Parte 3
La piazza non è veramente che uno slargo dell'unica strada del paese, in un punto più piano, dove finisce Gagliano di Sopra, la parte alta. Di qui si risale un altro po', e si ridiscende poi, attraversando un'altra piazzetta, a Gagliano di Sotto, che termina sulla frana. La piazza ha case da una parte sola; dall'altra c'è un muretto basso sopra un precipizio, la Fossa del Bersagliere, così chiamata per esservi stato buttato un bersagliere piemontese, sperdutosi in questi monti al tempo del brigantaggio e fatto prigioniero dai briganti.
Era il crepuscolo, nel cielo volavano i corvi, e nella piazza arrivavano per la conversazione serale i signori del paese. Essi passeggiano qui ogni sera, si fermano a sedere sul muretto, e, voltando la schiena all'ultimo sole, aspettano il fresco accendendo le loro sigarette economiche. Dall'altra parte, addossati alle case, stanno i contadini, tornati dai campi, e non si sentono le loro voci.
Il podestà mi riconosce e mi chiama. È un giovanotto alto, grosso e grasso, con un ciuffo di capelli neri e unti che gli piovono in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe da luna piena, e degli occhietti neri e maligni, pieni di falsità e di soddisfazione. Porta gli stivaloni, un paio di brache a quadretti da cavallerizzo, una giacchetta corta, e giocherella con un frustino. È il professor Magalone Luigi: ma non è professore. È il maestro delle scuole elementari di Gagliano; ma il suo compito principale è quello di sorvegliare i confinati del paese. In quest'opera egli pone (avrò poi modo di constatarlo) tutta la sua attività e il suo zelo. Non è egli forse stato definito da S. E. il Prefetto, come subito trova modo di dirmi con una vocetta acuta da castrato, che esce sottile e compiaciuta da quel suo corpaccione, il più giovane e il più fascista fra i podestà della provincia di Matera? Non posso fare a meno di compiacermene con il professore. E il professore mi dà subito notizie sul paese, e sul modo con cui mi conviene comportarmi. Ci sono qui alcuni confinati, una diecina in tutto. Non devo vederli, perché è proibito. Del resto sono gentaglia, operai, robetta. Io invece sono un signore, si vede subito. Mi accorgo che il professore è orgoglioso di potere, per la prima volta, esercitare la sua autorità su un signore, un pittore, un dottore, un uomo di cultura. Anch'egli è un uomo colto, ci tiene a farmelo sapere. Con me egli vuol essere gentile, siamo dello stesso rango. Ma come mai mi sono fatto mandare al confino? E proprio in quest'anno, che la Patria diventa così grande. (Ma c'è un po' di timore nella sua affermazione. La guerra d'Africa è appena all'inizio. Speriamo che tutto vada bene. Speriamo). Ad ogni modo qui mi troverò bene. Il paese è salubre e ricco. Un po' di malaria, cosa da nulla. I contadini sono quasi tutti piccoli proprietari, nell'elenco dei poveri non c'è quasi nessuno. È uno dei paesi più ricchi della provincia. Soltanto devo stare attento, perché c'è molta gente cattiva. Bisogna diffidare di tutti. Intanto io non frequenti nessuno. Egli ha molti nemici. Ha saputo che ho curato quel contadino. È una fortuna che io sia arrivato, e che possa fare il medico. Preferisco di no? Devo farlo assolutamente. Egli ne sarà davvero molto lieto. Ecco che arriva, in fondo alla piazza, suo zio, il vecchio dottor Milillo, medico condotto. Non devo aver paura, ci penserà lui a fare si che suo zio non si dispiaccia della mia concorrenza. Del resto, suo zio non conta. Quanto all'altro medico che vedo passeggiare solitario laggiù, debbo fare attenzione: è capace di tutto: ma se potrò togliergli tutta la clientela sarà una cosa ben fatta, e il professore mi difenderà. Il dottor Milillo si avvicina a piccoli passettini. Ha una settantina d'anni o poco meno. Ha le guance cascanti e gli occhi lagrimosi e bonari di un vecchio cane da caccia. È imbarazzato e lento nei movimenti, più per natura che per l'età. Le mani gli tremano, le parole gli escono balbettanti, tra un labbro superiore enormemente lungo, e uno inferiore cadente. La prima impressione è di un buon uomo, completamente rimbecillito. È chiaro che egli non è molto lieto del mio arrivo: ma io cerco di rassicurarlo. Non intendo fare il medico. Sono andato oggi dal malato soltanto perché era un caso d'urgenza e ignoravo l'esistenza dei medici del paese. Il dottore è contento di sentirmi parlare così, e anch'egli, come il nipote, si sente obbligato a mostrarmi la sua cultura, cercando negli angoli bui della memoria qualche antiquato termine medico rimasto là dagli anni dell'Università, come un trofeo d'armi dimenticato in soffitta. Ma attraverso il suo balbettio capisco una cosa sola: che egli di medicina non sa più nulla, se pure ne ha mai saputo qualcosa. I gloriosi insegnamenti della celebre Scuola Napoletana si sono dileguati nella sua mente, e confusi nella monotonia di una lunga, quotidiana indifferenza. I rottami delle perdute conoscenze galleggiano senza più senso, in un naufragio di noia, su un mare di chinino, medicina unica per tutti i mali. Lo traggo dal terreno pericoloso della scienza, e gli chiedo del paese, degli abitanti, della vita di qui.
