4. SAECULUM AUREUM (3)
Sostammo a Gerusalemme. Qui studiai sul posto la pianta d'una città nuova, che mi proposi di costruire sul terreno della città ebraica distrutta da Tito. L'eccellente amministrazione della Giudea, l'incremento del commercio con l'Oriente rendevano necessario lo sviluppo d'una grande metropoli in quell'incrocio di strade. Mi configurai la solita capitale romana: Aelia Capitolina avrebbe avuto i suoi templi, i mercati, le terme pubbliche, il santuario della Venere romana. La mia simpatia di fresca data per i culti teneri e appassionati m'indusse a stabilire sul monte Moriah una grotta dove si sarebbero celebrate le feste Adonie. Tali progetti indignarono la plebe ebraica: quei diseredati preferivano le loro rovine a una grande città nella quale verrebbero offerti tutti i profitti del guadagno, del sapere e del piacere. Gli operai che davano il primo colpo di piccone a quelle mura crollanti furono molestati dalla folla. Passai oltre: Fido Aquila, che più tardi doveva impiegare il suo genio di organizzatore nella costruzione di Antinopoli, si mise all'opera a Gerusalemme. Mi rifiutai di vedere il rapido crescere dell'odio su quei cumuli di macerie. Un mese dopo, giungemmo a Pelusa. Mi affrettai a far restaurare la tomba di Pompeo. Più m'ingolfavo negli affari d'Oriente, più ammiravo il genio politico del mortale vinto dal grande Giulio. A volte, Pompeo, che aveva cercato di metter ordine in quel mondo malsicuro dell'Asia, mi sembrava avesse operato più efficacemente, per Roma, che non lo stesso Cesare. Quei lavori di restauro furono uno degli ultimi tributi che io resi ai morti della storia: presto, avrei avuto ben altri sepolcri a cui pensare.
Il mio arrivo ad Alessandria avvenne con grande discrezione. L'ingresso trionfale era stato rimandato alla venuta dell'imperatrice. Avevano persuaso mia moglie, che viaggiava poco, a trascorrere l'inverno nel mite clima d'Egitto: Lucio, non ancora guarito da una tosse ostinata, doveva tentare lo stesso rimedio. Si adunava una flottiglia di barche in vista di un viaggio sul Nilo: il programma comportava una serie di ispezioni ufficiali, di feste, di banchetti, che minacciavano di esser faticosi quanto quelli d'una stagione al Palatino. Avevo organizzato io stesso tutto questo: il lusso, il prestigio d'una corte non erano privi di valore politico in quel paese antico, avvezzo ai fasti regali.
Ma a maggior ragione mi stava a cuore dedicare alla caccia i pochi giorni che precedevano l'arrivo dei miei ospiti. A Palmira, Meleo Agrippa aveva organizzato per noi le battute nel deserto; ma non ci eravamo inoltrati abbastanza per incontrare i leoni. Due anni prima, l'Africa mi aveva offerto qualche bella caccia alle fiere; ad Antinoo, troppo giovane e troppo inesperto, non avevo dato il permesso di prendervi parte in prima linea; per lui, avevo le viltà alle quali non avrei mai pensato per me stesso. Cedendo, come sempre, gli promisi un ruolo di primo piano in quella caccia al leone. Non era più tempo di trattarlo da bambino, ed ero fiero di quella giovane forza.
