4. SAECULUM AUREUM (2)
C'era Roma. Ma non ero più costretto a destreggiarmi, a lusingare, a piacere. Le opere del mio principato s'imponevano; le porte del tempio di Giano, che si aprono in tempo di guerra, restavano chiuse; le mie buone intenzioni davano i loro frutti; la prosperità delle province rifluiva nella metropoli. Non rifiutai più il titolo di Padre della Patria, che mi era stato proposto all'epoca del mio avvento.
Plotina non era più. Durante un mio precedente soggiorno nell'Urbe, avevo rivisto per l'ultima volta quella donna dal sorriso un po' stanco, che il protocollo ufficiale mi attribuiva per madre, e che era per me assai di più: la mia unica amica. Questa volta, non ritrovai di lei che una piccola urna, deposta sotto la Colonna Traiana. Assistei di persona alle cerimonie dell'apoteosi; in contrasto con l'uso imperiale, presi il lutto per un periodo di nove giorni. Ma la morte modificava ben poco quella intimità che da anni faceva a meno della presenza; l'imperatrice restava quella che era sempre stata per me: uno spirito, un pensiero, al quale il mio s'era unito.
Giungevano a termine alcuni grandi lavori di costruzione: il Colosseo restaurato, purificato dei ricordi di Nerone che lo funestavano ancora, era adorno, invece che dell'immagine di quell'imperatore, d'una effige colossale del Sole, Helio-Re, per un'allusione al mio nome gentilizio, Elio. Si dava l'ultima mano al tempio di Venere e Roma, costruito anch'esso nel luogo della scandalosa "Domus Aurea", dove Nerone aveva fatto pompa ignobile d'un lusso mal conseguito. "Roma, Amor": per la prima volta, la divinità della Città Eterna s'identificava con la Madre dell'Amore, ispiratrice di ogni gioia. Era una delle idee della mia vita. Così, la potenza romana assumeva quel carattere sacrale, cosmico, quella forma pacifica e tutelare che io ambivo imprimerle. A volte, mi accadeva di assimilare l'imperatrice defunta a quella Venere saggia, consigliera divina.
Tutti gli déi mi apparivano sempre più misteriosamente fusi in un Tutto, quali emanazioni infinitamente varie, manifestazioni eguali d'una medesima forza: le loro contraddizioni non erano che un aspetto del loro accordo. Mi si era imposta la costruzione d'un tempio a tutti gli déi, d'un pantheon; ne avevo scelto l'area sulle rovine delle antiche terme pubbliche offerte al popolo romano da Agrippa, genero di Augusto. Del vecchio edificio non restava null'altro che un portico e la lastra di marmo d'una dedica al popolo di Roma, che fu ricollocata accuratamente, così com'era, sul frontone del nuovo tempio. Poco mi importava che figurasse il mio nome su quel monumento, che esprimeva il mio pensiero. Al contrario, mi piaceva che un'iscrizione antica d'un secolo e più lo associasse agli inizi dell'impero, al regno pacificato di Augusto. Anche là dove rinnovavo, mi piaceva sentirmi anzitutto un continuatore. Al di là di Traiano e di Nerva, divenutimi ufficialmente padre e avo, mi riattaccavo persino a quei dodici Cesari tanto denigrati da Svetonio: la lucidità di Tiberio, ma non la sua durezza; l'erudizione di Claudio, non la sua debolezza; l'amore delle arti di Nerone, esente però da ogni sciocca vanità; la bontà di Tito, ma non così dolciastra; la parsimonia di Vespasiano, senza la sua lesina ridicola, costituivano altrettanti esempi che mi proponevo. Quei principi avevano rappresentato la loro parte nelle cose umane; ormai, spettava a me scegliere tra i loro atti quelli che era bene continuare, consolidare i migliori, correggere i peggiori, sino al giorno in cui altri uomini, più o meno qualificati di me, ma egualmente responsabili, si sarebbero incaricati di fare altrettanto con i miei atti.