- Buona gente ma primitiva. Si guardi soprattutto dalle donne. Lei è un giovanotto, un bel giovanotto. Non accetti nulla da una donna. Né vino, né caffè, nulla da bere o da mangiare. Certamente ci metterebbero un filtro. Lei piacerà di sicuro alle donne di qui. Tutte le faranno dei filtri. Non accetti mai nulla dalle contadine -. Anche il podestà è dello stesso parere. Questi filtri sono pericolosi. Berli non è piacevole. Disgustoso anzi. - Vuol sapere di che cosa li fanno? - E il dottore mi si china all'orecchio, balbettando a bassa voce, felice di aver ricordato finalmente un termine scientifico esatto. - Sangue, sa, sangue ca-ta-meniale, - mentre il podestà ride di un suo riso di gola, come una gallina. - Ci mettono anche delle erbe, e pronunciano delle formule, ma l'essenziale è quello. Son gente ignorante. Lo mettono dappertutto, nelle bevande, nella cioccolata, nei sanguinacci, magari anche nel pane. Catameniale. Stia attento -. Quanti filtri, ahimè, avrò bevuto senza saperlo, nel corso dell'anno? Certamente non ho seguito i consigli dello zio e del nipote, e ho affrontato ogni giorno il vino e il caffè dei contadini, anche se chi me lo preparava era una donna. Se c'erano dei filtri, forse si sono vicendevolmente neutralizzati. Certo non mi hanno fatto male; forse mi hanno, in qualche modo misterioso, aiutato a penetrare in quel mondo chiuso, velato di veli neri, sanguigno e terrestre, nell'altro mondo dei contadini, dove non si entra senza una chiave di magia.
Scende su di noi, dal monte Pollino, l'ombra della sera. I contadini sono ormai tutti rientrati in paese, si accendono i fuochi nelle case, giungono da ogni parte voci, rumore di asini e di capre. La piazza è ormai piena di tutti i signori del luogo. Il nemico del podestà, il medico che passeggia solitario, ha certo una grande curiosità di conoscermi. Egli ci gira intorno in cerchi sempre più stretti, come un nero can barbone diabolico. È un uomo anziano, grosso, panciuto, impettito, con una barba grigia a punta e dei baffi che piovono su una bocca larghissima, piena zeppa di denti gialli e irregolari. L'espressione del suo viso è quella di una diffidenza astiosa, e di un'ira continua e mal repressa. Porta gli occhiali, una specie di cilindro nero in capo, una redingote nera spelacchiata, e dei vecchi pantaloni neri lisi e consumati. Brandisce un grosso ombrello nero di cotone, quell'ombrello che gli vedrò poi portare sempre aperto, con sussiego, in modo perfettamente verticale, estate e inverno, con la pioggia e col sole, come il sacro baldacchino sul tabernacolo della propria autorità. Il dottor Gibilisco è furente. La sua autorità, ahimè, pare assai scossa. - I contadini non ci danno retta. Non ci chiamano quando sono malati, - mi dice con l'aria velenosa e collerica di un pontefice che stigmatizzi un'eresia. - Oppure non vogliono pagare. Vogliono essere curati, ma pagare, niente. Ma se ne accorgeranno. Ha visto oggi, quel tale, non ci aveva chiamati. È andato a Stigliano. Ha chiamato lei. È morto e gli sta bene -. Su questo punto, per quanto con più moderazione, era d'accordo anche il dottor Milillo, che confermava: - Sono ostinati come muli. Eh! Eh! Vogliono fare di testa propria. Si dà il chinino, si dà il chinino, ma non lo vogliono prendere. Non c'è nulla da fare -. Cerco di rassicurare anche Gibilisco sulle mie intenzioni di non fargli concorrenza: ma i suoi occhi sono pieni di diffidenza e di sospetto, e la sua ira non è sbollita. - Non si fidano di noi: non si fidano della farmacia. Si sa, non ci può esser tutto; ma si può sopperire. Se manca la morfina, si può usare 1’apomorfina -. Anche Gibilisco, come Milillo, ci tiene a mostrarmi la sua sapienza. Ma mi accorgo presto che la sua ignoranza è molto peggiore di quella del vecchio. Egli non sa assolutamente nulla, e parla a caso. Una sola cosa egli sa, che i contadini esistono unicamente perché Gibilisco li visiti, e si faccia dare denaro e cibo per le visite; e quelli che gli capitano sotto devono pagarla per gli altri che gli sfuggono. L'arte