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Pasolini - Ragazzi di Vita, III. NOTTATA A VILLA BORGHESE (1) (NO AUDIO)

III. NOTTATA A VILLA BORGHESE (1) (NO AUDIO)

Sul cavalcavia della stazione Tiburtina, due ragazzi spingevano un carretto con sopra delle poltrone. Era mattina, e sul ponte i vecchi autobus, quello per Monte Sacro, quello per Tiburtino III, quello per Settecamini, e il 409 che voltava subito sotto il ponte, giù per Casal Bertone e l'Acqua Bullicante, verso Porta Furba, cambiavano marcia raschiando in mezzo alla folla, fra i tricicli e i carretti degli stracciaroli, le biciclette dei pischelli e i birroccioni rossi dei burini che se ne tornavano calmi calmi dai mercati verso gli orti della periferia. Anche i marciapiedi scrostati ai lati del ponte, erano tutti pieni di gente: colonne di operai, di sfaccendati, di madri di famiglia scese dal tram al Portonaccio, proprio sotto i muraglioni del Verano e che trascinavano le borse piene di carciofoli e cotiche, verso le casupole della via Tiburtina, o verso qualche grattacielo, costruito da poco, tra i rottami, in mezzo ai cantieri, ai depositi di ferrivecchi e di legname, alle grosse fabbriche di Fiorentini o della Romana Compensati. Proprio in cima al ponte, tra la marea di macchine e di pedoni, i due ragazzi che trascinavano il carretto a strappi, senza badare agli zompi che faceva sulle buche del selciato, e andandosene più adagio che potevano, si fermarono, e si misero a sedere sui bordi del carretto. Uno tirò fuori dal fondo d'una saccoccia una cicca e se l'accese. L'altro appoggiato al bracciale di una poltrona, a striscioni rossi e bianchi, aspettò il suo turno per tirare una boccata, e per il caldo si tolse di sotto i calzoni la maglietta nera. Ma l'altro continuava a fumare senza badargli. - Aòh, - fece allora, - me 'a voi dà sta cica? - Tiè, basta che te stai zitto, - disse l'altro passandogliela. Tanto era il via vai del ponte che le loro voci si sentivano appena. Ci si era messo pure un treno, che passava fischiando sotto il cavalcavia, senza rallentare alla stazione, bassa, con tutti quei fasci di binari che si sperdevano nel polverone e il sole, contro le migliaia di case che si stavano costruendo nell'avvallamento dietro la Nomentana. Fumandosi la cicca che il compagno gli aveva appena passato, quello con la maglietta nera si issò sopra una delle due poltrone che stavano sopra il carretto, e vi si distese quant'era lungo, con le gambe larghe e la testa tutta riccioletti appoggiata sulla spalliera. Così si mise a aspirare beatamente quei due centimetri di nazionale che teneva tra le dita, mentre intorno a lui, in cima al ponte, il traffico dei pedoni e delle macchine con l'avanzare del mezzogiorno aumentava.

Anche l'altro salì sul carretto, e si distese sulla seconda poltrona, con le mani sulla fessa dei calzoni. - Mannaggia, - disse, - me sto a mmorì de debolezza, è da ieri matina che nun magno -. Ma nella caciara si distinsero in fondo al ponte due lunghi fischi. I due sbragati sulle poltrone, riconoscendoli, si rigirarono di sguincio, e difatti alla curva del tram in fondo al piazzale del Portonaccio, svincolando allegramente tra le macchine e gli autobus che sboccavano a file sul ponte, videro due altri malviventi come loro che se ne venivano in su spingendo tutti sudati un carrettino. Oltre che fischiare, gesticolavano e gridavano alla volta dei due lunghi sulle poltrone. Giunsero sotto, col carrettino pieno di rifiuti, che puzzava come una fogna. Erano tutti laceri e sporchi, con due dita di polvere e sudore sulla faccia, ma coi capelli tutti ben pettinati, come uscissero allora allora da qualche parrucchiere. Uno era un giovinottello bruno e snello, bello anche conciato a quel modo, con gli occhi neri come il carbone e le guance belle rotonde di una tintarella tra l'ulivo e il rosa, l'altro un mezzo roscio con la faccia bolsa piena di cigolini. - Che, te sei fatto pecoraro, a cuggì? - chiese al primo quello della maglietta nera, senza spostarsi d'un centimetro da come si trovava sbragato sulla poltrona con le mani sulla pancia e la cicca incollata al labbro inferiore. - Vaffan..., a Riccè, - gli rispose quello. Il Riccetto - era proprio lui quel fijo de na mignotta sulla poltrona - corrugò astutamente la fronte, e appannò lo sguardo, calcando il mento contro la gola, con aria di saperla lunga. Il Caciotta, l'altro che stava col Riccetto sdraiato sulla poltrona, si alzò e curioso come un ragazzino andò a guardare nel carretto dei due compari che cosa c'era. Fece una smorfia di disprezzo e sbottò in una risata forzata.

