VI - Tac tac tac... (Seconda parte)
VI: Tac tac tac... (Seconda parte)
Fuori, nell'atrio, era ancora giorno. La freschezza dell'aria mi rinfrancò.
Parecchia gente passeggiava lì: alcuni meditabondi, solitarii; altri, a due, a tre, chiacchierando e fumando.
Io osservavo tutti. Nuovo del luogo, ancora impacciato, avrei voluto parere anch'io almeno un poco come di casa: e studiavo quelli che mi parevano più disinvolti; se non che, quando meno me l'aspettavo, qualcuno di questi, ecco, impallidiva, fissava gli occhi, ammutoliva, poi buttava via la sigaretta, e, tra le risa dei compagni, scappava via; rientrava nella sala da giuoco. Perché ridevano i compagni? Sorridevo anch'io, istintivamente, guardando come uno scemo.
- A toi, mon chéri! - sentii dirmi, piano, da una voce femminile, un po' rauca. Mi voltai; e vidi una di quelle donne che già sedevano con me attorno al tavoliere, porgermi, sorridendo, una rosa. Un'altra ne teneva per sé: le aveva comperate or ora al banco di fiori, là, nel vestibolo.
Avevo dunque l'aria così goffa e da allocco?
M'assalì una stizza violenta; rifiutai, senza ringraziare, e feci per scostarmi da lei; ma ella mi prese, ridendo, per un braccio, e - affettando con me, innanzi a gli altri, un tratto confidenziale - mi parlò piano, affrettatamente. Mi parve di comprendere che mi proponesse di giocare con lei, avendo assistito poc'anzi ai miei colpi fortunati: ella, secondo le mie indicazioni, avrebbe puntato per me e per lei.
Mi scrollai tutto: sdegnosamente, e la piantai lì in asso.
Poco dopo, rientrando nella sala da giuoco, la vidi che conversava con un signore bassotto, bruno, barbuto, con gli occhi un po' loschi, spagnuolo all'aspetto. Gli aveva dato la rosa poc'anzi offerta a me. A una certa mossa d'entrambi, m'accorsi che parlavano di me; e mi misi in guardia.
Entrai in un'altra sala; m'accostai al primo tavoliere, ma senza intenzione di giocare; ed ecco, ivi a poco, quel signore, senza più la donna, accostarsi anche lui al tavoliere, ma facendo le viste di non accorgersi di me.
Mi posi allora a guardarlo risolutamente, per fargli intendere che m'ero bene accorto di tutto, e che con me, dunque, l'avrebbe sbagliata.
Ma non aveva affatto l'apparenza d'un mariuolo, costui. Lo vidi giocare, e forte: perdette tre colpi consecutivi: batteva ripetutamente le pàlpebre, forse per lo sforzo che gli costava la volontà di nascondere il turbamento. Al terzo colpo fallito, mi guardò e sorrise.
Lo lasciai lì, e ritornai nell'altra sala, al tavoliere dove dianzi avevo vinto.
I croupiers s'erano dati il cambio. La donna era lì al posto di prima. Mi tenni addietro, per non farmi scorgere, e vidi ch'ella giocava modestamente, e non tutte le partite. Mi feci innanzi; ella mi scorse: stava per giocare e si trattenne, aspettando evidentemente che giocassi io, per puntare dov'io puntavo. Ma aspettò invano. Quando il croupier disse: - Le jeu est fait! Rien ne va plus! - la guardai, ed ella alzò un dito per minacciarmi scherzosamente. Per parecchi giri non giocai; poi, eccitatomi di nuovo alla vista degli altri giocatori, e sentendo che si raccendeva in me l'estro di prima, non badai più a lei e mi rimisi a giocare.
Per qual misterioso suggerimento seguivo così infallibilmente la variabilità imprevedibile nei numeri e nei colori? Era solo prodigiosa divinazione nell'incoscienza, la mia? E come si spiegano allora certe ostinazioni pazze, addirittura pazze, il cui ricordo mi desta i brividi ancora, considerando ch'io cimentavo tutto, tutto, la vita fors'anche, in quei colpi ch'eran vere e proprie sfide alla sorte? No, no: io ebbi proprio il sentimento di una forza quasi diabolica in me, in quei momenti, per cui domavo, affascinavo la fortuna, legavo al mio il suo capriccio. E non era soltanto in me questa convinzione; s'era anche propagata negli altri, rapidamente; e ormai quasi tutti seguivano il mio giuoco rischiosissimo. Non so per quante volte passò il rosso, su cui mi ostinavo a puntare: puntavo su lo zero, e sortiva lo zero. Finanche quel giovinetto, che tirava i luigi dalla tasca dei calzoni, s'era scosso e infervorato; quel grosso signore bruno arrangolava più che mai. L'agitazione cresceva di momento in momento attorno al tavoliere; eran fremiti d'impazienza, scatti di brevi gesti nervosi, un furor contenuto a stento, angoscioso e terribile. Gli stessi croupiers avevano perduto la loro rigida impassibilità.
