PARTE SECONDA - 9. Per il pane, per l'Italia, per Dio (parte 1)
Otto mesi dopo, nel settembre del 1855, Franco abitava una misera soffitta a Torino, in via Barbaroux. Aveva ottenuto nel febbraio un posto di traduttore all' Opinione , con ottantacinque lire il mese. Più tardi fece anche relazioni del Parlamento e lo stipendio gli fu portato a cento lire il mese. Il Dina, direttore del giornale, gli voleva bene e gli procacciava qualche lavoro straordinario, fuori d'ufficio, tanto da fargli prendere altre venticinque o trenta lire il mese. Franco viveva con sessanta lire il mese. Il resto andava a Lugano e da Lugano, per le mani fedeli d'Ismaele, a Oria. Per vivere un mese con sessanta lire ci voleva una forza d'animo che lo stesso Franco non avrebbe creduto, prima, possedere. Le ore d'ufficio, il tradurre, assai laborioso per un uomo pieno di scrupoli e di timidità letterarie, gli pesavano più delle privazioni; e sessanta lire gli parevano ancora troppe, si rimproverava di non saper vivere con meno. Si era legato con altri sei emigranti, parte lombardi parte veneti. Mangiavano insieme, passeggiavano insieme, disputavano insieme. Meno Franco e un Udinese, gli altri erano fra i trenta e i quarant'anni. Tutti poverissimi, non avevano mai voluto pigliar un soldo dal governo piemontese a titolo di sussidio. L'Udinese che apparteneva a una famiglia ricca e austriacante e da casa non riceveva niente, conosceva bene il flauto, dava quattro o cinque lezioni la settimana e suonava nelle orchestrine dei teatri di commedia. Un notaio padovano copiava nello studio di Boggio. Un avvocato di Caprino Bergamasco, soldato di Roma del 1849, teneva i registri di un grande negozio di ombrelli e di mazze in via Nuova, per cui gli amici lo chiamavano il «Fante di bastoni». Un quarto, milanese, aveva fatto la campagna del '48 nelle guide di Carlo Alberto; per questo, e per una certa sua boria meneghína, il Padovano gli aveva posto nome «Caval di spade». La professione del Caval di spade era quella di litigare continuamente col Fante di bastoni per antagonismo di provincia, d'insegnare la scherma in due convitti, e, l'inverno, di suonare il piano dietro una cortina misteriosa, nelle sale dove si ballavano polke a due soldi l'una. Gli altri vivevano con miserabili assegni delle loro famiglie. Erano tutti scapoli, meno Franco, e tutti allegri. Si chiamavano e si facevano chiamare «i sette sapienti». Dominavano Torino, nella loro sapienza, dall'alto di sette soffitte sparse per tutta la città da Borgo San Dalmazzo a Piazza Milano. La più misera era quella di Franco che la pagava sette lire il mese. Meno il Padovano, a cui una sorella del portinaio di casa portava l'acqua nella soffitta, nessuno della compagnia si faceva del tutto servire, e il Padovano avrebbe espiato bene la sua devota Margà con le tormentose celie degli amici, se non fosse stato il pacifico filosofo ch'era. Tutti si lustravano le scarpe da sé. Il più destro di mano era Franco e a lui toccava di attaccare i bottoni agli amici quando non volevano umiliarsi ricorrendo al Padovano e alla sua Margà, la quale, del resto, certe volte, «o mi povra dona!», ne vedeva capitare una processione. L'Udinese aveva bene un'amante, una piccola «tota» del primo baraccone di piazza Castello sull'angolo di Po; ma era geloso e non permetteva che attaccasse bottoni a nessuno. Gli amici se ne vendicavano chiamandola «tota bürattina» perché vendeva fantocci e bambole. Egli era del resto, grazie a «tota burattina», il solo della compagnia che avesse gli abiti sempre in ordine e la cravatta annodata con una grazia speciale. A mangiare andavano in una trattoria di Vanchiglia battezzata «la trattoria del mal de stomi» dove per trenta lire il mese avevano colazione e pranzo. Il loro lusso era il bicierìn , un miscuglio di caffè, latte e cioccolatte che si aveva per quindici centesimi. Lo prendevano la mattina, i veneti al caffè Alfieri, gli altri al caffè Florio. Meno Franco, però. Franco rinunciava al bicierìn e al relativo torcètt , pasta da un soldo, per ammassare tanto che gli bastasse a far una corsa a Lugano e portar un regaluccio a Maria. Andavano a passeggiare, l'inverno, sotto i portici di Po, quelli della Sapienza, dalla parte dell'Università, non quelli della Follia, dalla parte di S. Francesco; e poi sedevano al caffè dove uno della compagnia, per turno, prendeva il caffè mentre gli altri leggevano i giornali e saccheggiavano lo zucchero. Una volta alla settimana, invece che andare al caffè, si cacciavano, per accontentare il Fante di bastoni, in un buco di via Bertola dove si beveva il più puro e squisito Giambava.
