde, scorgevo il profilo del mio giovane compagno, tutto intento a far la sua parte nel complesso, e il moto attento delle sue dita lungo le corde tese.
Quell'inverno delizioso fu ricco di contatti amichevoli: il ricchissimo Attico, la banca del quale finanziava i miei lavori edilizi, non senza congruo profitto, m'invitò nei suoi giardini di Chefissia, dove viveva circondato da una corte di poeti estemporanei e di scrittori alla moda; suo figlio, il giovane Erode, era un conversatore avvincente e sottile al tempo stesso, e divenne un commensale indispensabile delle mie cene ad Atene. Aveva largamente superato quella timidezza che l'aveva fatto restare di stucco alla mia presenza, all'epoca in cui gli efebi ateniesi me l'avevano inviato alle frontiere sarmate per rallegrarsi della mia ascesa al trono; ma la sua vanità crescente mi appariva, oggi, piacevolmente patetica. Il retore Polemone, il grand'uomo di Laodicea, che rivaleggiava con Erode in eloquenza, e soprattutto in ricchezza, m'incantò con quel suo stile asiatico, ampio e mosso come le onde d'un Pactole: quell'uomo, abile nell'accostare le parole, viveva come parlava, con fasto. Ma il più prezioso dei miei incontri fu quello con Arriano di Nicomedia, il mio migliore amico. Di dodici anni circa più giovane di me, aveva già iniziato quella brillante carriera politica e militare nella quale continua a farsi onore e a servire lo Stato. La sua esperienza, la sua conoscenza dei cavalli, dei cani, di tutti gli esercizi del corpo, lo mettevano infinitamente al di sopra dei semplici frasaioli. Da giovane, era stato travolto da una di quelle singolari passioni dello spirito, senza le quali forse non può esserci vera saggezza, né autentica grandezza: due anni della sua vita li aveva trascorsi a Nicopoli, in Epiro, nella stanzetta fredda e spoglia dove Epitteto agonizzava: s'era imposto il compito di raccogliere e trascrivere, parola per parola, gli ultimi aforismi del vecchio filosofo infermo. Quel periodo d'entusiasmo aveva lasciata la sua impronta su di lui: ne serbava un mirabile rigore morale, una specie di candida austerità. Praticava in segreto astinenze che nessuno avrebbe sospettato. Ma il prolungato tirocinio della disciplina stoica non l'aveva irrigidito in un atteggiamento da saggio di maniera: era troppo intelligente per non accorgersi che agli eccessi di virtù accade quel che avviene a quelli dell'amore, e cioè che il loro merito consiste precisamente nella loro eccezionalità, nel loro carattere di eccellenza unica, di magnifica follia. La serena intelligenza, la perfetta probità di Senofonte ormai costituivano il suo modello. Scriveva la storia del suo paese, la Bitinia. Avevo posto sotto la mia giurisdizione personale quella provincia, per lungo tempo male amministrata dai proconsoli; mi offrì i suoi consigli nei miei piani di riforme. Assiduo lettore dei dialoghi socratici, nulla ignorava dei tesori di eroismo, di devozione, di saggezza a volte, onde la Grecia ha saputo nobilitare l'amicizia e mostrava una tenera deferenza verso il mio giovane favorito. Bitini entrambi, parlavano quel dolce dialetto jonico, dalle desinenze quasi omeriche, che in seguito persuasi Arriano a usare nelle sue opere.