A un tratto, di fronte a una puntata formidabile, ebbi come una vertigine. Sentii gravarmi addosso una responsabilità tremenda. Ero poco men che digiuno dalla mattina, e vibravo tutto, tremavo dalla lunga violenta emozione. Non potei più resistervi e, dopo quel colpo, mi ritrassi, vacillante. Sentii afferrarmi per un braccio. Concitatissimo, con gli occhi che gli schizzavano fiamme, quello spagnoletto barbuto e atticciato voleva a ogni costo trattenermi - Ecco: erano le undici e un quarto; i croupiers invitavano ai tre ultimi colpi: avremmo fatto saltare la banca!
Mi parlava in un italiano bastardo, comicissimo; poiché io, che non connettevo già più, mi ostinavo a rispondergli nella mia lingua:
- No, no, basta! non ne posso più. Mi lasci andare, caro signore.
Mi lasciò andare; ma mi venne appresso. Salì con me nel treno di ritorno a Nizza, e volle assolutamente che cenassi con lui e prendessi poi alloggio nel suo stesso albergo.
Non mi dispiacque molto dapprima l'ammirazione quasi timorosa che quell'uomo pareva felicissimo di tributarmi, come a un taumaturgo. La vanità umana non ricusa talvolta di farsi piedistallo anche di certa stima che offende e l'incenso acre e pestifero di certi indegni e meschini turiboli. Ero come un generale che avesse vinto un'asprissima e disperata battaglia, ma per caso, senza saper come. Già cominciavo a sentirlo, a rientrare in me, e man mano cresceva il fastidio che mi recava la compagnia di quell'uomo.
Tuttavia, per quanto facessi, appena sceso a Nizza, non mi riuscì di liberarmene: dovetti andar con lui a cena. E allora egli mi confessò che me l'aveva mandata lui, là, nell'atrio del casino, quella donnetta allegra, alla quale da tre giorni egli appiccicava le ali per farla volare, almeno terra terra; ali di biglietti di banca; dava cioè qualche centinajo di lire per farle tentar la sorte. La donnetta aveva dovuto vincer bene, quella sera, seguendo il mio giuoco, giacché, all'uscita, non s'era più fatta vedere.
- Che podo far? La póvara avrà trovato de meglio. Sono viechio, ió. E agradecio Dio, ántes, che me la son levada de sobre!
Mi disse che era a Nizza da una settimana e che ogni mattina s'era recato a Montecarlo, dove aveva avuto sempre, fino a quella sera, una disdetta incredibile. Voleva sapere com'io facessi a vincere. Dovevo certo aver capito il giuoco o possedere qualche regola infallibile.
Mi misi a ridere e gli risposi che fino alla mattina di quello stesso giorno non avevo visto neppure dipinta una roulette , e che non solo non sapevo affatto come ci si giocasse, ma non sospettavo nemmen lontanamente che avrei giocato e vinto a quel modo. Ne ero stordito e abbagliato più di lui.
Non si convinse. Tanto vero che, girando abilmente il discorso (credeva senza dubbio d'aver da fare con una birba matricolata) e parlando con meravigliosa disinvoltura in quella sua lingua mezzo spagnuola e mezzo Dio sa che cosa, venne a farmi la stessa proposta a cui aveva tentato di tirarmi, nella mattinata, col gancio di quella donnetta allegra.
- Ma no, scusi! - esclamai io, cercando tuttavia d'attenuare con un sorriso il risentimento. - Può ella sul serio ostinarsi a credere che per quel giuoco là ci possano esser regole o si possa aver qualche segreto? Ci vuol fortuna! ne ho avuta oggi; potrò non averne domani, o potrò anche averla di nuovo; spero di sì!
- Ma porqué lei, - mi domandò, - non ha voluto occi aproveciarse de la sua forturna?
- Io, aprove...
- Si, come puedo decir? avantaciarse, voilà!
- Ma secondo i miei mezzi, caro signore!
- Bien! - disse lui. - Podo ió por lei. Lei, la fortuna, ió metaró el dinero.
- E allora forse perderemo! - conclusi io, sorridendo. - No, no... Guardi! Se lei mi crede davvero così fortunato, - sarò tale al giuoco; in tutto il resto, no di certo - facciamo così: senza patti fra noi e senza alcuna responsabilità da parte mia, che non voglio averne, lei punti il suo molto dov'io il mio poco, come ha fatto oggi; e, se andrà bene...