A teatro ci andava l'Udinese e in grazia sua, di tanto in tanto, qualche altro, gratis ; sempre alla commedia, per lo più al Rossini o al Gerbino. Per Franco il passar davanti ai manifesti del Regio e degli altri teatri di musica, era un supplizio molto maggiore che lustrarsi le scarpe o far colazione con cinque centimetri quadrati di frittata buonissima per osservare le macchie del sole. Fortunatamente aveva conosciuto certo C., veneto, segretario al Ministero dei Lavori Pubblici, il quale lo presentò alla famiglia di un distintissimo maggiore medico dell'esercito, pure veneto, che possedeva un piano, riceveva, la sera, alcuni amici e li ristorava con un caffè eccellente, quasi unico, in quei tempi, a Torino. Quando i sette sapienti, per una ragione o per l'altra, non passavano la sera insieme, Franco andava a casa C., in piazza Milano, a far musica, a conversare d'arte con le signorine, a disputar di politica con la signora, una fiera patriota veneziana di grande ingegno e d'animo antico, che aveva tutte eroicamente affrontate le durezze e le amarezze dell'esilio, incuorando il marito i cui primi passi erano stati assai difficili e amari; perché a lui, già reputatissimo professore dell'Università di Padova, le care, benedette teste oneste e dure della rigida amministrazione piemontese avevano imposto di subire un esame se voleva diventare capitano medico, niente meno. La corrispondenza fra Torino e Oria non rispecchiava lo stato vero degli animi di Franco e di Luisa, correva liscia, affettuosa, certo con molti ritegni e cautele da una parte e dall'altra. Luisa si era figurata che Franco avrebbe risposto alla sua letterina e sarebbe entrato nel grande argomento. Non vedendo che parlasse mai né della letterina né di ciò ch'era stato fra loro quell'ultima notte, arrischiò un'allusione. Non fu raccolta. In fatto Franco s'era messo più volte a scrivere col proposito di affrontare le idee di sua moglie. Prima di scrivere si sentiva forte, si teneva sicuro che pensandoci avrebbe trovato facilmente argomenti vittoriosi; gliene venivano anche alla penna di quelli che gli sembravan tali ma poi, quand'erano scritti, ne scopriva subito la insufficienza, ne stupiva, se ne doleva, ritentava la prova e sempre con eguale successo. Eppure sua moglie aveva ben torto; di questo non dubitava un momento; dunque vi doveva essere modo di dimostrarglielo. Bisognava studiare. Cosa? Come? Ne domandò a un prete dal quale si era confessato poco dopo il suo arrivo a Torino. Questo prete, un piccolo vecchietto contraffatto, focoso e dottissimo, lo invitò a casa sua, in piazza Paesana, si pose ad aiutarlo con entusiasmo, gli suggerì una quantità di libri, parte da legger lui, parte da mandare a sua moglie. Forte orientalista e gran tomista, provando una vivissima simpatia per Franco, attribuendogli un ingegno e una cultura forse superiori al vero, per poco non gli suggerì di studiar l'ebraico e volle poi assolutamente che leggesse S. Tommaso. Arrivò sino a dargli un abbozzo di lettera a sua moglie con gli argomenti che doveva sviluppare. Franco s'innamorò subito del vecchietto entusiasta che aveva poi, anche nell'aspetto, la purezza d'un Santo. Si mise a studiar S. Tommaso con grande ardore e vi durò poco. Gli parve di mettersi in un mare senza fine e senza principio, di non potervisi dirigere. Il disegno scolastico della trattazione, quella uniformità nella forma dell'argomentare pro e contro, quel gelido latino denso di profondo pensiero e incolore alla superficie, gli schiacciarono in tre giorni tutta la buona volontà. Gli argomenti dell'abbozzo di lettera non li capì che in piccola parte. Se li fece spiegare, li intese meglio, si dispose a scendere in campo con essi e si trovò impacciato come David nell'armatura di Saul. Gli pesavano, non li poteva maneggiare, senti che non erano roba sua e che non lo sarebbero diventati mai. No, egli non poteva presentarsi a sua moglie col tricorno e con la tonaca del professor G., impugnando una lancia di teologia e coprendosi con uno scudo di metafisica. Riconobbe che non era nato per filosofare in nessun modo; gli mancava persino l'organo del rigido ragionamento logico; o almeno il suo bollente cuore, ricco di tenerezze e di sdegni, voleva troppo parlare anche lui, a favore o