La consacrazione del tempio di Venere e Roma fu una specie di trionfo, accompagnato da corse di bighe, da spettacoli pubblici, da elargizioni di spezie e profumi. I ventiquattro elefanti che avevano trascinato fino al cantiere quei blocchi enormi, riducendo così il lavoro forzato degli schiavi, figurarono anch'essi nel corteo, monoliti viventi. La data prescelta per questa festa era il giorno anniversario della nascita di Roma, l'ottavo giorno che segue gli idi di aprile, dell'anno 882 dopo la fondazione dell'Urbe. Mai la primavera romana era stata più dolce, più intensa, più azzurra. Lo stesso giorno, con solennità più austera, ma quasi in sordina, ebbe luogo una cerimonia dedicatoria all'interno del Pantheon. Avevo ritoccato di persona i progetti troppo cauti dell'architetto Apollodoro. Delle arti della Grecia volli servirmi per le decorazioni, come per un lusso supplementare, ma per la struttura dell'edificio ero risalito ai tempi primitivi e favolosi di Roma, ai templi rotondi dell'Etruria antica. Avevo voluto che quel santuario di tutti gli déi riproducesse la forma della terra e della sfera stellare, della Terra dove si racchiudono le sementi del fuoco eterno, della sfera cava che tutto contiene. Era quella, inoltre, la forma di quelle capanne ancestrali nelle quali il fumo dei più antichi focolari umani usciva da un orifizio aperto alla sommità. La cupola, costruita d'una lava dura e leggera che pareva partecipe ancora del movimento ascensionale delle fiamme, comunicava col cielo attraverso un largo foro, alternativamente nero e azzurro. Quel tempio aperto e segreto era concepito come un quadrante solare. Le ore avrebbero percorso in circolo i suoi riquadri, accuratamente levigati da artigiani greci: il disco del giorno vi sarebbe rimasto sospeso come uno scudo d'oro; la pioggia avrebbe formato una pozzanghera pura sul pavimento; la preghiera sarebbe volata simile al fumo verso quel vuoto nel quale collochiamo gli déi. Quella festa fu per me una di quelle ore nelle quali tutto confluisce. In piedi, nel fondo di quel pozzo di luce, avevo al mio fianco le gerarchie del mio principato, e la sostanza di cui si materiava il mio destino, ormai edificato più che a metà.
Riconoscevo l'austera energia di Marcio Turbo, servitore fedele; la dignità, non aliena dalle rampogne, di Serviano, le cui critiche sussurrate a voce sempre più sommessa, non mi sfioravano più; l'eleganza regale di Lucio Seionio; e, un po' in disparte, in quella densa penombra che si addice alle apparizioni divine, il volto pensoso del giovinetto greco nel quale avevo incarnato la mia fortuna. Mia moglie, presente anch'essa, aveva appena ricevuto il titolo di imperatrice.
Già da un pezzo preferivo le favole degli amori e delle contese tra i numi ai maldestri commentari dei filosofi sulla natura divina; accettavo d'essere l'immagine terrestre di quel Giove che quanto più è uomo tanto più è dio, sostegno del mondo, giustizia incarnata, ordine delle cose, amante dei Ganimedi e delle Europe, sposo negligente di una Giunone amara. Il mio spirito, incline in quel giorno a disporre ogni cosa in una luce senz'ombre, paragonava l'imperatrice a quella dea alla quale, durante una mia recente visita ad Argo, avevo consacrato un pavone d'oro adorno di pietre preziose. Col divorzio, avrei potuto agevolmente sbarazzarmi di quella donna che non amavo; se fossi stato un privato non avrei esitato a farlo. Ma mi dava così poco fastidio, e nulla, nella sua condotta, giustificava un insulto così clamoroso. Quando era ancora giovane sposa, s'era adontata delle mie sregolatezze, ma pressappoco come lo zio s'irritava dei miei debiti. Oggi, assisteva senza mostrare di accorgersene alle manifestazioni d'una passione che s'annunciava duratura. Come molte donne poco sensibili all'amore, non ne valutava il potere; ignoranza che escludeva al tempo stesso l'indulgenza e la gelosia. Si allarmava soltanto se riteneva minacciati i suoi titoli o la sua sicurezza; e questo non era il caso. Non era rimasta alcuna traccia in lei di quella grazia di adolescente che, in altri tempi, m'aveva attratto per breve tempo. Era una spagnola precocemente invecchiata, dura, austera. Dovevo alla sua frigidità se non s'era fatta un amante; mi piaceva che sapesse portare con dignità i suoi veli da matrona, che erano quasi da vedova; mi piaceva che sulle monete romane figurasse un profilo di imperatrice, e sul retro un'iscrizione, al Pudore o alla Quiete. Mi veniva fatto di pensare a quelle nozze fittizie che hanno luogo tra la grande sacerdotessa e lo Ierofante, la sera delle feste di Eleusi; nozze che non sono un'unione e neppure un contatto, bensì un rito, e come tali vengono consacrate.