- Uàh, uàh, uàh, - si sbellicava rigirandosi su se stesso e mettendosi a sedere sull'orlo del marciapiede. Gli altri lo guardavano aspettando che smettesse, prendendo anche loro un'espressione quasi ridente. - Si ce fate ventisei lire me lasso tajà l'osso der collo, - disse alla fine il Caciotta. Quello che il Riccetto aveva chiamato cugino, visto ch'era a questa sparata che voleva arrivare il Caciotta, facendo schioccare la lingua gli diede una spintarella e senza dir niente prese per le stanghe il carrettino e fece per andarsene. L'altro, il mezzo roscio, che si chiamava Begalone, gli tenne dietro, guardando con la coda dell'occhio che gli rideva il Caciotta ancora seduto per terra tra i piedi dei passanti. - A ventisei lire, - gli disse, - se vedemo stasera a chi c'ha più grana 'n saccoccia. - Pff, pff, pff, - scoppiò il Caciotta. Il Begalone si fermò col suo testone di saraceno scolorito di sguincio, e fece serio pesando le parole: - A morto de fame, vòi venì che ti offrimo da beve? - Daje, - accettò pronto il Riccetto che s'era stato a guardare la scena senza dir niente dall'alto della sua poltrona. Balzò giù e aiutato dal Caciotta cominciò a spingere il carretto dei due stracciaroli. Quelli, senza aggiunger altro, scesero giù dall'altra parte del ponte, verso la Tiburtina, a razzo, e si fermarono davanti a un'osteria col pergolato, tra due o tre catapecchie, sotto un grattacielo. Entrarono tutti quattro e si bevvero il litro di vino bianco, assetati com'erano per aver spinto tutta la mattinata il carretto: Alduccio e il Begalone poi avevano la gola secca e bruciata, per quelle quattro o cinqu'ore che avevano passato al sole a capare in una frana d'immondezza sotto un ponticello della ferrovia. Dopo ch'ebbero ingollato le prime sorsate erano già tutti attoppati. - Annàmise a vende 'e poltrone, a Riccè, - fece il Caciotta appioppato contro il banco con le gambe in croce, - e mannamo tutto a ffà 'n... - E addò l'annamo a venne, - fece con aria competente il Riccetto. - Ma li mortacci tua, - disse il Begalone, - annate a Porta Portese, no! - Il Riccetto sbadigliò, e poi guardò il Caciotta con gli occhi assonnati: - Namo, a Caciò? - fece. L'altro scolò il bicchiere di vino tutto d'un fiato, finì d'ubbriacarsi, e uscendo frettoloso dall'osteria, gridò alzando una mano: - Ve saluto, a cosi brutti -. Il Riccetto finì pure lui di bere bagnandosi tutta la maglietta nera e tossendo e seguì il Caciotta.

Da lì a Porta Portese non c'erano di sicuro meno di quattro cinque chilometri di strada da fare. Era un sabato mattina, e il sole d'agosto ubbriacava. Il Riccetto e il Caciotta, in più, dovevano farsi un bel giro per non passare per San Lorenzo, dov'era la bottega del principale che li aveva mandati di buon mattino a consegnare le poltrone a Casal Bertone. - Ce vorrebbe che mo nun trovassimo da venne sta mercanzia, - fece il Caciotta con falso pessimismo, mentre in realtà camminava spedito e pieno di speranza. - Trovamo trovamo, - ribatté ghignante il Riccetto tirando fuori dalla saccoccia un pezzo di sigaretta. - Quanto dichi che ce rimediamo a Riccè? - chiese ingenuo il Caciotta. - Ce famo poco poco na trentina de sacchi, rispose l'altro. - E chi ce torna ppiù a casa, - aggiunse poi tirando allegramente le ultime boccate dalla cicca. Tanto la sua era una casa per modo di dire: andarci o non andarci era la stessa cosa, magnà non se magnava, dormì, su una panchina dei giardini pubblici era uguale. Che era una casa pure quella? Intanto la zia il Riccetto non la poteva vedere: e manco Alduccio, del resto, ch'era figlio suo. Lo zio era un imbriacone che rompeva il c... a tutti l'intera giornata. E poi come fanno due famiglie complete, con quattro figli una e sei l'altra, a stare tutte in due sole camere, strette, piccole, e senza nemmeno il gabinetto, ch'era giù abbasso in mezzo al cortile del lotto? In questo sistema di vita, da più d'un anno a quella parte, s'era trovato il Riccetto dopo la disgrazia delle scuole, da quando era andato a abitare a Tiburtino, lì dai parenti suoi.

Andarono a vendere le poltrone a Antonio, lo stracciarolo del vicolo dei Cinque, a cui tre o quattr'anni prima il Riccetto aveva venduto con Marcello e Agnolo i pezzi dei chiusini. Ci fecero una quindicina di sacchi, e andarono a rimettersi a nuovo a vestiti. Un po' vergognandosi un po' senza guardare in faccia nessuno andarono a Campo dei Fiori dove vendevano i calzoni a tubbo per mille, millecinquecento lire, e delle belle magliette gajarde per neppure duemila: si fecero pure un paro di scarpette a punta, bianche e nere, e il Caciotta gli occhiali da sole che da tanto sognava; poi zoppicando pel male ai piedi ch'erano gonfi per la camminata dal Portonaccio a lì, andarono in cerca d'un posto dove lasciare il malloppo dei panni vecchi. Era una parola trovare un posto da quelle parti. Lo lasciarono nel cesso d'un baretto vicino a Ponte Garibaldi, imboccando alla menefrego, e pensando dentro di sé, mentre passavano davanti il banco sotto lo sguardo dei baristi: «Si o' ritrovamo bbene, sinnò ècchelo llì».

S'andarono a mangiare la pizza e un crostino da Silvio, in via del Corso. Era già tardi e era ora di pensare a come passare il pomeriggio, che cavolo! Infagottati com'erano, non gli restava che la fatica di scegliere: il Metropolitan o l'Europa, il Barberini o il Capranichetta, l'Adriano o il Sistina. Uscirono subito, a ogni modo, ché chi va in giro lecca e chi sta a casa la lingua je se secca. Erano tutti contenti e scherzosi, non pensando manco lontanamente che le gioie di questo mondo son brevi, e la fortuna gira... Si comprarono il Paese Sera, per consultare la pagina degli spettacoli, e, litigando, lo strapparono, perché ognuno voleva leggere lui: finalmente, incazzati, si misero d'accordo sul Sistina.

- Quanto me piace de divertimme! - diceva il Caciotta, sortendo tutto allegrotto dal cinema, quattro ore dopo, ché s'erano visti il film due volte. S'accomodò sul naso gli occhiali da sole, e camminando scavicchiato pel marciapiede di via Due Macelli, intuzzava apposta contro i passanti.

- A brutta! - gridava a qualche signora che vedendoselo venire addosso

lo guardava facendo l'urtosa. Se poi quella, per caso, si rivoltava un'altra volta, addio: in bilico in pizzo al marciapiede, con la mano sull'angolo sinistro della bocca, quelli strillavano ancora più forte:

- A brutta, a racchiona, a sviolinata!

Certi tipi poi non li potevano vedere, ma proprio non li potevano vedere.