contro, secondo la propria passione. Suonando una sera a casa C., tutto fremente e con gli occhi sfavillanti, l'andante della suonata op. 28 di Beethoven, gli capitò di dire a mezza voce: «Ah questo, questo, questo!». Nessun Padre, pensava, nessun Dottore potrebbe comunicar il sentimento religioso come Beethoven. Metteva, suonando, tutta l'anima sua nella musica e avrebbe pur voluto esser con Luisa, suonarle il divino andante, unirsi a lei pregando in un inenarrabile spasimo dello spirito, così. Né gli venne in mente che Luisa, la quale del resto sentiva la musica molto meno di lui, avrebbe piuttosto dato all'andante il senso del doloroso conflitto fra il proprio affetto e le proprie idee. Andò da G., gli riportò S. Tommaso, gli confessò tutta la sua impotenza con parole così umili e commosse che il vecchio prete, dopo qualche momento di silenzio accigliato e inquieto, gli perdonò. «Là là là», diss'egli riprendendosi con rassegnazione il suo primo volume della Somma , «ca s'raccomanda al Sgnour e sperouma ca fassa Chiel.» Così finirono gli studi teologici di Franco. Tanto meditare sulle idee di sua moglie e sulle proprie e soprattutto il consiglio del professore «ca s'raccomanda al Sgnour» non furono senza frutto. Cominciò a intendere che in qualche cosa Luisa non aveva torto. Rimproverato da lei di non condurre la vita che secondo la sua fede avrebbe dovuto, egli s'era offeso di ciò più che di tutto il resto. Adesso un generoso slancio lo portò all'altro estremo, a giudicarsi sinistramente, a esagerare le proprie colpe d'accidia, d'ira e persin di gola, a tenersi responsabile delle aberrazioni intellettuali di Luisa. E provò una smania di dirlo, di umiliarsi davanti a lei, di separar la causa propria dalla causa di Dio. Quando ebbe il posto all' Opinione e regolò le proprie spese per poter fare un assegno alla famiglia, sua moglie gli scrisse che l'assegno era assolutamente troppo forte in proporzione dei suoi guadagni. Il saper ch'egli viveva a Torino con sessanta lire il mese le rendeva amaro il cibo a lei. Allora egli le rispose, questo non proprio sinceramente, che, anzi tutto, non pativa mai la fame; che, del resto, sarebbe stato felice anche di digiunare perché provava un'avidità intensa di mutar vita, di espiar gli ozi passati, compreso il soverchio tempo dato ai fiori e alla musica, di espiar tutte le passate mollezze, tutte le debolezze, comprese quelle per la cucina raffinata e per i vini scelti. Soggiunse che della vita passata aveva domandato perdono a Dio e che credeva doverlo domandare anche a lei. Insomma il Padovano, cui si era legato di grande amicizia, udito recitarsi da lui, come a riprova di precedenti confessioni, questo brano di lettera, gli disse: «Ciò, la par l'orazion de Manasse re di Giuda». Luisa scriveva molto affettuosamente, sì, ma con minore effusione. Il silenzio di Franco circa l'argomento del colloquio doloroso le spiaceva; e cominciar lei, di fronte a un silenzio così ostinato, non le parve utile. I propositi di lavoro e di sacrificio la commossero profondamente; quando lesse quella confessione da gran delinquente con la domanda di perdono a Dio e a lei, ne sorrise e baciò la lettera sentendo ch'era un atto di sottomissione e un'acquiescenza umile alle censure che tanto lo avevano a prima giunta irritato. Povero Franco, ecco gli slanci della sua nobile, generosa natura! Ma durerebbero? Rispose subito e se dalla risposta traspariva la sua commozione, ne traspariva pure il sorriso, del quale Franco non fu contento. Nella chiusa v'eran questi periodi: «Leggendo tutte le accuse che ti fai ho pensato con rimorso a quelle che t'ho fatto io, una triste notte, e ho sentito che ci pensavi anche tu quando scrivevi, benché né questa lettera né alcuna delle altre tue ne abbia parola. Di quelle accuse ho rimorso, Franco mio; ma delle altre cose a cui tanto penso nella mia solitudine, oh come vorrei che parlassimo ancora, da buoni amici!».
Il desiderio di Luisa restò vano. Su questo punto Franco non rispose affatto, anzi la sua prima lettera fu alquanto freddina. Perciò Luisa non ritornò più sull'argomento. Solo una volta, parlando di Maria, scrisse: «Se tu vedessi come recita il Padre nostro , mattina e sera, e come si comporta a Messa, la domenica, saresti contento».