Non mi lasciò finire: scoppiò in una risata strana, che voleva parer maliziosa, e disse:
- Eh no, segnore mio! no! Occi, sì, l'ho fatto: no lo fado domani seguramente! Si lei punta forte con migo, bien! si no, no lo fado seguramente! Gracie tante!
Lo guardai, sforzandomi di comprendere che cosa volesse dire: c'era senza dubbio in quel suo riso e in quelle sue parole un sospetto ingiurioso per me. Mi turbai, e gli domandai una spiegazione.
Smise di ridere; ma gli rimase sul volto come l'impronta svanente di quel riso.
- Digo che no, che no lo fado, - ripeté. - No digo altro!
Battei forte una mano su la tavola e, con voce alterata, incalzai:
- Nient'affatto! Bisogna invece che dica, spieghi che cosa ha inteso di significare con le sue parole e col suo riso imbecille! Io non comprendo!
Lo vidi, man mano che parlavo, impallidire e quasi rimpiccolirsi; evidentemente stava per chiedermi scusa. Mi alzai, sdegnato, dando una spallata.
- Bah! Io disprezzo lei e il suo sospetto, che non arrivo neanche a immaginare!
Pagai il mio conto e uscii.
Ho conosciuto un uomo venerando e degno anche, per le singolarissime doti dell'intelligenza, d'essere grandemente ammirato: non lo era, né poco né molto, per un pajo di calzoncini, io credo, chiari, a quadretti, troppo aderenti alle gambe misere, ch'egli si ostinava a portare. Gli abiti che indossiamo, il loro taglio, il loro colore, possono far pensare di noi le più strane cose.
Ma io sentivo ora un dispetto tanto maggiore, in quanto mi pareva di non esser vestito male. Non ero in marsina, è vero, ma avevo un abito nero, da lutto, decentissimo. E poi, se - vestito di questi stessi panni - quel tedescaccio in prima aveva potuto prendermi per un babbeo, tanto che s'era arraffato come niente il mio denaro; come mai adesso costui mi prendeva per un mariuolo?
« Sarà forse per questo barbone, » pensavo, andando, « o per questi capelli troppo corti... »
Cercavo intanto un albergo qualunque, per chiudermi a vedere quanto avevo vinto. Mi pareva d'esser pieno di denari: ne avevo un po' da per tutto, nelle tasche della giacca e dei calzoni e in quelle del panciotto; oro, argento, biglietti di banca; dovevano esser molti, molti! Sentii sonare le due. Le vie erano deserte. Passò una vettura vuota; vi montai.
Con niente avevo fatto circa undicimila lire! Non ne vedevo da un pezzo, e mi parvero in prima una gran somma. Ma poi, pensando alla mia vita d'un tempo, provai un grande avvilimento per me stesso. Eh che! Due anni di biblioteca, col contorno di tutte le altre sciagure, m'avevan dunque immiserito a tal segno il cuore?
Presi a mordermi col mio nuovo veleno, guardando il denaro lì sul letto:
« Va', uomo virtuoso, mansueto bibliotecario, va', ritorna a casa a placare con questo tesoro la vedova Pescatore. Ella crederà che tu l'abbia rubato e acquisterà subito per te una grandissima stima. O va' piuttosto in America, come avevi prima deliberato, se questo non ti par premio degno alla tua grossa fatica. Ora potresti, così munito. Undicimila lire! Che ricchezza! Raccolsi il denaro; lo buttai nel cassetto del comodino, e mi coricai. Ma non potei prender sonno. Che dovevo fare, insomma? Ritornare a Montecarlo, a restituir quella vincita straordinaria? o contentarmi di essa e godermela modestamente? ma come? avevo forse più animo e modo di godere, con quella famiglia che mi ero formata? Avrei vestito un po' meno poveramente mia moglie, che non solo non si curava più di piacermi, ma pareva facesse anzi di tutto per riuscirmi incresciosa, rimanendo spettinata tutto il giorno, senza busto, in ciabatte, e con le vesti che le cascavano da tutte le parti. Riteneva forse che, per un marito come me, non valesse più la pena di farsi bella? Del resto, dopo il grave rischio corso nel parto, non s'era più ben rimessa in salute. Quanto all'animo, di giorno in giorno s'era fatta più aspra, non solo contro me, ma contro tutti. E questo rancore e la mancanza d'un affetto vivo e vero s'eran messi come a nutrire in lei un'accidiosa pigrizia. Non s'era neppure affezionata alla bambina, la cui nascita insieme con quell'altra, morta di pochi giorni, era stata per lei una sconfitta di fronte al bel figlio maschio d'Oliva, nato circa un mese dopo, florido e senza stento, dopo una gravidanza felice. Tutti quei disgusti poi e quegli attriti che sorgono, quando il bisogno, come un gattaccio ispido e nero s'accovaccia su la cenere d'un focolare spento, avevano reso ormai odiosa a entrambi la convivenza. Con undicimila lire avrei potuto rimetter la pace in casa e far rinascere l'amore già iniquamente ucciso in sul nascere dalla vedova Pescatore? Follie! E dunque? Partire per l'America? Ma perché sarei andato a cercar tanto lontano la Fortuna, quand'essa pareva proprio che avesse voluto fermarmi qua, a Nizza, senza ch'io ci pensassi, davanti a quella bottega d'attrezzi di giuoco? Ora bisognava ch'io mi mostrassi degno di lei, dei suoi favori, se veramente, come sembrava, essa voleva accordarmeli. Via, via! O tutto o niente. In fin dè conti, sarei ritornato come ero prima. Che cosa erano mai undicimila lire?