- An vedi questi! - gridò per esempio il Caciotta squadrandosi una donna bella alta con un sedere che non finiva mai, che veniva giù assieme a un bassetto quattrocchi: quando gli passarono davanti struscinandoli il Riccetto e il Caciotta ghignando e piegandosi fin quasi a toccar per terra con le froce del naso, cominciarono a fare - Pffff, pffff, - sputacchiando come due caccavelle. Il quattrocchi si voltò di trequarti: e quelli allora chi li resse più?, guardandosi negli occhi e piegandosi come pupazzi, sbottarono a sganassare a callara. - Che fforza! - gridava il Caciotta Ma una madama veniva proprio diretta verso di loro, e allora loro, taja!, partirono di corsa, tutti allegri, su verso Villa Borghese, che fra tutti i posti dove ci stavano panchine per dormire, era quello dove uno se la poteva divertire meglio. Imboccando dalla parte di Porta Pinciana, andarono giù per il viale che costeggiava il galoppatoio, pieno di macchine e di passanti fino a tardi. In fondo a questo viale, dopo la rotonda delle Ginestre, ce n'era un altro che portava giù ai parapetti del Pincio e alla Casina Valadier. Due file d'oleandri, su delle aiuolette rettangolari, correndo smilze smilze tra viale e marciapiede, coprivano con le loro ombre le panchine contro il recinto, con dietro la scarpata sul galoppatoio. Sulle panchine stava a prendersi il freschetto della gente. - Me vojo riposà un pochetto, - fece spensierato il Riccetto, e se ne andarono a allungarsi a pancia all'aria, cantando pieni di gratitudine verso la vita, sull'erba secca della scarpata, aspettando che venisse un po' più tardi. Quando allegramente tornarono sul viale le panchine erano già un po' più vuote, e c'era meno passeggio: ma la vera vita cominciava allora. Si vedeva, qua e là, qualche vecchio, in maniche di camicia; o qualche gruppo di giovani, chi con la giacca sulle spallucce spioventi, chi con un'americana a colori. Stavano per lo più seduti, a fare salotto, con le ginocchia strette come le donne, o con le gambe accavallate, un braccio calcato sul grembo, leggermente chini in avanti, e fumavano a piccole boccate nervose, tenendo la sigaretta con tutte quattro le dita della mano tese. Poi più avanti su un'altra panchina, sempre sotto l'ombra d'un oleandro, ci si vedeva un signore che discorreva assieme a un giovane moro, con una di quelle magliettine azzurre scollate che a Porta Portese si comprano per mezzo sacco; e più in fondo ancora, altre sagome, tra gli alberelli, sotto i fanali. - All'amica mia je se vedeno tutte 'e coscie, - disse a un tratto il Caciotta guardando fisso dall'altra parte del viale, dove, sotto il barbaglio di luce che dal lampione tagliava le ombre, una donna stava seduta sulla panchina con la sottana color sangue sopra le ginocchia. - An vedi, - disse subito ingrifato il Riccetto - A fijo de na bona donna, - gridarono al Caciotta da una panca lì vicino. - Mbè? - fece un giovane con la pelle nera come una padella, e i capelli, più neri ancora, coi ricci unti e sporchi. Se ne stava seduto a gambe larghe in mezzo a una panchina, con allato due compari.

- Che, se rimorchia? - disse il Caciotta eccitato, mettendosi a sedere vicino.

- Ma quale rimorchia, quale rimorchia, - fece il Negro ironico, a voce alta, per farsi sentire da due uomini grossi, che passavano portandosi dietro due delle stelle di Villa Borghese, pieni di buon umore. - Ma li mortacci vostra, - ciancicò dietro a quelli il Riccetto. - Ve presento n'amico mio, -disse il Caciotta presentando il Riccetto agli altri. Si strinsero la mano. In fondo i due panzoni e le scaje continuavano a far caciara, accendendosi le sigarette: il Negro e gli altri se li filavano cogli occhi storti. Il più piccolo dei due compagni del Negro parlava piano con l'altro, un capoccione, grosso, con gli occhi allegri. - E lèvate, a Calabrè, - gli rispondeva pacifico. - Stasera te 'a passi bene, eh Cappellò? - gli chiese il Caciotta, per assaggiare il terreno. - Come, no? - fece il Cappellone con la bocca larga come una palanca, e si sbragò sulla panchina allungando i piedi fin quasi all'aiuola.

Il Calabrese era tutto occupato nella serietà del loro affare, e non guardava i due nuovi. - Famme toccà, - disse, con la sua voce rauca a causa del raffreddore, che aveva sempre dacché dormiva ogni notte alla chiarina, lì a Villa Borghese: aveva una ventina d'anni, ma la sua faccia nera e cicciottella pareva quella d'un carognetta di quindici. Toccò con la mano le saccocce gonfie del Cappellone. - Vaffan..., va, - disse questi con uno scatto, - ècchela, te va bbè? - e tirò fuori dalla saccoccia una rivoltella. - A matto, - disse il Negro. Il Cappellone ridendo la fece

scomparire dentro i suoi calzoni tosti di polvere. - Ammazzete, - fece il Caciotta. - E na Berretta, che? - chiese il Riccetto accostandosi. Ma non gli risposero. Il Calabrese disse continuando il suo sondaggio con voce monotona, e uno sguardo spento e paragulo: - E 'a penna? - Che 'a tengo io 'a penna, a ciocco, - fece il Cappellone. - E ce l'ha er Picchio, nno! -disse incazzato il Negro, tendendo contro il Calabrese un braccio. - Mo quello s'è imbriacato e se fa fregà tutto da 'e mignotte, - disse ammusato il Calabrese. - E vallo a trovà, - disse il Cappellone. - Namo, - fece il Calabrese. Il Cappellone s'alzò dalla panchina, e si stirò ridendo. Il Riccetto e il Caciotta seguirono il Calabrese e il Cappellone, che si trascinavano indolenti giù per il viale; il Negro invece, appena si furono alzati, disse: - E chi me lo fa ffà, se sta tanto bbene qqua! - S'allungò a pancia in alto sulla panchina, vi distese sopra una gamba, e poi l'altra.