Partimmo per l'oasi di Ammone, a pochi giorni di marcia da Alessandria, quella stessa dove Alessandro aveva appreso un giorno dalla bocca dei sacerdoti il segreto della sua origine divina. Gl'indigeni avevano segnalato in quei paraggi la presenza d'una belva molto pericolosa, che varie volte aveva attaccato l'uomo. La sera, attorno ai fuochi del bivacco, paragonavamo allegramente le nostre future imprese a quelle di Ercole. Ma i primi giorni non ci fruttarono che qualche gazzella. Quella volta, stabilimmo di andare ad appostarci entrambi nei pressi d'uno stagno sabbioso ricoperto di canne. Dicevano che al crepuscolo il leone vi si dissetasse. I negri erano incaricati di spingerlo verso di noi con un frastuono di conchiglie, di cimbali, di grida; il resto della scorta fu lasciato a distanza. L'aria era calma e pesante; non era necessario nemmeno preoccuparsi della direzione del vento. Era forse appena passata l'ora decima; difatti Antinoo mi fece osservare sullo stagno che le ninfee rosse erano ancora tutte aperte. Improvvisamente tra un fruscio di canne calpestate, apparve la belva regale, volse verso di noi il suo terribile, magnifico muso, uno degli aspetti più divini che possa assumere il pericolo. Trovandomi un po' indietro, non ebbi il tempo di trattenere il fanciullo, il quale imprudentemente spronò il cavallo, lanciò la picca, poi i suoi due giavellotti, con arte, ma troppo da vicino. La belva, trafitta nel collo, crollò, battendo il suolo con la coda; la sabbia sollevata c'impediva di distinguere altro che una massa ruggente e confusa; infine, il leone si drizzò, raccolse le forze per slanciarsi sul cavallo e sul cavaliere disarmato. Avevo previsto questo pericolo; per fortuna, la cavalcatura di Antinoo non ebbe uno scarto: i nostri animali erano mirabilmente addestrati a quella sorta di giochi. Gettai nel mezzo il mio cavallo, esponendo il fianco destro; avevo l'abitudine a simili esercizi; non mi fu difficile finire la belva, già colpita a morte; rovinò per la seconda volta; il muso si voltolò nella melma; un rivoletto di sangue nero colò sull'acqua. Il grosso gatto color del deserto, del miele e del sole spirò con una maestà più che umana. Antinoo si precipitò giù dal cavallo coperto di schiuma, che tremava ancora; i compagni ci raggiunsero; i negri trainarono al campo l'immensa vittima morta.
Fu improvvisato una specie di festino. Il giovinetto, disteso sul ventre davanti a un vassoio di rame, ci distribuì con le sue stesse mani le porzioni di agnello cotto sotto la cenere. In suo onore, si libò vino di palma. La sua esaltazione cresceva come un canto. Forse, egli esagerava il significato dell'aiuto che gli avevo prestato, dimentico che avrei fatto altrettanto per qualsiasi cacciatore in pericolo; tuttavia, ci sentivamo riportati in quel mondo eroico nel quale gli amanti muoiono l'uno per l'altro. La gratitudine e l'orgoglio si alternavano nella sua gioia come le strofe d'un'ode. I negri fecero miracoli: la sera stessa, la pelle scorticata oscillava sotto le stelle, sospesa a due pali, all'entrata della mia tenda. Malgrado gli aromi di cui l'avevano cosparsa, l'odore ferino ci assillò tutta la notte. L'indomani, dopo una colazione di frutta, lasciammo il campo; al momento della partenza, scorgemmo in un fosso quel che restava della belva regale della vigilia: non era più che una carcassa sanguinolenta sormontata da un nugolo di mosche.
Pochi giorni dopo, rientrammo ad Alessandria. Il poeta Pancrate ci organizzò una festa al Museo; in una sala da musica, erano stati riuniti strumenti preziosi: le vecchie lire doriche, più pesanti e meno complicate delle nostre, stavano accanto alle cetre ricurve della Persia e dell'Egitto, e ai pifferi frigi, acuti come voci di eunuchi, e ai delicati flauti indiani di cui ignoro il nome. Un Etiope batté a lungo su zucche africane. Una donna, la cui bellezza un po' fredda mi avrebbe conquistato se non avessi stabilito di semplificare la mia vita riducendola a ciò che mi era essenziale, sonò un'arpa triangolare dai toni tristi. Mesomede di Creta, il mio musico prediletto, accompagnò sull'organo ad acqua il recitativo del suo poema "La Sfinge", un'opera inquietante, sinuosa, sfuggente come la sabbia al vento. La sala da concerto si apriva su una corte interna: sull'acqua d'una vasca, si aprivano alcune ninfee, sotto le fiamme quasi roventi d'un pomeriggio di fine agosto. Durante un interludio, Pancrate volle farci ammirare da vicino quei fiori d'una varietà rara, vermigli come sangue, che fioriscono solo sul finir dell'estate. Riconoscemmo immediatamente le nostre ninfee scarlatte dell'oasi di Ammone; Pancrate si esaltò all'idea della belva ferita che spirava tra i fiori. Mi propose di mettere in versi quell'episodio di caccia: si sarebbe detto che era stato il sangue del leone a tingere i gigli delle acque. La formula non era nuova: tuttavia, passai l'ordine. Quel Pancrate, che aveva tutto del poeta di corte, seduta stante vergò pochi versi piacevoli in onore di Antinoo: la rosa, il giacinto, il chelidonio vi venivano sacrificati a quelle corolle di porpora, che ormai porteranno il nome del mio prediletto. Fu ordinato a uno schiavo di entrare nella vasca a coglierne un fascio. Il giovinetto, avvezzo agli omaggi, accettò compunto quei fiori densi come la cera, dagli steli molli e serpentini; si chiusero come palpebre quando scese la notte.