La notte che seguì quelle celebrazioni, da una terrazza guardai divampare Roma. Erano fuochi di gioia e valevano bene gl'incendi voluti da Nerone: ed erano quasi altrettanto paurosi. Roma: crogiolo e fornace al tempo stesso, metallo che ribolle; martello sì, ma anche incudine, prova visibile dei mutamenti e dei ricorsi della storia, uno dei luoghi al mondo dove l'uomo avrà vissuto più tumultuosamente. La conflagrazione di Troia, donde un profugo era scampato, portando con sé il vecchio padre, il figlio giovinetto e i suoi Lari, si concludeva quella sera in quelle alte, gioiose fiammate. Pensavo pure, con una sorta di terrore sacro, agli incendi dell'avvenire. Quei milioni di vite passate, presenti e future, quegli edifici recenti, nati su edifici antichi e seguiti a loro volta da edifici ancora da costruirsi, mi sembrava si susseguissero nel tempo, simili alle onde; per un caso, quella notte gl'immensi marosi venivano a infrangersi ai miei piedi. Taccio gli istanti di delirio in cui la porpora imperiale, il tessuto sacro, che così raramente mi risolvevo a indossare, fu gettata sulle spalle dell'essere che diveniva per me il mio Genio; mi piaceva, certo, contrapporre quel rosso profondo all'oro pallido d'una nuca, ma soprattutto costringere la mia Felicità, la mia Fortuna, entità vaghe e incerte, a incarnarsi in quella forma tanto terrestre, ad assumere il calore e il peso vivo della carne. Le solide mura di quel Palatino che abitavo tanto poco, ma che avevo appena ricostruito, oscillavano come i fianchi d'un'imbarcazione; i tendaggi dischiusi perché la notte romana invadesse le mie stanze erano quelli d'un padiglione di poppa; le grida della folla erano il sibilo del vento tra le sartie. Lo scoglio immane che si scorgeva in lontananza, nell'ombra, le mura gigantesche della mia tomba che cominciava a sorgere allora in riva al Tevere, non m'ispiravano né terrore, né rimpianto, né inani meditazioni sulla brevità della vita.
A poco a poco, la luce cambiò. Dopo due anni e più, si notavano le orme del tempo, dei progressi d'una giovinezza che si forma, s'indora, sale quasi allo zenit; la voce fonda del fanciullo s'abituava a dare ordini a nocchieri e capicaccia; la falcata più lunga del corridore; le gambe del cavaliere che stringono la cavalcatura con maggiore esperienza; l'alunno, che a Claudiopoli aveva imparato a memoria lunghi frammenti di Omero, e si appassionava di poesia lasciva e raffinata, ora si estasiava di alcuni brani di Platone. Il mio pastorello diventava un giovane principe. Non era più il fanciullo zelante che, alle soste, si gettava da cavallo per offrirmi l'acqua delle sorgenti attinta nel cavo delle sue palme; ora, il donatore conosceva il valore immenso dei suoi doni. Durante le cacce organizzate nelle terre di Lucio, in Etruria, m'ero divertito a mescolare quel volto perfetto alle fisionomie grevi e aggrottate dei grandi dignitari, ai profili acuti degli Orientali, alle rozze grinte dei cacciatori barbari, a costringere il mio diletto alla parte difficile di amico. A Roma, s'erano orditi intrighi intorno alla sua giovane testa, s'erano esercitati sforzi abietti per catturare la sua influenza e sostituirvene qualche altra. La capacità di chiudersi in un pensiero unico dotava quel diciottenne d'una sorta d'indifferenza che manca ai più saggi: aveva saputo sdegnare tutte quelle trame, o ignorarle. Ma la sua bella bocca aveva assunto una piega amara che non sfuggì agli scultori.
Offro qui ai moralisti un'occasione facile per trionfare di me. I miei censori si apprestano già a scoprire, all'origine della mia sventura, le conseguenze d'un traviamento, il risultato d'un eccesso. Mi è difficile contraddirli in quanto non riesco a scorgere in che cosa mi sia traviato, in che cosa io abbia ecceduto. Mi sforzo di ridurre il mio delitto, se tale dobbiamo chiamarlo, a proporzioni esatte; mi dico che il suicidio non è poi così raro, che è un fatto abbastanza comune morire a vent'anni. La morte di Antinoo è un problema, oltreché una sciagura, per me solo. Può darsi che questa sciagura sia stata inseparabile da un eccesso di gioia, da un sovrappiù d'esperienza, di cui non avrei consentito a privarmi, né a privare il mio compagno di pericolo. I miei rimorsi, a poco a poco, sono divenuti anch'essi un aspetto amaro di possesso, un modo per assicurarmi d'esser stato sino alla fine lo sventurato padrone del suo destino. Ma non ignoro che bisogna fare i conti con le iniziative personali di quell'estraneo affascinante che resta, malgrado tutto, ogni essere amato. Se m'assumo tutta la colpa, riduco quella giovane figura alle proporzioni d'una statuetta di cera che io avrei modellata, e poi infranta con le mie stesse mani. Non ho il diritto di avvilire quel raro capolavoro che fu la sua fine; devo lasciare a quel fanciullo il merito della propria morte.