Il viale che portava verso Porta Pinciana era ancora pieno di donne, giovanotti imblusinati, stranieri, che se la passeggiavano al suono del jazze della Casina delle Rose. Ma all'uscita di Villa Borghese, davanti agli archi della Porta, il viale che costeggiando ancora il galoppatoio scendeva giù lungo il Muro Torto, era tutto scuro e silenzioso: vi si spingevano camminando cialtroni e orizzontandosi con aria malintenzionata, ora due o tre soldati, ora un giovane in lambretta, e sparivano subito nel buio degli alberi che lo coprivano. A destra c'era sempre il recinto che divideva il viale dalla scarpata, e più in basso, nel buio, prima della grande distesa tutta illuminata di striscio dalla luna, i due recinti che delimitavano la pista di rena. Le spianate erano tutte gialle e pestate, che di giorno v'andavano a giocare a pallone i ragazzini e a passeggiare le servatiche, e adesso vi andavano giù a ganghe, verso il maneggio pieno di siepi squadrate, bruciato dall'odore del piscio dei cavalli, reparti interi dell'esercito. Risortivano dall'ombra dei platani ammucchiati nel centro della piana, o dal caos di reti e di cespugli del maneggio, e risalivano su attraverso la pista marinai tarentini, o salernitani, negri e secchi, carristi cispadani con le braccia ciondoloni e i calzoni a sbragalone oppure pischelli dei Prati o del Flaminio, tutti sderenati. E lasciavano alle loro spalle, laggiù in fondo, il silenzio più completo. Come arrivarono lì il Riccetto, il Caciotta con gli altri due abbituè di Villa Borghese, già era tardi, e il silenzio tra una discesa e una risalita cominciava a aumentare. - Er Picchio, - annunciò il Calabrese, come se l'avesse scorto. - Indov'ello? - fece il Cappellone. -Che, mo sordo pure sei? - disse il Calabrese. - Ma li mortacci tua, - disse il Cappellone mettendosi a sedere, come s'avesse intenzione di starci un'ora, sui pali della steccionata. Si sentiva, infatti, dietro la pista, giù in fondo, quasi all'altezza dei castagni, tra le reti metalliche e le fratte più allo scuro del maneggio, una voce che strillava a rotta di collo. Man mano, accostandosi, si fece più forte.

- A paragule!

A paragule!

- strillava. Poi per un pochetto smorzò, ma rioccò subito:

- A paragule!

- ripeteva, e ogni volta, quella parola, pareva che fosse gridata da uno che s'arrabbiasse sempre più di brutto. Quello che stava a gridare, per quanto si poteva capire pur non vedendolo, doveva arrestarsi ogni tanto, rivoltarsi di sguincio verso il maneggio, e in quella posizione strillare. Oppure forse camminava piano piano, inciampando ogni tanto, con la testa voltata all'indietro. Si doveva esser pure messo le mani a imbuto intorno alla bocca, e gridava così forte che si sentiva il catarro che gli fregava la gola:

- A pparaguleee, a pparaguleee!

Poi s'interrompeva ancora un poco, per fare qualche passo o per sputare. Da principio, siccome gridava strascinando un po' la u, pareva che stesse a fare la bella sfottendole. Ma poi la calata della voce fece capire sempre meglio che quello gridava infregnato per davvero, con la rabbia, spruzzando saliva. Dovevano sentire quel grido in mezzo al galoppatoio, fin sul viale, fino alla Casina delle Rose. Taceva, si riposava per un po', poi riattaccava, come se per la rabbia non trovasse altre parole che quella: - A pparagule!

Era ormai quasi sotto alla steccionata e s'intravedeva la sua sagoma che traballava, tremando da capo a piedi come se soffiasse la tramontana. Non teneva un momento le mani ferme: si infilava e si sfilava la camicia di sotto i calzoni, si stringeva la cinta, tirava di tra i denti il chewinggum che stava masticando, si aggiustava i capelli che gli cadevano davanti agli occhi.

- A paragule zozze, - gridava più forte, a quelle che nel frattempo se ne stavano acquattate diplomaticamente in fondo tra le fratte, in sacro raccoglimento; si mise tutt'a un botto a sedere, poi si rialzò, e ricominciò a venire in su, sempre voltato all'indietro. Dopo pochi passi si rifermò tentennando dentro la camicia che gli pendeva larga sopra i calzoni e cominciò una lunga sparata, tutta piena di complicazioni, masticandosi le parole insieme alla gomma, e sputando tocchi di saliva.

- A Picchio, - lo interruppe il Cappellone dall'alto, - te stanno a mannà parlanno da solo, si nun me sbajo, eh Pì? - Il Picchio si voltò in su senza dir niente, poi tornò a guardare verso il fondo della prateria, dove quelle stavano mute come sfingi, urlando un'altra volta: - A paragule! Poi venne in su per il sentiero tra le steccionate attraverso la pista. Arrivò sul viale dov'erano gli altri e si mise a sedere tra loro sui piccoli tronchi inchiodati. Masticava allargando l'intera bocca, facendo scricchiolare le mandibole e gocciolando saliva. - Ch'hai fatto, a Pì? - disse il Calabrese con gli occhi che finalmente gli sorridevano, come quelli d'una bestia che mangia.

- Ma li mortacci loro, - gridò forte scattando il Picchio. Nel gridare e nel masticare tutta la pelle del viso secco e piccolo gli s'aggrinzava.

- Nun me vonno fa scopà, - gridò.

- Ste dritterie, te fai fà, a Picchio? - fece il Cappellone. Il Calabrese ghignava con la faccia gonfia. Il Picchio si rialzò e sbandando si portò le mani a imbuto davanti alla bocca, e rivolto alla spianata che si stendeva sotto di loro, ci rifece:

- A paragule!

- 'A penna? - fece cercando di cominciare a indagare il Calabrese: il Picchio lo guardò come senza neanche avvedersi di lui, di sghimbescio. -Che, porto l'orecchini ar naso io, - aveva ripreso a gridare rivolto alle prostitute, - che nun ve le davo pure io le cinque piotte? A paragulee! -Puntò il braccio in loro direzione: - Domani a ssera ve fo vede io ve fo! -Che je fai, a Picchio? - disse il Cappellone. - Che je fo-o? - disse il Picchio masticando e tirando su col naso, - so' c... loro so'. - Ecchela, -disse poi rivolto al Calabrese, guardandolo con la coda dell'occhio e stirando le sopracciglia con aria di rassegnazione.