In quell'epoca, Atene aveva il suo filosofo della vita sobria: in una capanna di Colono, Demonace conduceva un'esistenza esemplare e serena. Non era Socrate: non ne aveva né l'acume né l'ardore, ma mi era cara la sua bonaria ironia. L'attore comico Aristomene, che interpretava con brio le vecchie commedie attiche, fu un altro di quegli amici dal cuore semplice. Lo chiamavo la mia pernice greca: basso, tarchiato, allegro come i bambini o gli uccelli, ne sapeva più di chiunque altro a proposito di riti, di poesia e ricette di cucina d'altri tempi. Mi divertì, mi istruì a lungo. Fu in quel periodo che Antinoo suscitò l'affetto del filosofo Cabria, un seguace di Platone intriso d'orfismo, l'uomo più innocente del mondo, il quale consacrò al fanciullo una fedeltà da cane da guardia, e più tardi la riversò su di me. Undici anni di vita alla mia corte non l'hanno ancora mutato; è sempre lo stesso: candido, devoto, castamente assorto nei sogni, cieco agli intrighi e sordo alle chiacchiere. A volte mi tedia, ma non me ne separerò che alla mia morte.
I miei rapporti con il filosofo stoico Eufrate furono di minor durata. Dopo brillanti successi a Roma, s'era ritirato ad Atene; lo assunsi come lettore, ma le sofferenze che da un pezzo gli provocava un ascesso al fegato, e l'indebolimento che ne seguiva, lo persuasero che la vita non gli offriva più nulla che valesse la pena di vivere. Mi chiese il permesso di lasciare il mio servizio col suicidio. Non sono stato mai contrario all'uscita di scena volontaria; ci avevo pensato anch'io come a una fine possibile al momento della crisi che precedette la morte di Traiano. A quel tempo, il problema del suicidio, che in seguito doveva ossessionarmi, mi appariva facile da risolvere. Eufrate, in ogni caso, ottenne l'autorizzazione che implorava; gliela feci portare dal mio fanciullo, forse perché io stesso avrei gradito ricevere dalle mani d'un simile messaggero quel responso finale. Quella sera, il nostro filosofo si presentò a palazzo per una conversazione che non differiva in nulla dalle precedenti; si uccise l'indomani. Parlammo più volte di questo incidente; il fanciullo ne rimase contristato per qualche giorno. Quello splendido essere sensuale guardava la morte con orrore; non mi accorgevo che ci pensava già molto. Quanto a me, stentavo a comprendere che si lasciasse volontariamente un mondo che mi appariva tanto bello; che non si esaurisse fino in fondo, a onta di tutti i mali, l'estrema possibilità di pensiero, di contatti, di spettacolo persino. Ma ho cambiato idea, in seguito.
Le date mi si confondono: la mia memoria compone un affresco solo, dove si affastellano incidenti e viaggi di svariate stagioni. La barca lussuosamente arredata del mercante Erasto di Efeso volse la prua verso l'Oriente, poi verso il Sud, finalmente verso quest'Italia che diventava l'Occidente per me. Rodi fu toccata due volte; Delo, accecante di candore, la visitai una prima volta in un mattino d'aprile, poi sotto la luna piena del solstizio; il cattivo tempo sulla costa dell'Epiro mi consentì di prolungare una visita a Dodona. In Sicilia, ci attardammo qualche giorno a Siracusa per esplorarvi il mistero delle sorgenti: Aretusa, Cyané, le belle ninfe azzurre. Dedicai un pensiero a Licinio Sura, il quale un tempo aveva consacrato i suoi ozi di statista a studiare il mistero delle acque. Avevo sentito parlare delle iridescenze stupende dell'aurora sul Mare Jonio, quando la si contempla dalla vetta dell'Etna. Stabilii di intraprendere l'ascensione di quella montagna; passammo dalla regione delle vigne a quella della lava, poi della neve. Il fanciullo dalle gambe di danzatore correva su quelle ripide chine; i sapienti che mi accompagnavano salirono a dorso di muli. Sulla cima, era stato costruito un rifugio ove poter attendere l'alba. Questa alfine spuntò: un'immensa sciarpa d'Iride si distese da un orizzonte all'altro; strani fuochi brillarono sui ghiacci della vetta; la vastità terrestre e marina si dischiuse al nostro sguardo sino all'Africa, visibile, e alla Grecia che s'indovinava. Fu uno dei momenti supremi della mia vita. Non vi mancò nulla, né la frangia dorata d'una nube, né le aquile, né il coppiere dell'immortalità.