Naturalmente, non ne faccio una colpa al fattore dei sensi - molto ovvio, del resto - che determinava la mia scelta in amore. Di passioni consimili ne erano passate spesso, nella mia vita; ma quegli amori, frequenti, non m'erano costati che un minimo di promesse, di menzogne, di pene. La breve esaltazione per Lucio non m'aveva trascinato che a poche follie, e rimediabili. Nulla vietava che sarebbe accaduto lo stesso di questa mia tenerezza suprema; nulla, salvo precisamente quella qualità unica che la distingueva dalle altre. L'assuefazione ci avrebbe condotti a quella fine senza gloria, ma anche senza disastri, che la vita procura a tutti coloro che non le ricusano il lene logorio del tempo. Avrei assistito al mutarsi della passione in amicizia, come pretendono i moralisti, oppure in indifferenza, il che è più frequente. Un essere giovane si sarebbe staccato da me nel momento in cui il nostro legame avrebbe cominciato a pesarmi; altre consuetudini sensuali, o le stesse, sotto forme diverse, si sarebbero insediate nella sua vita; il suo avvenire avrebbe contenuto un matrimonio, né migliore né peggiore di tanti altri, una carica nell'amministrazione delle province, la gestione d'un possedimento rurale in Bitinia; o anche l'inerzia, la vita di corte proseguita in qualche posizione subalterna; nel peggiore dei casi, una di quelle carriere di favorito decaduto che si trasforma in confidente o in lenone. La vera saggezza, se ci capisco qualcosa, consiste nella consapevolezza di tutte queste eventualità, che costituiscono la vita stessa, salvo a far di tutto per scartare le peggiori. Ma né quel fanciullo né io eravamo saggi.
Non avevo atteso la presenza di Antinoo per sentirmi un dio. Ma il successo moltiplicava le occasioni di vertigine, intorno a me; pareva che le stagioni collaborassero con i poeti e i musici del mio seguito per rendere la nostra esistenza tutta una festa olimpica. Il giorno del mio arrivo a Cartagine, ebbe termine una siccità che durava da cinque anni; la folla in delirio sotto la pioggia scrosciante acclamò in me il dispensatore di benefici sovrumani; i grandi acquedotti d'Africa, poi, altro non furono che un modo per canalizzare quella prodigalità celeste. Qualche tempo prima, durante una sosta in Sardegna, un temporale ci spinse a cercar rifugio in una capanna di contadini; Antinoo aiutò il nostro ospite a rigirare sulla brace un paio di trance di tonno; mi sembrò d'esser Zeus che visita Filemone in compagnia di Ermes. Quel giovinetto dalle gambe ripiegate sul letto era Ermes in persona, che si scioglie i sandali; era Bacco, mentre coglieva un grappolo o assaggiava per me una coppa di vino rosato; le sue dita, indurite dalla corda dell'arco, erano quelle di Eros. Fra tante trasfigurazioni, in mezzo a tante magie, mi accadde di dimenticare la persona umana, il fanciullo che s'affannava invano a imparare il latino, o pregava l'architetto Decriano di dargli lezioni di matematica, poi vi rinunciava, e, al minimo rimprovero, si rifugiava imbronciato a prua della nave a guardare il mare.
Il viaggio d'Africa ebbe termine in pieno luglio nei nuovi quartieri di Lambesa; il mio compagno indossò con gioia puerile la corazza e la tunica militare; io fui per qualche giorno il Marte nudo, che, l'elmo in testa, prende parte alle esercitazioni del campo, l'Ercole atletico ebbro della consapevolezza del suo vigore ancor giovane. Nonostante il caldo, e i lunghi lavori di sterro eseguiti prima del mio arrivo, l'esercito operò, come tutto il resto, con divina scioltezza: sarebbe stato impossibile costringere quel corridore a un altro salto d'ostacolo, imporre a quel cavallerizzo un nuovo volteggio, senza nuocere all'armonia medesima di quelle manovre, senza infrangere in qualche punto quel giusto equilibrio di forze che ne costituisce la bellezza. Dovetti far osservare agli ufficiali un solo errore, ma impercettibile: un gruppo di cavalli lasciati allo scoperto durante un attacco, simulato, in aperta campagna; Comeliano, il mio prefetto, mi contentò in tutto. Un ordine sapiente guidava quelle masse d'uomini, di bestie da tiro, di donne barbare accompagnate da fanciulli robusti che si affollavano intorno al pretorio per baciarmi le mani. Questa reverenza non era servile; quell'ardore selvaggio s'impegnava a sostenere il mio programma di sicurezza; nulla era costato troppo caro; nulla era stato trascurato. Pensai di far redigere da Arriano un trattato di tattica militare, puntuale come un organismo ben fatto.