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III. NOTTATA A VILLA BORGHESE (1) (NO AUDIO) III. NACHT IN DER VILLA BORGHESE (1) (OHNE TON) III. NIGHT AT VILLA BORGHESE (1) (NO AUDIO) III. NOCHE EN VILLA BORGHESE (1) (SIN AUDIO) III. NOC W WILLI BORGHESE (1) (BRAK AUDIO) III. NOITE NA VILLA BORGHESE (1) (SEM ÁUDIO)

Sul cavalcavia della stazione Tiburtina, due ragazzi spingevano un carretto con sopra delle poltrone. Era mattina, e sul ponte i vecchi autobus, quello per Monte Sacro, quello per Tiburtino III, quello per Settecamini, e il 409 che voltava subito sotto il ponte, giù per Casal Bertone e l'Acqua Bullicante, verso Porta Furba, cambiavano marcia raschiando in mezzo alla folla, fra i tricicli e i carretti degli stracciaroli, le biciclette dei pischelli e i birroccioni rossi dei burini che se ne tornavano calmi calmi dai mercati verso gli orti della periferia. Anche i marciapiedi scrostati ai lati del ponte, erano tutti pieni di gente: colonne di operai, di sfaccendati, di madri di famiglia scese dal tram al Portonaccio, proprio sotto i muraglioni del Verano e che trascinavano le borse piene di carciofoli e cotiche, verso le casupole della via Tiburtina, o verso qualche grattacielo, costruito da poco, tra i rottami, in mezzo ai cantieri, ai depositi di ferrivecchi e di legname, alle grosse fabbriche di Fiorentini o della Romana Compensati. Proprio in cima al ponte, tra la marea di macchine e di pedoni, i due ragazzi che trascinavano il carretto a strappi, senza badare agli zompi che faceva sulle buche del selciato, e andandosene più adagio che potevano, si fermarono, e si misero a sedere sui bordi del carretto. Uno tirò fuori dal fondo d'una saccoccia una cicca e se l'accese. L'altro appoggiato al bracciale di una poltrona, a striscioni rossi e bianchi, aspettò il suo turno per tirare una boccata, e per il caldo si tolse di sotto i calzoni la maglietta nera. Ma l'altro continuava a fumare senza badargli. - Aòh, - fece allora, - me 'a voi dà sta cica? - Tiè, basta che te stai zitto, - disse l'altro passandogliela. Tanto era il via vai del ponte che le loro voci si sentivano appena. Ci si era messo pure un treno, che passava fischiando sotto il cavalcavia, senza rallentare alla stazione, bassa, con tutti quei fasci di binari che si sperdevano nel polverone e il sole, contro le migliaia di case che si stavano costruendo nell'avvallamento dietro la Nomentana. Fumandosi la cicca che il compagno gli aveva appena passato, quello con la maglietta nera si issò sopra una delle due poltrone che stavano sopra il carretto, e vi si distese quant'era lungo, con le gambe larghe e la testa tutta riccioletti appoggiata sulla spalliera. Così si mise a aspirare beatamente quei due centimetri di nazionale che teneva tra le dita, mentre intorno a lui, in cima al ponte, il traffico dei pedoni e delle macchine con l'avanzare del mezzogiorno aumentava.

Anche l'altro salì sul carretto, e si distese sulla seconda poltrona, con le mani sulla fessa dei calzoni. - Mannaggia, - disse, - me sto a mmorì de debolezza, è da ieri matina che nun magno -. Ma nella caciara si distinsero in fondo al ponte due lunghi fischi. I due sbragati sulle poltrone, riconoscendoli, si rigirarono di sguincio, e difatti alla curva del tram in fondo al piazzale del Portonaccio, svincolando allegramente tra le macchine e gli autobus che sboccavano a file sul ponte, videro due altri malviventi come loro che se ne venivano in su spingendo tutti sudati un carrettino. Oltre che fischiare, gesticolavano e gridavano alla volta dei due lunghi sulle poltrone. Giunsero sotto, col carrettino pieno di rifiuti, che puzzava come una fogna. Erano tutti laceri e sporchi, con due dita di polvere e sudore sulla faccia, ma coi capelli tutti ben pettinati, come uscissero allora allora da qualche parrucchiere. Uno era un giovinottello bruno e snello, bello anche conciato a quel modo, con gli occhi neri come il carbone e le guance belle rotonde di una tintarella tra l'ulivo e il rosa, l'altro un mezzo roscio con la faccia bolsa piena di cigolini. - Che, te sei fatto pecoraro, a cuggì? - chiese al primo quello della maglietta nera, senza spostarsi d'un centimetro da come si trovava sbragato sulla poltrona con le mani sulla pancia e la cicca incollata al labbro inferiore. - Vaffan..., a Riccè, - gli rispose quello. Il Riccetto - era proprio lui quel fijo de na mignotta sulla poltrona - corrugò astutamente la fronte, e appannò lo sguardo, calcando il mento contro la gola, con aria di saperla lunga. Il Caciotta, l'altro che stava col Riccetto sdraiato sulla poltrona, si alzò e curioso come un ragazzino andò a guardare nel carretto dei due compari che cosa c'era. Fece una smorfia di disprezzo e sbottò in una risata forzata.