medica per lui non è che un diritto, un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni; e perché i poveri pazienti si sottraggono volentieri a questo jus necationis, un continuo furore, un odio di bestia feroce contro il povero gregge contadino. Se le conseguenze non sono spesso mortali, non è certo mancanza di buone intenzioni, ma soltanto il fatto che, per uccidere con arte un cristiano, ci vuol pure una qualche briciola di scienza. Usare questa o quella medicina gli è indifferente: egli non ne conosce e non si cura di conoscerne nessuna, esse sono per lui null'altro che le armi del suo diritto: un guerriero può cingersi, per farsi rispettare, a suo solo arbitrio, di archi o di spadoni o di scimitarre o di pistolacci o magari di kriss malesi. Il diritto di Gibilisco è ereditario: suo padre era medico, suo nonno anche. Suo fratello, morto l'anno prima, era, naturalmente, farmacista. La farmacia non ha trovato successori e avrebbe dovuto esser chiusa; ma è stato ottenuto attraverso qualche amico alla Prefettura di Matera che essa possa continuare a funzionare, per il bene della popolazione, fino a esaurimento delle scorte, ad opera delle due figlie del farmacista, che non hanno fatto studi e non potrebbero perciò essere autorizzate alla vendita dei veleni. Le scorte, naturalmente, non finiranno mai; un po' di qualche polvere indifferente viene messa nei barattoli mezzi vuoti: così si diminuisce il pericolo degli errori nelle pesate. Ma i contadini sono ostinati e diffidenti. Non vanno dal medico, non vanno alla farmacia, non riconoscono il diritto. E la malaria, giustamente, li ammazza.
Mi faccio dare qualche indicazione sui signori che passeggiano o siedono in gruppi silenziosi sul muretto. Ecco passare corrusco il brigadiere dei carabinieri. È un bel giovane bruno, un pugliese, dai capelli impomatati, con un viso cattivo; stretto in un'elegante uniforme attillata, dalla vita sottile; con stivali lucenti, profumato, frettoloso e sprezzante. Con lui dirò pochissime parole; egli mi guarda in distanza come un delinquente da tenere a bada. È qui da tre anni, e ha già messo da parte, mi dicono, quarantamila lire, frutto, a dieci lire per volta, dell'uso sagace dell'autorità sui contadini. È l'amante della levatrice, una donna alta e secca e un po' storta, dagli occhioni romantici, lucidi e pieni di languore, con un lungo viso da cavallo; mal vestita, indaffarata, con dei gesti e degli accenti sentimentali ed eccessivi, come una diva da caffè-concerto di provincia. Il brigadiere si ferma un momento a parlare sottovoce col podestà: è il suo braccio secolare, e li vedrò poi sempre confabulare a lungo in tono misterioso, forse sui mezzi migliori per tener l'ordine e aumentare il prestigio dell'autorità. Ma già si allontana, e squadrandoci dall'alto, senza salutare, si avvia alla porticina della sua amica, là in fondo. O non andrà forse invece, come si sussurra, dalla bella mafiosa, la confinata siciliana che abita dietro la casa della levatrice, una splendida creatura nera e rosa, che nessuno vede mai perché tiene celato in casa, secondo gli usi del suo paese, il mistero della sua bellezza, e ha ottenuto, per meglio salvare la sua ritrosia, di non andare che una volta sola alla settimana, anziché tutti i giorni, a firmare il registro del Municipio? Pare che il brigadiere le faccia una corte altrettanto galante quanto minacciosa. Per quanto la pudica siciliana abbia fama d'essere inattaccabile, e si dica che laggiù nell'isola ci siano parecchi uomini pronti a vendicarne l'onore, sarà difficile che la sua grazia velata possa a lungo resistere alla potenza incarnata della legge. Questi tre signori vestiti di nero, con panciotti a doppia fila di bottoni, a foggia antica, che fumano in silenzio vicino a noi, sono tre proprietari pieni di sussiego e di tristezza. Ma quell'altro che sta solo in disparte, quel vecchio sottile dal viso intelligente, è l'uomo più ricco del paese, l'avvocato S. È un uomo buono e triste, pieno di sfiducia e di disprezzo per il mondo dove gli