Più tardi, ad Atene, la consacrazione dell'Olympieion diede occasione a feste che ricordavano le solennità romane, ma quel che a Roma s'era svolto sulla terra laggiù avvenne in pieno cielo. In un dorato meriggio autunnale, presi posto sotto quel portico concepito per la statura sovrumana di Zeus; il tempio di marmo eretto nel punto ove Deucalione vide cessare il diluvio, pareva perdere peso, fluttuare come una densa nube bianca; le mie vesti rituali s'intonavano con i colori della sera, sull'Imetto contiguo. Avevo incaricato Polemone di pronunciare il discorso inaugurale; e, in quella occasione, la Grecia mi assegnò quegli attributi divini nei quali ravvisavo al tempo stesso una fonte di prestigio e il fine più segreto dell'opera della mia vita: Evergete, Olimpico, Epifane, Signore del Tutto. E il più bello di questi titoli, il più arduo da meritare tra tutti: Jonico, Filelleno. Polemone recitava un poco, ma nella mimica d'un grande commediante traspare a volte un'emozione alla quale partecipa tutta una folla, tutto un secolo. Levò gli occhi, si concentrò un istante prima dell'esordio, parve racchiudere in sé tutti i doni contenuti in quell'istante del tempo. Avevo collaborato con i secoli, con la stessa vita greca; l'autorità che esercitavo, più che un potere, era una potenza misteriosa, che sovrasta l'uomo, ma che agisce efficacemente solo attraverso la mediazione dell'uomo; le nozze di Atene e Roma erano consumate; il passato ritrovava il volto dell'avvenire; la Grecia ripartiva come una nave lungamente immobilizzata dalla bonaccia, che torna a sentire la spinta del vento nelle vele. Fu allora che mi strinse il cuore la malinconia d'un istante: pensai che le parole adempimento, perfezione, contengono in sé la parola fine: forse, non avevo fatto che offrire una nuova preda al Tempo divoratore.
Penetrammo poi all'interno del tempio, dove gli scultori erano ancora intenti al lavoro: l'immenso abbozzo del Zeus d'avorio e d'oro rischiarava vagamente la penombra: ai piedi dell'impalcatura, il grande serpente, che avevo fatto cercare in India per consacrarlo in quel santuario greco, riposava già nella sua cesta di filigrana, animale divino, emblema strisciante dello spirito della Terra, da sempre associato al giovinetto nudo che simboleggia il Genio dell'imperatore. Antinoo, compenetrandosi sempre più in questa parte, servì lui stesso al serpente la sua razione di colombe dalle ali tarpate. Poi, levate le braccia al cielo, pregò. Sapevo che questa preghiera, fatta per me, non s'indirizzava che a me solo, ma non ero abbastanza dio per indovinarne il senso, né per sapere se, un giorno o l'altro, sarebbe stata esaudita. Che sollievo, uscire da quel silenzio, da quella penombra turchina, ritrovare le strade di Atene rischiarate dalle lampade, la familiarità del popolo, le grida nell'aria densa della sera. La giovane figura che ben presto avrebbe adornato tante monete del mondo greco diveniva per la folla una presenza amica, un prodigio.
Non l'amavo di meno; l'amavo anzi di più. Ma il peso dell'amore, come quello d'un braccio teneramente posato sul petto, a poco a poco si rendeva pesante.
Riapparvero le comparse: ricordo quel giovane asciutto e sottile, che mi accompagnò durante un soggiorno a Mileto, e al quale, però, rinunciai. Ricordo una serata a Sardi: il poeta Stratone ci condusse da un luogo di perdizione a un altro, in compagnia di losche conquiste. Quello Stratone, che aveva preferito la libertà oscura nelle taverne asiatiche alla mia corte, era uno squisito motteggiatore, avido di provare la vanità di tutto quel che non è il piacere, forse per scusarsi di aver sacrificato ad esso tutto il resto. Poi, vi fu quella notte di Smirne, in cui costrinsi il mio giovane amico a subire la presenza d'una cortigiana. Il fanciullo s'era fatto dell'amore un'idea che restava austera, perché era esclusiva; il suo disgusto giunse fino alla nausea. Poi, ci si abituò. Quelle vane prove si spiegano con la mia inclinazione alle sregolatezze; vi si mescolava la speranza d'inventare un'intimità nuova, nella quale il compagno di piacere non avrebbe cessato d'essere l'amico, il prediletto; vi si mescolava la bramosia d'istruirlo, di far passare la sua giovinezza attraverso le stesse esperienze che erano state quelle della mia; fors'anche, più inconfessata, l'intenzione di degradarlo a poco a poco al livello dei piaceri banali che non impegnano.