- Uàh, uàh, uàh, - si sbellicava rigirandosi su se stesso e mettendosi a sedere sull'orlo del marciapiede. Gli altri lo guardavano aspettando che smettesse, prendendo anche loro un'espressione quasi ridente. - Si ce fate ventisei lire me lasso tajà l'osso der collo, - disse alla fine il Caciotta. Quello che il Riccetto aveva chiamato cugino, visto ch'era a questa sparata che voleva arrivare il Caciotta, facendo schioccare la lingua gli diede una spintarella e senza dir niente prese per le stanghe il carrettino e fece per andarsene. L'altro, il mezzo roscio, che si chiamava Begalone, gli tenne dietro, guardando con la coda dell'occhio che gli rideva il Caciotta ancora seduto per terra tra i piedi dei passanti. - A ventisei lire, - gli disse, - se vedemo stasera a chi c'ha più grana 'n saccoccia. - Pff, pff, pff, - scoppiò il Caciotta. Il Begalone si fermò col suo testone di saraceno scolorito di sguincio, e fece serio pesando le parole: - A morto de fame, vòi venì che ti offrimo da beve? - Daje, - accettò pronto il Riccetto che s'era stato a guardare la scena senza dir niente dall'alto della sua poltrona. Balzò giù e aiutato dal Caciotta cominciò a spingere il carretto dei due stracciaroli. Quelli, senza aggiunger altro, scesero giù dall'altra parte del ponte, verso la Tiburtina, a razzo, e si fermarono davanti a un'osteria col pergolato, tra due o tre catapecchie, sotto un grattacielo. Entrarono tutti quattro e si bevvero il litro di vino bianco, assetati com'erano per aver spinto tutta la mattinata il carretto: Alduccio e il Begalone poi avevano la gola secca e bruciata, per quelle quattro o cinqu'ore che avevano passato al sole a capare in una frana d'immondezza sotto un ponticello della ferrovia. Dopo ch'ebbero ingollato le prime sorsate erano già tutti attoppati. - Annàmise a vende 'e poltrone, a Riccè, - fece il Caciotta appioppato contro il banco con le gambe in croce, - e mannamo tutto a ffà 'n... - E addò l'annamo a venne, - fece con aria competente il Riccetto. - Ma li mortacci tua, - disse il Begalone, - annate a Porta Portese, no! - Il Riccetto sbadigliò, e poi guardò il Caciotta con gli occhi assonnati: - Namo, a Caciò? - fece. L'altro scolò il bicchiere di vino tutto d'un fiato, finì d'ubbriacarsi, e uscendo frettoloso dall'osteria, gridò alzando una mano: - Ve saluto, a cosi brutti -. Il Riccetto finì pure lui di bere bagnandosi tutta la maglietta nera e tossendo e seguì il Caciotta.

Da lì a Porta Portese non c'erano di sicuro meno di quattro cinque chilometri di strada da fare. Era un sabato mattina, e il sole d'agosto ubbriacava. Il Riccetto e il Caciotta, in più, dovevano farsi un bel giro per non passare per San Lorenzo, dov'era la bottega del principale che li aveva mandati di buon mattino a consegnare le poltrone a Casal Bertone. - Ce vorrebbe che mo nun trovassimo da venne sta mercanzia, - fece il Caciotta con falso pessimismo, mentre in realtà camminava spedito e pieno di speranza. - Trovamo trovamo, - ribatté ghignante il Riccetto tirando fuori dalla saccoccia un pezzo di sigaretta. - Quanto dichi che ce rimediamo a Riccè? - chiese ingenuo il Caciotta. - Ce famo poco poco na trentina de sacchi, rispose l'altro. - E chi ce torna ppiù a casa, - aggiunse poi tirando allegramente le ultime boccate dalla cicca. Tanto la sua era una casa per modo di dire: andarci o non andarci era la stessa cosa, magnà non se magnava, dormì, su una panchina dei giardini pubblici era uguale. Che era una casa pure quella? Intanto la zia il Riccetto non la poteva vedere: e manco Alduccio, del resto, ch'era figlio suo. Lo zio era un imbriacone che rompeva il c... a tutti l'intera giornata. E poi come fanno due famiglie complete, con quattro figli una e sei l'altra, a stare tutte in due sole camere, strette, piccole, e senza nemmeno il gabinetto, ch'era giù abbasso in mezzo al cortile del lotto? In questo sistema di vita, da più d'un anno a quella parte, s'era trovato il Riccetto dopo la disgrazia delle scuole, da quando era andato a abitare a Tiburtino, lì dai parenti suoi.

Andarono a vendere le poltrone a Antonio, lo stracciarolo del vicolo dei Cinque, a cui tre o quattr'anni prima il Riccetto aveva venduto con Marcello e Agnolo i pezzi dei chiusini. Ci fecero una quindicina di sacchi, e andarono a rimettersi a nuovo a vestiti. Un po' vergognandosi un po' senza guardare in faccia nessuno andarono a Campo dei Fiori dove vendevano i calzoni a tubbo per mille, millecinquecento lire, e delle belle magliette gajarde per neppure duemila: si fecero pure un paro di scarpette a punta, bianche e nere, e il Caciotta gli occhiali da sole che da tanto sognava; poi zoppicando pel male ai piedi ch'erano gonfi per la camminata dal Portonaccio a lì, andarono in cerca d'un posto dove lasciare il malloppo dei panni vecchi. Era una parola trovare un posto da quelle parti. Lo lasciarono nel cesso d'un baretto vicino a Ponte Garibaldi, imboccando alla menefrego, e pensando dentro di sé, mentre passavano davanti il banco sotto lo sguardo dei baristi: «Si o' ritrovamo bbene, sinnò ècchelo llì».

S'andarono a mangiare la pizza e un crostino da Silvio, in via del Corso. Era già tardi e era ora di pensare a come passare il pomeriggio, che cavolo! Infagottati com'erano, non gli restava che la fatica di scegliere: il Metropolitan o l'Europa, il Barberini o il Capranichetta, l'Adriano o il Sistina. Uscirono subito, a ogni modo, ché chi va in giro lecca e chi sta a casa la lingua je se secca. Erano tutti contenti e scherzosi, non pensando manco lontanamente che le gioie di questo mondo son brevi, e la fortuna gira... Si comprarono il Paese Sera, per consultare la pagina degli spettacoli, e, litigando, lo strapparono, perché ognuno voleva leggere lui: finalmente, incazzati, si misero d'accordo sul Sistina.

- Quanto me piace de divertimme! - diceva il Caciotta, sortendo tutto allegrotto dal cinema, quattro ore dopo, ché s'erano visti il film due volte. S'accomodò sul naso gli occhiali da sole, e camminando scavicchiato pel marciapiede di via Due Macelli, intuzzava apposta contro i passanti.

- A brutta! - gridava a qualche signora che vedendoselo venire addosso

lo guardava facendo l'urtosa. Se poi quella, per caso, si rivoltava un'altra volta, addio: in bilico in pizzo al marciapiede, con la mano sull'angolo sinistro della bocca, quelli strillavano ancora più forte:

- A brutta, a racchiona, a sviolinata!

Certi tipi poi non li potevano vedere, ma proprio non li potevano vedere.