In quei giorni giunse l'imperatrice. La lunga traversata l'aveva affaticata: diventava fragile, senza cessare d'essere dura. Le sue amicizie politiche non mi procuravano più grattacapi, come all'epoca in cui aveva scioccamente incoraggiato Svetonio; ormai, si circondava soltanto di inoffensive letterate. La sua confidente del momento, una certa Giulia Balbilla, componeva versi greci abbastanza bene. L'imperatrice e il suo seguito presero stanza al Lyceum, ed uscirono raramente. Lucio, al contrario, era, come sempre, avido di tutti i piaceri, compresi quelli del pensiero e degli occhi.
A ventisei anni, non aveva perduto quasi nulla di quella bellezza prodigiosa che lo faceva acclamare per le strade dalla gioventù romana. Seguitava a essere assurdo, ironico e gaio. I suoi capricci d'altri tempi erano diventati manie; non si spostava senza il capocuoco; persino a bordo, i giardinieri gli componevano prodigiose aiuole di fiori rari; dappertutto, si tirava dietro il suo letto, di cui aveva disegnato il modello personalmente, composto di quattro materasse zeppe di quattro specie rare di aromi; un letto, sul quale giaceva circondato dalle sue giovani amanti come da altrettanti guanciali. I suoi paggi, dipinti, incipriati, acconciati come gli Zeffiri e l'Amore, si conformavano come meglio potevano a manie talvolta crudeli: dovetti intervenire per impedire che il piccolo Borea, del quale ammirava la figura sottile, si lasciasse morir di fame; tutte cose più irritanti che graziose. Visitammo insieme tutto quel che si visita ad Alessandria: il Faro, il Mausoleo di Alessandro, quello di Marc'Antonio, dove Cleopatra eternamente trionfa di Ottavia, senza tralasciare i templi, gli opifici, le fabbriche e neppure il quartiere degli imbalsamatori. Da uno scultore pregevole, comprai un blocco di Veneri, di Diane e di Ermes per Italica, la mia città natale, che mi proponevo di rimodernare, di abbellire. Il sacerdote del tempio di Serapide mi offrì un servizio di vetri opalini, che feci inviare a Serviano; per riguardo a mia sorella Paolina, cercavo di mantenere rapporti abbastanza cordiali con lui. Durante queste ispezioni, piuttosto fastidiose, studiammo insieme vasti progetti edilizi.
Le religioni, ad Alessandria, sono varie quanto i negozi: la qualità del prodotto, però, è più dubbia. I cristiani, soprattutto, vi si distinguono per una incredibile varietà di sette, se non altro inutili. Due ciarlatani, Valentino e Basilide, intrigavano uno contro l'altro, sorvegliati strettamente dalla polizia romana. La feccia del popolo egizio approfittava di ogni manifestazione rituale per gettarsi sugli stranieri, col randello in pugno; provoca più sommosse ad Alessandria la morte del bue Api che non una successione imperiale a Roma. La gente alla moda cambia divinità come altrove cambia medico, ma senza risultati più apprezzabili. Ad Alessandria, il solo idolo è l'oro: in nessun luogo ho visto postulanti più sfrontati. Iscrizioni pompose furono sciorinate un po' dappertutto per esaltare i miei benefici, ma ben presto il mio rifiuto di esonerare la popolazione da una tassa, che era perfettamente in grado di pagare, mi alienò quella turba. I due giovinetti che mi accompagnavano furono insultati più volte; a Lucio si rimproverava il lusso, eccessivo del resto; ad Antinoo le origini oscure, sul conto delle quali correvano dicerie assurde; a entrambi, l'ascendente su di me che a loro si attribuiva. Asserzione ridicola, questa: Lucio, che pur giudicava i pubblici affari con perspicacia sorprendente, non aveva la minima influenza politica; Antinoo non tentava neppure di averne. Il giovane patrizio, che conosceva il mondo, non fece che ridere di quegli insulti. Ma Antinoo ne soffrì.