Stagioni d'Alcione, solstizio dei miei giorni... Lungi dall'accrescere nel ricordo la felicità trascorsa, devo lottare per non sbiadire la sua immagine; persino il suo ricordo, oggi, è troppo forte per me. Più sincero della maggior parte degli uomini, confesso senza reticenza le cause segrete di questa felicità: quella calma, tanto propizia alle opere e alle discipline dello spirito, mi sembra uno degli effetti più belli dell'amore. E mi sorprende che queste gioie così precarie, così raramente perfette nel corso d'una vita umana - quale che sia, del resto, l'aspetto sotto il quale noi le abbiamo cercate o ricevute - vengano guardate con tanta diffidenza da presunti saggi, i quali ne paventano l'assuefazione o l'eccesso anziché temerne la privazione o la perdita; sì che trascorrono a soggiogare i propri sensi quel tempo che impiegherebbero assai più utilmente ad abbellire la propria anima. In quell'epoca, nel consolidare la mia felicità, nell'assaporarla, nel valutarla persino, ponevo l'attenzione costante che ho sempre prestata ai particolari più futili delle mie azioni; e che cos'è la stessa voluttà se non un momento di attenzione appassionata del corpo? Qualsiasi felicità è un capolavoro: il minimo errore la falsa, la minima esitazione la incrina, la minima grossolanità la deturpa, la minima insulsaggine la degrada. Alla mia non può imputarsi alcuna di quelle imprudenze che più tardi l'hanno infranta: sino a che ho agito nella direzione ch'essa m'indicava, sono stato saggio. Ritengo tuttora che a un uomo più saggio di me sarebbe stato possibile essere felice fino alla morte.
Qualche tempo più tardi, nella Frigia, sui confini dove la Grecia e l'Asia si confondono, ho avuto l'immagine più lucida e completa di quella felicità. Eravamo accampati in una località deserta e selvaggia, dov'è la tomba di Alcibiade, il quale morì laggiù, vittima delle macchinazioni dei satrapi. Avevo fatto collocare su quel sepolcro abbandonato da secoli una statua di marmo pario, l'effige di quell'uomo, che fu tra quelli che la Grecia ha amato di più. Avevo ordinato altresì che ogni anno vi si celebrassero riti commemorativi: gli abitanti del villaggio vicino s'erano aggregati alle persone del mio seguito per la prima di quelle cerimonie; fu sacrificato un torello, e una parte della sua carne fu riservata per il festino della sera. Fu improvvisata una corsa di cavalli nella pianura, si ebbero danze alle quali il fanciullo di Bitinia prese parte con grazia impetuosa; più tardi, quando fu spento l'ultimo fuoco, gettò indietro la sua bella gola e cantò. Mi piace stendermi al fianco dei morti per misurarmi con loro: quella sera, paragonai la mia vita a quella di quel gaudente già prossimo alla vecchiaia, che era caduto in quel luogo, trafitto dalle frecce, difeso strenuamente da un amico giovinetto, e pianto da una cortigiana ateniese. La mia giovinezza non aveva preteso il prestigio di quella di Alcibiade: ma la mia varietà eguagliava o sorpassava la sua. Avevo goduto quanto lui, avevo meditato più intensamente, avevo lavorato molto di più; possedevo, come lui, la fortuna singolare d'essere amato. Alcibiade ha sedotto tutti, persino la Storia; tuttavia, lasciò dietro di sé cumuli di morti ateniesi abbandonati nelle cave siracusane, una patria vacillante, le divinità dei crocevia scioccamente mutilate dalle sue mani. Io avevo governato un mondo infinitamente più vasto di quello nel quale l'ateniese era vissuto; vi avevo mantenuto la pace; l'avevo attrezzato come una bella imbarcazione ben munita per un viaggio che durerà molti secoli; avevo lottato in ogni modo per secondare il senso del divino nell'uomo, senza tuttavia sacrificare a esso l'umano. La mia felicità era il mio compenso.