Il mio bisogno di ferire quella tenerezza ombrosa, che rischiava di costituire un impaccio nella mia vita, non era esente da angoscia. Durante un viaggio nella Troade, visitammo la pianura dello Scamandro, sotto un livido cielo da bufera; l'inondazione, i cui danni ero venuto a ispezionare sul luogo, trasformava in isolotti gli antichi sepolcri. Per alcuni istanti mi raccolsi sulla tomba di Ettore; Antinoo andò a sognare su quella di Patroclo. Non seppi riconoscere nel cerbiatto che m'accompagnava l'emulo del camerata di Achille, schernii le fedeltà appassionate che fioriscono soprattutto nei libri; e la bella creatura insultata arrossì a sangue. La franchezza era sempre più la sola virtù alla quale mi costringevo; mi accorgevo che le discipline eroiche di cui la Grecia ha pervaso l'affetto d'un uomo maturo per un compagno più giovane spesso non sono per noi che ipocrite smancerie. Ero rimasto più sensibile di quel ch'io credessi ai pregiudizi di Roma; ricordavo che essi concedono al piacere la sua parte, ma stimano l'amore una mania disdicevole; ero ripreso dalla furia di non dipendere da nessun essere in maniera esclusiva. Mi esasperavano bizzarrie ch'erano proprie della giovinezza, e come tali inseparabili dal mio compagno; finivo per ritrovare, in questa passione tanto dissimile, tutto quel che m'aveva irritato nelle amanti romane: i profumi, la ricercatezza, il lusso freddo delle acconciature ripresero posto nella mia vita. In quel cuore malinconico s'insinuarono i primi timori, quasi ingiustificati; lo vidi preoccuparsi d'aver presto diciannove anni. Qualche capriccio pericoloso, collere che, squassando su quella fronte caparbia gli anelli di Medusa dei capelli, si alternavano a una malinconia che somigliava al torpore, a una dolcezza sempre più stanca. Mi accadde di percuoterlo; ricorderò sempre quei suoi occhi atterriti. Ma l'idolo offeso era pur sempre l'idolo, e cominciavano i sacrifizi espiatori.
Tutti i Misteri asiatici erano lì ad accentuare quella voluttuosa sregolatezza con le loro armonie dissonanti. Era ormai trascorso il tempo di Eleusi. Le iniziazioni ai culti segreti o stravaganti, pratiche più tollerate che consentite, il legislatore che si celava in me le guardava con diffidenza; ma si adattavano a quel momento della vita in cui la danza si fa vertigine, il canto si chiude nel pianto. Nell'isola di Samotracia, ero stato iniziato ai Misteri dei Cabiri, antichi e osceni, sacri come la carne e il sangue; serpenti sazi di latte nell'antro di Trofonio si strofinarono alle mie caviglie; le feste trace di Orfeo dettero luogo a selvaggi riti di fraternità. L'uomo di Stato che aveva interdetto, ordinando per i trasgressori le pene più severe, tutte le forme di mutilazione, consentì ad assistere alle orge della dea Siriana; ho visto il turbinio orrendo delle danze sanguinose; il mio compagno giovinetto, ipnotizzato come un capretto in presenza d'un rettile, contemplava atterrito quegli uomini che preferivano una mutilazione definitiva quanto la morte, e forse più atroce, alle esigenze dell'età e del sesso. Ma il colmo dell'orrore lo avemmo durante un soggiorno a Palmira, durante il quale il mercante arabo Meleo Agrippa ci ospitò per tre settimane in un lusso splendido e barbarico. Un giorno, al levar delle mense, questo Meleo, gran dignitario del culto di Mitra, che prendeva ben poco sul serio i suoi doveri di pastoforo, propose ad Antinoo di partecipare al sacrificio del toro sacro. Il giovinetto sapeva che in altri tempi io m'ero sottoposto a una cerimonia del genere; e si offrì con ardore. Non pensai di dovermi opporre a quel suo capriccio, per attuare il quale si richiese un minimo di purificazioni e astinenze. Accettai di fungere io stesso da assistente, insieme a Marco Ulpio Castora, il mio interprete per l'arabo. All'ora prestabilita, scendemmo nel sotterraneo sacro. Il bitino si distese per ricevere l'aspersione sanguinosa. Ma, quando vidi emergere dalla fossa quel corpo striato di sangue vermiglio, quella chioma impastata di melma vischiosa, quel volto tutto chiazzato di macchie che non si potevano lavare, ma bisognava lasciar asciugare da sé, mi strinse alla gola la nausea e l'orrore per quei culti sotterranei e torbidi. Qualche giorno più tardi, feci interdire alle truppe acquartierate a Emeso l'accesso al negro Mitreo.