tocca vivere. L'anno scorso gli è morto l'unico figlio maschio, e le sue due belle figlie, Concetta e Maria, da allora non sono mai più uscite di casa, neppure per andare a messa. È l'usanza di qui, almeno tra i signori: se muore il padre le figlie restano tre anni recluse, un anno se muore il fratello. Quel vecchio dalla lunga barba bianca che gli scende sul petto, che fuma vicino all'avvocato, è l'ex ricevitore postale a riposo, compare di San Giovanni del dottor Gibilisco. Si chiama Poerio, l'unico resto di un ramo gaglianese della famosa famiglia di patrioti. È sordo e malato. Non può orinare; e si è fatto magrissimo. Morirà certamente tra poco. Queste notizie mi venivano date dall'avvocato P., un giovanotto allegro che si era unito al nostro gruppo. Come mi raccontò subito, si era laureato qualche anno prima a Bologna. Non che avesse nessuna tendenza agli studi, né ambizione professionale, tutt'altro. Uno zio gli aveva lasciato in eredità tutti i suoi poderi e la sua casa in paese, a condizione che lui prendesse una laurea: perciò lui era andato a Bologna. La vita goliardica di quegli anni era stata la sua grande avventura. Laureatosi e tornato in paese a godersi in pace l'eredità, aveva sposato una donna più vecchia di lui, e non aveva più potuto ripartire. Non faceva assolutamente nulla, se non cercare di continuare, nell'ambiente paesano, la sua vita di studente. Come passare tutte le ore del giorno, tutti i giorni dell'anno? La passatella, il gioco delle carte, qualche chiacchierata sulla piazza; e le sere trascinate qua e là nelle grotte del vino. L'eredità dello zio l'aveva in buona parte perduta al gioco, a Bologna, prima ancora di esserne entrato in possesso; ora i poderi erano tutti ipotecati, le entrate erano magre, la famiglia cresceva. Ma il buon ragazzo era pur sempre uno studente di Bologna, allegro e scapigliato. Quello che fa tanto chiasso dall'altra parte della piazza, è un suo compagno di bevute e di passatella, maestro supplente alla scuola elementare. È ubriaco questa sera, come quasi sempre, fin dal mattino. Ma ha il vino cattivo, e diventa feroce, collerico, rissoso. I suoi urli, quando fa scuola, si sentono in fondo al paese.
Tutti si alzano d'un tratto, e si muovono verso la posta. Si vede infatti arrivare, in cima alla strada, la vecchia procaccia con il sacco dei giornali e della corrispondenza, che ogni giorno un mulo va a prendere al bivio sul Sauro, al passaggio dell'autobus sgangherato che porta i disgraziati viaggiatori, attraverso migliaia di giravolte e di traballoni, dalla lontanissima Matera alla valle dell'Agri. Tutti corrono all'ufficio postale e aspettano che don Cosimino, un gobbetto dal viso arguto, abbia aperto i pacchi e fatto lo spoglio. È la cerimonia serale a cui nessuno manca, e a cui anch'io parteciperò poi, ogni giorno, per tutto l'anno. Tutti restano fuori dell'ufficio, in attesa: ma il podestà e il brigadiere entrano, e, con la scusa della posta d'ufficio, controllano curiosamente le lettere di tutti. Ma questa sera la posta è in ritardo, cala la notte e non mi è lecito restare ancora all'aperto. Vedo arrivare zoppicante l'Arciprete, piccolo e magro, col grande pendaglio rosso sul cappello nessuno lo saluta. Io debbo ormai partire. Fischio al mio cane Barone, che mi precede a grandi balzi, estasiato dei nuovi odori, dei nuovi cani e pecore e capre ed uccelli di questo suo nuovo paese, e mi avvio lentamente, per la salita, alla casa della vedova.
La Fossa del Bersagliere è piena d'ombre, e l'ombra avvolge i monti viola e neri che stringono d'ognintorno l'orizzonte. Brillano le prime stelle, scintillano di là dall'Agri i lumi di Sant'Arcangelo, e più lontano, appena visibili, quelli di qualche altro paese ignoto, Noepoli forse, o Senise. La strada è stretta, sulle porte stanno seduti i contadini, nel buio che sale. Dalla casa del morto giungono i lamenti delle donne. Un brusio indistinto mi gira attorno in grandi cerchi, e di là c'è un profondo silenzio. Mi par d'essere caduto dal cielo, come una pietra in uno stagno.