Gli Ebrei, sobillati dai correligionari di Giudea, facevano del loro meglio per inasprire quella pasta già acida. La sinagoga di Gerusalemme delegò il suo membro più venerato, Akiba, un vegliardo quasi nonagenario, il quale non sapeva il greco, per convincermi a rinunciare ai progetti, già in corso di attuazione, a Gerusalemme. Assistito da interpreti, ebbi con lui parecchi colloqui, che, da parte sua, non furono che pretesti per monologhi. In meno di un'ora, mi sentii in grado d'intendere esattamente il suo pensiero, se non di sottoscriverlo; ma egli non compì lo stesso sforzo per quel che concerneva il mio. Quel fanatico non sospettava neppure che si potesse ragionare su premesse diverse dalle sue; offrivo a quel popolo denigrato un posto tra gli altri nella comunità romana: per bocca di Akiba, Gerusalemme mi faceva sapere la sua volontà di rimanere fino all'ultimo la fortezza d'una razza e d'un dio isolato dal genere umano. Questa risoluzione forsennata si esprimeva con sottigliezze estenuanti; dovetti subire una lunga serie di ragioni, sapientemente dedotte le une dalle altre, della superiorità di Israele. Al termine di otto giorni, quel negoziatore ostinato s'accorse tuttavia d'aver sbagliato strada, e m'annunciò che partiva. Detesto la sconfitta, persino quella altrui; mi commuove soprattutto quando il vinto è un vecchio. L'ignoranza di Akiba, il suo rifiuto di accettare tutto ciò che non fosse i suoi libri santi e il suo popolo, gli conferivano una sorta di candida innocenza. Ma era ben difficile intenerirsi per quel settario. Pareva che la longevità lo avesse spogliato di qualsiasi duttilità umana: quel corpo scarno, quello spirito asciutto erano dotati d'un vigore duro, da cavalletta. Pare che in seguito sia morto da eroe per la causa del suo popolo, o, piuttosto, della sua legge: ognuno si vota ai propri déi.
Gli svaghi di Alessandria cominciavano a esaurirsi. Flegone, che in ogni luogo conosceva le curiosità locali, il lenone o l'ermafrodita celebre, propose di condurci da una maga. Codesta mediatrice dell'invisibile abitava a Canopo; ci recammo colà nottetempo, in barca, sul canale dalle acque dense. Il tragitto fu tetro. Come sempre, regnava tra i due giovani un'ostilità sorda: l'intimità alla quale li costringevo faceva crescere l'avversione che avevano l'uno per l'altro. Lucio celava la sua con una condiscendenza scherzosa; il mio giovane greco si chiudeva in uno dei suoi accessi d'umore nero. Ero piuttosto stanco anch'io; qualche giorno prima, rientrando da un'escursione in pieno sole, avevo avuto una breve sincope di cui unici testimoni erano stati Antinoo e il mio servo negro Euforione. Entrambi s'erano estremamente spaventati; ma avevo ingiunto loro di tacere.
Canopo non è altro che uno scenario; la casa della maga sorgeva nella parte più sordida di questa città di piacere. Approdammo su di una loggia crollante. La strega ci attendeva all'interno, munita degli ambigui strumenti del suo mestiere; pareva davvero brava, non aveva nulla della negromante di teatro; non era neppure vecchia.
Le sue predizioni furono sinistre. Da qualche tempo, gli oracoli non mi annunciavano ovunque che fastidi d'ogni genere, torbidi politici, intrighi di palazzo, malattie gravi. Oggi, ritengo che su quelle voci dell'ombra agissero influenze largamente umane, talvolta per ammonirmi, il più delle volte per incutermi terrore. Le autentiche condizioni d'una parte dell'Oriente vi si esprimevano più chiaramente che non nei rapporti dei nostri proconsoli. Accettavo con tutta calma quelle cosiddette rivelazioni, poiché il mio rispetto per il mondo invisibile non si spinge sino a dar credito a quei vaneggiamenti divini: dieci anni prima, poco dopo essere asceso al trono, avevo fatto chiudere l'oracolo di Dafne, presso Antiochia, che m'aveva predetto il potere, temendo che facesse lo stesso col primo pretendente venuto. Ma è sempre spiacevole sentir parlare di cose tristi.