Ho avuto anch'io i miei presagi: come Marc'Antonio prima dell'ultima battaglia, ho udito allontanarsi nella notte la marcia del cambio della guardia: gli déi propizi se ne andavano... La udivo senza badarvi. La mia sicurezza era ormai quella del cavaliere che un talismano protegge da qualsiasi caduta. A Samosata, ebbe luogo sotto i miei auspici un congresso di piccoli re orientali; durante le cacce in montagna, Abgar, re d'Osroene, m'insegnò di persona l'arte del falconiere; alcune battute, ordite come scene di teatro, fecero cadere nelle reti di porpora interi branchi di antilopi; Antinoo s'inarcava con tutta la sua energia per trattenere l'ardore d'una coppia di pantere che strappavano il pesante collare d'oro. Ma dietro quegli splendori, si concludevano accordi; le trattative mi furono sempre favorevoli; restavo il giocatore che vince tutte le partite. Trascorsi l'inverno in quel palazzo di Antiochia dove, in altri tempi, avevo chiesto agli stregoni d'illuminarmi sull'avvenire. Ma, ormai, l'avvenire non poteva recarmi più nulla, o almeno nulla che potesse aver l'aspetto di un dono. La mia vendemmia era fatta: il mosto della vita colmava i miei tini. Avevo cessato, è vero, di regolare il mio destino, ma le discipline accuratamente elaborate d'altri tempi m'apparivano ormai solo lo stadio iniziale d'una vocazione d'uomo; erano simili a quelle catene che il danzatore si costringe a portare per balzare più alto quando se ne libera. L'antica austerità durava in certi punti; continuavo a proibire che si servisse il vino prima della seconda veglia notturna: ricordavo bene d'aver visto, su quella stessa tavola di legno lucido, la mano tremolante di Traiano. Ma esistono ebbrezze diverse. Non si profilava ombra alcuna sui miei giorni, né la morte, né la sconfitta, né quella disfatta più dura che ci s'infligge da sé, né la vecchiaia che tuttavia avrebbe finito per giungere. E, tuttavia, mi affrettavo, come se ciascuna di quelle ore fosse al tempo stesso la più bella e l'estrema.
I frequenti soggiorni in Asia Minore mi avevano messo a contatto con un gruppetto di sapienti seriamente dediti allo studio delle arti magiche. Ogni secolo ha le sue audacie: gli spiriti migliori del nostro, stanchi d'una filosofia che si degrada sempre più al livello di declamazione scolastica, si compiacciono di tentare quelle frontiere vietate all'uomo. A Tiro, Filone di Biblo mi aveva rivelato alcuni segreti dell'antica magia fenicia: mi seguì ad Antiochia. Ivi, della teoria di Platone sulla natura dell'anima, Noumenio dava un'interpretazione che restava cauta, ma che avrebbe portato lontano uno spirito più ardito del suo. I suoi discepoli evocavano i demoni: un gioco come un altro. Tra le volate d'un fumo di resina, mi apparvero strane figure, che sembravano fatte della sostanza stessa dei miei sogni; oscillarono, e si dileguarono, lasciandomi solo la vaga sensazione d'una somiglianza con un viso vivo e a me noto. Forse, tutto ciò non era che il trucco d'un prestigiatore: in questo caso, il prestigiatore sapeva bene il fatto suo. Ripresi gli studi di anatomia, tentati appena nella mia giovinezza, ma non più per studiare la struttura del corpo umano: mi aveva riafferrato la curiosità di quelle zone intermedie dove l'anima e la carne si confondono, dove il sogno si adegua alla realtà, e a volte la previene, dove la vita e la morte si scambiano attributi e sembianze. Ermogene, il mio medico, disapprovava queste esperienze; nondimeno mi introdusse in una piccola cerchia di praticanti, che lavoravano in questo campo. Insieme a loro, tentai d'individuare la sede dell'anima, di scoprire i legami che la saldano al corpo, di misurare il tempo che le occorre per distaccarsene. Alcuni animali furono sacrificati per quelle ricerche. Il chirurgo Satiro mi condusse nella sua clinica, per assistere a qualche agonia. Fantasticavamo ad alta voce: l'anima non è dunque che l'espressione suprema del corpo, fragile manifestazione della pena e del piacere di vivere? O, al contrario, è più antica di questo corpo modellato a sua immagine, e che, bene o male, le serve momentaneamente di strumento? La si può richiamare all'interno della carne, si può ristabilire tra l'una e l'altra quell'intimo legame, quella combustione che chiamiamo vita? Se le anime possiedono una loro identità propria, possono scambiarsi, andare da un essere a un altro, come la parte d'un frutto, come il sorso di vino che due amanti si passano in un bacio? Non v'è sapiente che su queste cose non muti opinione venti volte ogni anno; in me, lo scetticismo era in conflitto con l'ansia di sapere, e l'entusiasmo con l'ironia. M'ero convinto che la nostra intelligenza non lascia filtrare fino a noi che uno scarno residuo dei fatti, e m'interessavo sempre più al mondo oscuro delle sensazioni, quella nera notte dove folgorano e turbinano soli accecanti. In quell'epoca, Flegone, che collezionava storie di spettri, ci raccontò una sera quella della "Fidanzata di Corinto", di cui ci garantì l'autenticità. Quell'avventura, nella quale l'amore riusciva a richiamare un'anima sulla terra e, se pure per poco, le rendeva un corpo, commosse tutti noi, ma in grado diverso. Parecchi tentarono di richiamarsi a esperienze analoghe: Satiro si sforzò di rievocare il maestro Aspasio, il quale aveva stretto con lui uno di quei patti, mai mantenuti, secondo i quali chi muore promette di dar conto di sé ai vivi. Antinoo mi fece una promessa dello stesso genere, e io la presi alla leggera, poiché non avevo nessuna ragione di credere che quel fanciullo dovesse morire prima di me. Filone cercò di farci apparire la moglie morta. Io permisi che si pronunciassero i nomi di mio padre e di mia madre, ma una specie di pudore m'impedì di evocare Plotina. Nessuno di quei tentativi riuscì. Ma s'erano aperte strane porte.