- An vedi questi! - gridò per esempio il Caciotta squadrandosi una donna bella alta con un sedere che non finiva mai, che veniva giù assieme a un bassetto quattrocchi: quando gli passarono davanti struscinandoli il Riccetto e il Caciotta ghignando e piegandosi fin quasi a toccar per terra con le froce del naso, cominciarono a fare - Pffff, pffff, - sputacchiando come due caccavelle. Il quattrocchi si voltò di trequarti: e quelli allora chi li resse più?, guardandosi negli occhi e piegandosi come pupazzi, sbottarono a sganassare a callara. - Che fforza! - gridava il Caciotta Ma una madama veniva proprio diretta verso di loro, e allora loro, taja!, partirono di corsa, tutti allegri, su verso Villa Borghese, che fra tutti i posti dove ci stavano panchine per dormire, era quello dove uno se la poteva divertire meglio. Imboccando dalla parte di Porta Pinciana, andarono giù per il viale che costeggiava il galoppatoio, pieno di macchine e di passanti fino a tardi. In fondo a questo viale, dopo la rotonda delle Ginestre, ce n'era un altro che portava giù ai parapetti del Pincio e alla Casina Valadier. Due file d'oleandri, su delle aiuolette rettangolari, correndo smilze smilze tra viale e marciapiede, coprivano con le loro ombre le panchine contro il recinto, con dietro la scarpata sul galoppatoio. Sulle panchine stava a prendersi il freschetto della gente. - Me vojo riposà un pochetto, - fece spensierato il Riccetto, e se ne andarono a allungarsi a pancia all'aria, cantando pieni di gratitudine verso la vita, sull'erba secca della scarpata, aspettando che venisse un po' più tardi. Quando allegramente tornarono sul viale le panchine erano già un po' più vuote, e c'era meno passeggio: ma la vera vita cominciava allora. Si vedeva, qua e là, qualche vecchio, in maniche di camicia; o qualche gruppo di giovani, chi con la giacca sulle spallucce spioventi, chi con un'americana a colori. Stavano per lo più seduti, a fare salotto, con le ginocchia strette come le donne, o con le gambe accavallate, un braccio calcato sul grembo, leggermente chini in avanti, e fumavano a piccole boccate nervose, tenendo la sigaretta con tutte quattro le dita della mano tese. Poi più avanti su un'altra panchina, sempre sotto l'ombra d'un oleandro, ci si vedeva un signore che discorreva assieme a un giovane moro, con una di quelle magliettine azzurre scollate che a Porta Portese si comprano per mezzo sacco; e più in fondo ancora, altre sagome, tra gli alberelli, sotto i fanali. - All'amica mia je se vedeno tutte 'e coscie, - disse a un tratto il Caciotta guardando fisso dall'altra parte del viale, dove, sotto il barbaglio di luce che dal lampione tagliava le ombre, una donna stava seduta sulla panchina con la sottana color sangue sopra le ginocchia. - An vedi, - disse subito ingrifato il Riccetto - A fijo de na bona donna, - gridarono al Caciotta da una panca lì vicino. - Mbè? - fece un giovane con la pelle nera come una padella, e i capelli, più neri ancora, coi ricci unti e sporchi. Se ne stava seduto a gambe larghe in mezzo a una panchina, con allato due compari.

- Che, se rimorchia? - disse il Caciotta eccitato, mettendosi a sedere vicino.

- Ma quale rimorchia, quale rimorchia, - fece il Negro ironico, a voce alta, per farsi sentire da due uomini grossi, che passavano portandosi dietro due delle stelle di Villa Borghese, pieni di buon umore. - Ma li mortacci vostra, - ciancicò dietro a quelli il Riccetto. - Ve presento n'amico mio, -disse il Caciotta presentando il Riccetto agli altri. Si strinsero la mano. In fondo i due panzoni e le scaje continuavano a far caciara, accendendosi le sigarette: il Negro e gli altri se li filavano cogli occhi storti. Il più piccolo dei due compagni del Negro parlava piano con l'altro, un capoccione, grosso, con gli occhi allegri. - E lèvate, a Calabrè, - gli rispondeva pacifico. - Stasera te 'a passi bene, eh Cappellò? - gli chiese il Caciotta, per assaggiare il terreno. - Come, no? - fece il Cappellone con la bocca larga come una palanca, e si sbragò sulla panchina allungando i piedi fin quasi all'aiuola.

Il Calabrese era tutto occupato nella serietà del loro affare, e non guardava i due nuovi. - Famme toccà, - disse, con la sua voce rauca a causa del raffreddore, che aveva sempre dacché dormiva ogni notte alla chiarina, lì a Villa Borghese: aveva una ventina d'anni, ma la sua faccia nera e cicciottella pareva quella d'un carognetta di quindici. Toccò con la mano le saccocce gonfie del Cappellone. - Vaffan..., va, - disse questi con uno scatto, - ècchela, te va bbè? - e tirò fuori dalla saccoccia una rivoltella. - A matto, - disse il Negro. Il Cappellone ridendo la fece

scomparire dentro i suoi calzoni tosti di polvere. - Ammazzete, - fece il Caciotta. - E na Berretta, che? - chiese il Riccetto accostandosi. Ma non gli risposero. Il Calabrese disse continuando il suo sondaggio con voce monotona, e uno sguardo spento e paragulo: - E 'a penna? - Che 'a tengo io 'a penna, a ciocco, - fece il Cappellone. - E ce l'ha er Picchio, nno! -disse incazzato il Negro, tendendo contro il Calabrese un braccio. - Mo quello s'è imbriacato e se fa fregà tutto da 'e mignotte, - disse ammusato il Calabrese. |||||||||||whores|||| - E vallo a trovà, - disse il Cappellone. - Namo, - fece il Calabrese. Il Cappellone s'alzò dalla panchina, e si stirò ridendo. Il Riccetto e il Caciotta seguirono il Calabrese e il Cappellone, che si trascinavano indolenti giù per il viale; il Negro invece, appena si furono alzati, disse: - E chi me lo fa ffà, se sta tanto bbene qqua! - S'allungò a pancia in alto sulla panchina, vi distese sopra una gamba, e poi l'altra.