Egli rispose: «Di quanto mi scrivi circa le pratiche religiose di Maria, sono contento e ti ringrazio». Sì Luisa che Franco scrivevano quasi ogni giorno e spedivano le lettere una volta alla settimana. Ismaele andava alla posta di Lugano ogni martedì, portava la lettera della moglie e riportava quella del marito. In giugno Maria ebbe il morbillo, in agosto lo zio Piero perdette quasi improvvisamente l'occhio sinistro e ne fu, per qualche tempo, molto turbato. Durante questi due periodi, le lettere di Oria spesseggiavano. In settembre la corrispondenza ritornò settimanale. Tolgo dal fascio le ultime lettere scambiate fra Luisa e Franco alla vigilia degli avvenimenti onde furono colti alla fine di settembre.
Luisa a Franco
Oria, 12 settembre 1855
Il riverito signor Ismaele ci ha fatto molto aspettare l'ultima tua, perché da Lugano invece di venire a Oria è andato a Caprino con alcuni amici suoi e delle Potenze Occidentali a festeggiare la presa di Sebastopoli nella cantina dello Scarselon e là ha bevuto «un cicinìn» e quindi è ritornato a Lugano dove un altro «cicinìn» lo ha fatto dormire come un salame fino a mercoledì mattina. Ha pure dimenticato di spedirti il vasetto di lucido e così lo dovrai aspettare una settimana o pagare, a Torino, tanto più caro, se la provvista è finita. Me ne rincresce assai.
Se Dina ti ha offerto di scrivere qualche appendice teatrale, tanto meglio. Così potrai udire gratis un po' di musica; benché sono anch'io dell'opinione del vostro Caval di spade che bisogna ricondurre la musica italiana al tamburo. Quanto all'affare Valle Intelvi, lodo la tua prudenza. Essa è stata però così grande che non sono certissima d'averti inteso bene. Ho inteso che per preparare, in caso di guerra, un movimento alle spalle dei nostri signori, occorrono alcune persone sicure cui far capo con le opportune comunicazioni da Torino, sia direttamente sia per mezzo del Comitato di Como. A ogni modo andrò io stessa domani a Pellio Superiore dove c'è un medico condotto grande amico di V. e sicurissimo. Parlerò con lui, intanto. Per quella fodera sdrucita non ti crucciare. Basta che porti l'abito a Lugano quando verrai. Ci penserò io e posso anche promettere di foderarti le maniche di seta, grazie ad una sottana che mia madre mi diceva essere venuta in casa Ribera da casa Affaitati nel secolo scorso, una sottana gialla a fiorami rossi che né io né Ombretta porteremo certo mai. Ombretta sta benissimo. Da tre giorni, declinando il caldo, ha ripreso i suoi colori. Stamattina le ho dato la prima lezione di lettura col metodo Lambruschini.
Tutto si trasforma e progredisce nella nostra casa! Questa sorte è toccata ieri all'antico cartellone della tombola, con dolore muto ma palese della Cia. Ne ho fatto strage per tagliarne fuori, oltre a cinque quadratini per le vocali, parecchi altri quadrati più grandi, dove ho disegnato, immagina come! le figure di so-le, lu-na, ca-ne, bu-e, ecc. Maria ha imparate le vocali con prontezza sufficiente. A mezza lezione è entrato lo zio Piero e ha esclamato: «Oh povero me!». Poi, malgrado le mie proteste, ha molto compianto Maria. Ella ha risposto che studiava per scrivere a papà. «Scrivere a papà» è la sua idea fissa e io credo che se la facessi scrivere conducendole la mano, perderei forse il più forte stimolo che posso adoperare con lei come maestra di lettura, poiché sa che prima di scrivere deve imparare a leggere. Il suo affetto per te vien sempre fuori con una mistura di amor proprio. Parla come se fosse un bisogno, non suo ma tuo, mio, dell'universo intero che Ombretta Pipì scriva a papà. Uno di questi giorni mi udì sgridar la Veronica perché ha la cattiva abitudine di buttar dalla cucina l'acqua sporca sul carrubo che n'è intristito. Ricordai alla Veronica, naturalmente, quanto il carrubo è caro a te. Maria l'udiva che brontolava tra sé contro il povero carrubo perché manda ombra in cucina e gli augurava di crepare. «Taci!», le intimò Maria con una forza inesprimibile. «Ti mando via se non taci.» L'altra la rimbeccò e Maria fuori a piangere. Io udii e accorsi. «Perché piangi?» «Perché la Veronica dice brutte parole alla pianta di papà.» Bisognava vedere che visetto irritato! Adesso fa lei la guardia al carrubo, non se ne allontana senza una predica alla Veronica e prende un'aria d'importanza come se la vita del carrubo fosse affidata a lei. Ogni mattina, quando va in giardinetto, corre lì e dice: «Stai bene, pianta?». Oggi ha versato molte lagrime perché la breva soffiava scotendo forte il carrubo, e poi ch'ella gli ebbe fatta la solita domanda, io le dissi: «Vedi che non sta bene il carrubo? Vedi che risponde di no?». Più tardi mi domandò se il carrubo, quando muore, va in Paradiso. Le risposi che siccome il carrubo disturba la Veronica mandando l'ombra in cucina, non può andare in Paradiso. Tacque mortificata.