Pochi giorni prima di partire da Antiochia, mi recai, come in altri tempi, a sacrificare in vetta al monte Cassio. L'ascensione fu fatta di notte: come per l'Etna, condussi con me solo una piccola cerchia di amici dai muscoli provati. Non mi proponevo soltanto di compiere un rito propiziatorio in quel santuario, più sacro d'ogni altro: volevo rivedere di lassù il fenomeno dell'aurora, quel prodigio quotidiano, che non ho mai contemplato senza un segreto palpito di gioia. Sulla vetta, il sole fa risplendere gli ornamenti di rame del tempio, i volti illuminati sorridono in piena luce, mentre le pianure dell'Asia e il mare sono ancora immersi nell'ombra: per pochi istanti, l'uomo che prega sulla cima è il solo a godere del mattino. Tutto fu approntato per un sacrificio: prendemmo a salire da prima a cavallo, poi a piedi, lungo ardui sentieri fiancheggiati da ginestre e lentischi, che si riconoscevano di notte dal profumo. L'aria era densa; quella primavera bruciava come, altrove, l'estate. Per la prima volta in un'ascensione in montagna, mi mancò il respiro: dovetti appoggiarmi un istante sulla spalla del mio prediletto. Un temporale, previsto da tempo da Ermogene, che se ne intende di meteorologia, si scatenò a un centinaio di passi dalla cima. I sacerdoti uscirono per venirci incontro al bagliore dei lampi: l'esigua compagnia, fradicia fino alle ossa, si affrettò attorno all'altare disposto per il sacrificio. Questo stava per compiersi, allorché un fulmine, balenando su di noi uccise d'un colpo solo il vittimario e la vittima. Passato il primo istante di orrore, Ermogene si chinò con l'interesse dei medici sul gruppo fulminato; Cabria e il gran sacerdote proruppero in grida d'ammirazione: l'uomo e il cerbiatto sacrificati da quella folgore divina s'univano all'eternità del mio Genio: quelle vite prolungavano la mia. Antinoo aggrappato al mio braccio tremava, non già di terrore, come credetti allora, ma percosso da un'idea che compresi più tardi. Un essere che aveva orrore della decadenza fisica, della vecchiaia, da tempo aveva dovuto ripromettersi di suicidarsi al primo indizio di quella decadenza, o anche molto prima. Oggi, giungo a credere che questo impegno, che molti di noi si giurano, senza poi mantenerlo, in lui fosse radicato da moltissimo tempo, dall'epoca di Nicomedia, di quell'incontro in riva alla sorgente. Quest'impegno spiegava la sua indolenza, il suo ardore nel piacere, la sua malinconia, la sua indifferenza totale per il futuro. Ma bisognava ancora che quella sua fine non avesse l'aria d'una rivolta, non contenesse la minima recriminazione. La folgore del monte Cassio gl'indicava una soluzione: la morte poteva diventare una forma estrema di devozione, l'ultimo dono, il solo che sarebbe rimasto. La luminosità dell'aurora fu una povera cosa accanto al sorriso che si aprì su quel viso turbato. Qualche giorno dopo, rividi lo stesso sorriso, ma più schivo, velato d'ambiguità: a cena, Polemone, che s'interessava di chiromanzia, volle esaminare la mano del giovinetto, quel palmo dove spaventava anche me una paurosa caduta di stelle. Il fanciullo ritirò la sua mano, la richiuse, con un gesto soave, quasi pudico. Voleva serbare il segreto del suo gioco e quello della sua fine.