Il viale che portava verso Porta Pinciana era ancora pieno di donne, giovanotti imblusinati, stranieri, che se la passeggiavano al suono del jazze della Casina delle Rose. Ma all'uscita di Villa Borghese, davanti agli archi della Porta, il viale che costeggiando ancora il galoppatoio scendeva giù lungo il Muro Torto, era tutto scuro e silenzioso: vi si spingevano camminando cialtroni e orizzontandosi con aria malintenzionata, ora due o tre soldati, ora un giovane in lambretta, e sparivano subito nel buio degli alberi che lo coprivano. A destra c'era sempre il recinto che divideva il viale dalla scarpata, e più in basso, nel buio, prima della grande distesa tutta illuminata di striscio dalla luna, i due recinti che delimitavano la pista di rena. Le spianate erano tutte gialle e pestate, che di giorno v'andavano a giocare a pallone i ragazzini e a passeggiare le servatiche, e adesso vi andavano giù a ganghe, verso il maneggio pieno di siepi squadrate, bruciato dall'odore del piscio dei cavalli, reparti interi dell'esercito. Risortivano dall'ombra dei platani ammucchiati nel centro della piana, o dal caos di reti e di cespugli del maneggio, e risalivano su attraverso la pista marinai tarentini, o salernitani, negri e secchi, carristi cispadani con le braccia ciondoloni e i calzoni a sbragalone oppure pischelli dei Prati o del Flaminio, tutti sderenati. E lasciavano alle loro spalle, laggiù in fondo, il silenzio più completo. Come arrivarono lì il Riccetto, il Caciotta con gli altri due abbituè di Villa Borghese, già era tardi, e il silenzio tra una discesa e una risalita cominciava a aumentare. - Er Picchio, - annunciò il Calabrese, come se l'avesse scorto. - Indov'ello? - fece il Cappellone. -Che, mo sordo pure sei? - disse il Calabrese. - Ma li mortacci tua, - disse il Cappellone mettendosi a sedere, come s'avesse intenzione di starci un'ora, sui pali della steccionata. Si sentiva, infatti, dietro la pista, giù in fondo, quasi all'altezza dei castagni, tra le reti metalliche e le fratte più allo scuro del maneggio, una voce che strillava a rotta di collo. Man mano, accostandosi, si fece più forte.

- A paragule!

A paragule!

- strillava. Poi per un pochetto smorzò, ma rioccò subito:

- A paragule!

- ripeteva, e ogni volta, quella parola, pareva che fosse gridata da uno che s'arrabbiasse sempre più di brutto. Quello che stava a gridare, per quanto si poteva capire pur non vedendolo, doveva arrestarsi ogni tanto, rivoltarsi di sguincio verso il maneggio, e in quella posizione strillare. Oppure forse camminava piano piano, inciampando ogni tanto, con la testa voltata all'indietro. Si doveva esser pure messo le mani a imbuto intorno alla bocca, e gridava così forte che si sentiva il catarro che gli fregava la gola:

- A pparaguleee, a pparaguleee!

Poi s'interrompeva ancora un poco, per fare qualche passo o per sputare. Da principio, siccome gridava strascinando un po' la u, pareva che stesse a fare la bella sfottendole. Ma poi la calata della voce fece capire sempre meglio che quello gridava infregnato per davvero, con la rabbia, spruzzando saliva. Dovevano sentire quel grido in mezzo al galoppatoio, fin sul viale, fino alla Casina delle Rose. Taceva, si riposava per un po', poi riattaccava, come se per la rabbia non trovasse altre parole che quella: - A pparagule!

Era ormai quasi sotto alla steccionata e s'intravedeva la sua sagoma che traballava, tremando da capo a piedi come se soffiasse la tramontana. Non teneva un momento le mani ferme: si infilava e si sfilava la camicia di sotto i calzoni, si stringeva la cinta, tirava di tra i denti il chewinggum che stava masticando, si aggiustava i capelli che gli cadevano davanti agli occhi.

- A paragule zozze, - gridava più forte, a quelle che nel frattempo se ne stavano acquattate diplomaticamente in fondo tra le fratte, in sacro raccoglimento; si mise tutt'a un botto a sedere, poi si rialzò, e ricominciò a venire in su, sempre voltato all'indietro. Dopo pochi passi si rifermò tentennando dentro la camicia che gli pendeva larga sopra i calzoni e cominciò una lunga sparata, tutta piena di complicazioni, masticandosi le parole insieme alla gomma, e sputando tocchi di saliva.

- A Picchio, - lo interruppe il Cappellone dall'alto, - te stanno a mannà parlanno da solo, si nun me sbajo, eh Pì? - Il Picchio si voltò in su senza dir niente, poi tornò a guardare verso il fondo della prateria, dove quelle stavano mute come sfingi, urlando un'altra volta: - A paragule! Poi venne in su per il sentiero tra le steccionate attraverso la pista. Arrivò sul viale dov'erano gli altri e si mise a sedere tra loro sui piccoli tronchi inchiodati. Masticava allargando l'intera bocca, facendo scricchiolare le mandibole e gocciolando saliva. - Ch'hai fatto, a Pì? - disse il Calabrese con gli occhi che finalmente gli sorridevano, come quelli d'una bestia che mangia.

- Ma li mortacci loro, - gridò forte scattando il Picchio. Nel gridare e nel masticare tutta la pelle del viso secco e piccolo gli s'aggrinzava.

- Nun me vonno fa scopà, - gridò.

- Ste dritterie, te fai fà, a Picchio? - fece il Cappellone. Il Calabrese ghignava con la faccia gonfia. Il Picchio si rialzò e sbandando si portò le mani a imbuto davanti alla bocca, e rivolto alla spianata che si stendeva sotto di loro, ci rifece:

- A paragule!

- 'A penna? - fece cercando di cominciare a indagare il Calabrese: il Picchio lo guardò come senza neanche avvedersi di lui, di sghimbescio. -Che, porto l'orecchini ar naso io, - aveva ripreso a gridare rivolto alle prostitute, - che nun ve le davo pure io le cinque piotte? A paragulee! |um paragulee -Puntò il braccio in loro direzione: - Domani a ssera ve fo vede io ve fo! apontou||||||||à noite|||||| -Che je fai, a Picchio? - disse il Cappellone. - Che je fo-o? - disse il Picchio masticando e tirando su col naso, - so' c... loro so'. - Ecchela, -disse poi rivolto al Calabrese, guardandolo con la coda dell'occhio e stirando le sopracciglia con aria di rassegnazione.