Lo zio Piero è ormai rassegnato del tutto alla perdita del suo occhio. Si paragona ad un altare dove si dice messa e il chierico ha spento, durante l'ultimo vangelo, una delle due candele. Dopo pranzo egli e Maria fanno in loggia delle conversazioni senza fine, non più interrotte dal corso del Mississipì, oramai dimenticato. Lo zio le racconta tante vecchie cose che non ha mai raccontato neppure a me. Io non entro, allora, in loggia, perché credo che si apra più volentieri con la piccina sola. Si vogliono un gran bene e non si fanno mai o quasi mai baci né carezze, come se Maria fosse una persona grande.
13
Stamattina ho preso con me la Leu, la sorella della Veronica, ch'è clorotica, per condurla a consultare il medico di Pellio; capisci! Abbiamo impiegato due ore e mezzo da Osteno. Tu avresti goduto con entusiasmo la bellezza dei luoghi e della mattina. Io invece non me ne commossi che un momento fra i vecchi castagni di Pellio Superiore, dove voltandosi a guardar giù la valle si scopre, in fondo a quel grande imbuto verde, Porlezza e un pezzetto di lago, una piccola coppa di acqua viva, verde anche quella. Ti ricordi che abbiamo fatto colazione insieme lassù, nel tempo in cui ero ancora signorina e che l'Ester si è accorta di qualche cosa quando mi hai parlato di mia madre? Ho trovato il mio medico condotto alla fontana di «Pèll sora», fra le pecore, come un patriarca. Gli ho fatto visitare la Leu e poi, allontanata questa, abbiamo parlato. Non sapeva che sei a Torino e al solo nome di Torino mi afferrò e mi strinse le mani come se la moglie d'uno ch'è a Torino fosse già una specie di eroina. Credeva poi che corrispondendo con Torino io avessi il piano di Cavour in una tasca e quello di Napoleone nell'altra. È un bonapartista così sfegatato che gli è amara l'alleanza inglese e dice «la perfida Albione». Si teneva sicurissimo, del resto, della guerra a primavera e non gli piacque udire che ci sono dei dubbi. Credo che mi abbia subito ammirata meno. Quanto ad agire nel momento buono, dice che in Vall'Intelvi si faranno tagliare a pezzi, se occorre, «come micch». Perché parla sempre in plurale, dice «nün chì». Non ha l'aria d'uno spaccamonti. Parlando di venire alle mani coi Croati diventò più rosso dell'asso di cuori e vibrava tutto come un bracco quando gli si mostra un pezzo di pane. «Nün chì», mi disse, «gh'emm poeu anca el Brenta.» Sai, hanno a vendicare il Brenta, fucilato dagli austriaci. Insomma, se la parte mia, quando scoppierà la guerra, non fosse di liberare la «süra Peppina» e di buttare ai cavedini il suo Carlascia, andrei volentieri a battermi insieme al dottore di Pellio.
Ritornammo alle tre. Lo zio giuocava a tarocchi col curato, con Pasotti e col signor Giacomo. Il curato aveva la Gazzetta Ticinese e si era molto parlato di Sebastopoli. Si capisce che Pasotti ha una gran rabbia come tutti i tedesconi. Invece il signor Giacomo era tutto intenerito per il suo Papuzza e il curato propose di bere una bottiglia alla salute di Papuzza. Allora lo zio Piero gli domandò se non aveva vergogna, egli prete, di festeggiare le buone fortune di Papuzza. «Mi l'era per bev», brontola il curato. «L'è ben che ghe n'è minga», risponde lo zio. Il curato brontolò peggio di prima e lo zio, per consolarlo, gli fece una dotta dissertazione sui dialetti lombardi, concludendo: «Ghe n'è no, ghe n'è minga e ghe n'è miga».