Così il giorno dopo tornai a Montecarlo. Ci tornai per dodici giorni di fila. Non ebbi più né modo né tempo di stupirmi allora del favore, più favoloso che straordinario, della fortuna: ero fuori di me, matto addirittura; non ne provo stupore neanche adesso, sapendo purtroppo che tiro essa m'apparecchiava, favorendomi in quella maniera e in quella misura. In nove giorni arrivai a metter sù una somma veramente enorme giocando alla disperata: dopo il nono giorno cominciai a perdere, e fu un precipizio. L'estro prodigioso, come se non avesse più trovato alimento nella mia già esausta energia nervosa, venne a mancarmi. Non seppi, o meglio, non potei arrestarmi a tempo. Mi arrestai, mi riscossi, non per mia virtù, ma per la violenza d'uno spettacolo orrendo, non infrequente, pare, in quel luogo.
Entravo nelle sale da giuoco, la mattina del dodicesimo giorno, quando quel signore di Lugano, innamorato del numero 12, mi raggiunse, sconvolto e ansante, per annunziarmi, più col cenno che con le parole, che uno s'era poc'anzi ucciso là, nel giardino. Pensai subito che fosse quel mio spagnuolo, e ne provai rimorso. Ero sicuro ch'egli m'aveva ajutato a vincere. Nel primo giorno, dopo quella nostra lite, non aveva voluto puntare dov'io puntavo, e aveva perduto sempre; nei giorni seguenti, vedendomi vincere con tanta persistenza, aveva tentato di fare il mio giuoco; ma non avevo voluto più io, allora: come guidato per mano dalla stessa Fortuna, presente e invisibile, mi ero messo a girare da un tavoliere all'altro. Da due giorni non lo avevo più veduto, proprio dacché m'ero messo a perdere, e forse perché lui non mi aveva più dato la caccia.
Ero certissimo, accorrendo al luogo indicatomi, di trovarlo lì, steso per terra, morto. Ma vi trovai invece quel giovinetto pallido che affettava un'aria di sonnolenta indifferenza, tirando fuori i luigi dalla tasca dei calzoni per puntarli senza nemmeno guardare.
Pareva più piccolo, lì in mezzo al viale: stava composto, coi piedi uniti, come se si fosse messo a giacere prima, per non farsi male, cadendo; un braccio era aderente al corpo; l'altro, un po' sospeso, con la mano raggrinchiata e un dito, l'indice, ancora nell'atto di tirare. Era presso a questa mano la rivoltella; più là, il cappello. Mi parve dapprima che la palla gli fosse uscita dall'occhio sinistro, donde tanto sangue, ora rappreso, gli era colato su la faccia. Ma no: quel sangue era schizzato di lì, come un po' dalle narici e dagli orecchi; altro, in gran copia, n'era poi sgorgato dal forellino alla tempia destra, su la rena gialla del viale, tutto raggrumato. Una dozzina di vespe vi ronzavano attorno; qualcuna andava a posarsi anche lì, vorace, su l'occhio. Fra tanti che guardavano, nessuno aveva pensato a cacciarle via. Trassi dalla tasca un fazzoletto e lo stesi su quel misero volto orribilmente sfigurato. Nessuno me ne seppe grado: avevo tolto il meglio dello spettacolo.
Scappai via; ritornai a Nizza per partirne quel giorno stesso.
Avevo con me circa ottantaduemila lire.
Tutto potevo immaginare, tranne che, nella sera di quello stesso giorno, dovesse accadere anche a me qualcosa di simile.