Dopo averci amareggiati il più che poteva, l'indovina ci propose i suoi servizi: uno di quei sacrifici magici, di cui gli stregoni d'Egitto vantano la specialità; sarebbe bastato per accomodare tutto, amichevolmente, col destino. Le mie incursioni nella magia fenicia già m'avevano fatto comprendere che l'orrore di quelle pratiche proibite risiede non tanto in quel che ci vien mostrato, quanto in quello che ci si nasconde: se non fosse stata nota la mia avversione per i sacrifici umani, probabilmente mi si sarebbe proposto d'immolare uno schiavo. Ci si contentò di chiedermi un animale domestico.
La vittima, per quanto era possibile, doveva avermi appartenuto; non poteva trattarsi d'un cane, bestia che la superstizione egizia ritiene immonda; sarebbe stato opportuno un uccello, ma io non viaggio accompagnato da un'uccelliera. Il mio giovane amico mi propose il suo falcone. Le condizioni si sarebbero trovate adempiute; quel bell'uccello, gliel'avevo regalato io stesso dopo averlo ricevuto dal re d'Osroene. Il fanciullo lo nutriva con le sue mani; era una delle poche sue proprietà alle quali si fosse affezionato. Sulle prime rifiutai; insistette, serio; compresi che attribuiva un significato straordinario a quell'offerta, e accettai per farlo contento. Il mio corriere Menecrate, munito delle istruzioni più minuziose, partì per andare a prendere quell'uccello nei nostri appartamenti del Serapeo. Anche al galoppo, la corsa avrebbe richiesto più di un paio d'ore. Non era il caso di trascorrerle nella sudicia stamberga della maga, e Lucio si lamentava dell'umidità della barca. Flegone trovò un espediente: ci si installò alla meglio presso un mezzano, dopo esserci sbarazzati del personale della casa, e Lucio stabilì di dormire; io profittai di quell'intervallo per dettare alcuni dispacci; Antinoo si stese ai miei piedi. Il calamo di Flegone crepitava sotto la lampada. Toccavamo già l'ultima veglia della notte quando Menecrate riportò l'uccello, la manopola, il cappuccio, e la catena.
Ritornammo dalla maga. Antinoo tolse il cappuccio al suo falcone, ne carezzò lungamente la testolina insonnolita e selvatica, lo consegnò all'incantatrice la quale diede inizio a una serie di riti magici. L'uccello, affascinato, si riaddormentò. Bisognava che la vittima non si dibattesse e che la morte sembrasse volontaria. L'animale, già inerte, cosparso di miele e di essenza di rose, fu deposto sul fondo d'una bacinella colma d'acqua del Nilo; la creatura annegata si assimilava a Osiris portata dalla corrente del fiume; gli anni terrestri dell'uccello si aggiungevano ai miei; la piccola anima solare si univa al Genio dell'uomo, al cui favore si sacrificava; ormai, quel Genio invisibile avrebbe potuto apparirmi e servirmi sotto quella forma. Le lunghe manipolazioni che seguirono non furono più interessanti d'una preparazione culinaria. Lucio sbadigliava. Le cerimonie imitarono fino all'ultimo i funerali umani: fumigazioni e salmodie si prolungarono fino all'alba. L'uccello fu racchiuso in una bara colma di aromi, che la maga sotterrò in nostra presenza in riva al canale, in un cimitero abbandonato. Poi, si accoccolò sotto un albero per contare a una a una le monete d'oro del suo compenso, che Flegone le aveva versato.
Risalimmo in barca. Soffiava un vento singolarmente gelido. Lucio, seduto accanto a me, traeva a sé con la punta delle dita sottili le coltri di cotone ricamato; solo per cortesia seguitavamo a scambiarci saltuariamente qualche frase sulle faccende e gli scandali di Roma. Antinoo, disteso in fondo alla barca, mi aveva posato la testa sulle ginocchia; fingeva di dormire per isolarsi da quella conversazione da cui si sentiva escluso. La mia mano gli scivolava sulla nuca, tra i capelli. Così, sempre, nei momenti più vuoti e opachi, avevo la sensazione di restare a contatto con i grandi soggetti della natura, la densità delle foreste, il dorso muscoloso delle pantere, la pulsazione regolare delle sorgenti. Ma non v'è carezza che giunga fino all'anima. Quando giungemmo al Serapeo, il sole brillava; i mercanti di cocomeri gridavano nelle strade la loro merce. Dormii fino all'ora della seduta del Senato locale, alla quale presenziai. In seguito, seppi che Antinoo profittò di quell'assenza per persuadere Cabria ad accompagnarlo a Canopo. Tornò dalla maga.