18. Il deserto dei Tartari (C. 22)
L'ultima compagnia che doveva partire era schierata nel cortile, tutti pensavano che il giorno dopo si sarebbe sistemata definitivamente la nuova vita a guarnigione ridotta, c'era una speciale impazienza di finire quella eterna storia dei saluti, quella rabbia di veder andarsene gli altri. La compagnia si era già schierata e si aspettava il tenente colonnello Nicolosi che la passasse in rivista, quando Giovanni Drogo, che assisteva, vide comparire il tenente Simeoni con una faccia strana.
Il tenente Simeoni si trovava da tre anni alla Fortezza e sembrava un buon ragazzo, un po' pesante, rispettoso delle autorità e amante degli esercizi fisici. Avanzatosi nel cortile, egli si guardava attorno quasi con ansia, in cerca di qualcuno a cui dire una cosa. Probabilmente uno o l'altro sarebbe stato lo stesso, perché lui non aveva amicizie particolari.
Vide Drogo che lo osservava e gli si fece vicino: "Vieni a vedere" gli disse a bassa voce. "Fa presto, vieni a vedere." "Che cosa?" domandò Drogo.
"Sono di servizio alla terza ridotta, sono scappato giù un momento, vieni appena sei libero. C'è una cosa che non capisco" e ansimava un poco come se avesse fatto una corsa.
"Dove? Che cosa hai visto?" chiese Drogo incuriosito. In quel momento una tromba mandò un triplice squillo e i soldati si misero sull'attenti perché era arrivato il comandante della degradata Fortezza.
"Aspetta che siano partiti" disse ancora Simeoni perché Drogo si impazientiva di quel mistero, apparentemente senza ragione. "Voglio almeno vederli uscire. Sono cinque giorni che volevo dirlo, ma prima bisogna che tutti siano partiti."
Finalmente, dopo le brevi parole di Nicolosi e le ultime fanfare, la compagnia equipaggiata da lunga marcia uscì a passi pesanti dalla Fortezza, avviandosi verso la valle. Era un giorno di settembre, il cielo era grigio e triste.
Allora Simeoni trasse Drogo per i lunghi corridoi solitari, fino all'ingresso della terza ridotta. Attraversarono il corpo di guardia, si affacciarono al cammino di ronda.
Il tenente Simeoni tirò fuori un cannocchiale e pregò Drogo di guardare verso quel piccolo triangolo di pianura che le montagne davanti lasciavano libero.
"Che cosa c'è?" domandò Drogo.
"Guarda prima, non vorrei sbagliarmi. Guarda tu prima e dimmi se vedi qualcosa."
Appoggiati i gomiti al parapetto, Drogo guardò attentamente il deserto e attraverso il cannocchiale, uno strumento privato di Simeoni, distingueva benissimo i sassi, gli avvallamenti, le rade macchie di arbusti, benché fossero straordinariamente lontani.
Un pezzo dopo l'altro, Drogo perlustrò il triangolo visibile del deserto e stava per dire di no, che non riusciva a vedere niente, quando proprio in fondo, là dove ogni immagine svaniva entro alla cortina perenne di nebbia, gli parve di scorgere una piccola macchia nera che si muoveva. Era ancora appoggiato coi gomiti al parapetto e guardava nel cannocchiale, che sentì battere con furia il suo cuore. Come due anni prima, pensò, quando si credeva che fossero arrivati i nemici.
"È quella macchiolina nera che dici?" domandò Drogo.
"Sono cinque giorni che l'ho vista, ma non volevo dirlo a nessuno."
"Perché" fece Drogo "di che cosa avevi paura?"
"Se parlavo, magari sospendevano le partenze. E così, dopo averci sfottuti, Morel e gli altri rimanevano a sfruttar l'occasione. Meglio essere in pochi."
"Che occasione? Che cosa pensi che sia? Sarà come l'altra volta, sarà una pattuglia di ricognizione, o magari saranno pastori, o semplicemente una bestia."
"Sono cinque giorni che l'osservo" disse Simeoni. "Se fossero pastori sarebbero andati via, e così se fossero bestie. C'è qualche cosa che si muove, ma rimane pressappoco sempre allo stesso punto." "E allora, che occasione vuoi che sia?"
Simeoni guardò Drogo sorridendo, come domandandosi se potesse rivelargli il segreto. Poi disse:
"Fanno una strada, io penso, fanno una strada militare. Questa è la volta buona. Due anni fa sono venuti a studiare il terreno, adesso arrivano sul serio."
Drogo rise cordialmente.
"Ma che strada vuoi che facciano? Figurati se viene ancora qualcuno. Non ne hai avuto abbastanza dell'ultima volta?"
"Tu sei forse un po' miope" disse Simeoni. "Tu forse non hai la vista buona, ma io riesco a distinguere benissimo, hanno cominciato a fare la massicciata. Ieri che c'era il sole si vedeva benissimo."
Drogo scosse il capo, meravigliato di tanta ostinazione. Non si era dunque stancato di aspettare, Simeoni? E aveva paura di rivelare la sua scoperta come fosse un tesoro? Aveva paura che gliela portassero via?
"Una volta" disse Drogo "una volta ci avrei creduto anch'io. Ma adesso mi sembri proprio un illuso. Se io fossi in te me ne starei zitto, finiranno per riderti dietro."
"Una strada fanno" replicò Simeoni guardando Drogo con compatimento.
"Ci metteranno dei mesi, si capisce, ma questa è la volta buona."
"Ma anche se fosse" disse Drogo "anche se fosse come dici, tu credi che se facessero veramente una strada per portare le artiglierie dal nord, lascerebbero la Fortezza sguarnita? Lo saprebbero subito allo Stato Maggiore, l'avrebbero saputo già da anni."
"Lo Stato Maggiore non la prende mai sul serio la Fortezza Bastiani; fin che non l'avranno bombardata, nessuno ci crederà a queste storie… Se ne persuaderanno troppo tardi."
"Di' quel che vuoi" ripeté Drogo. "Se questa strada si facesse sul serio, lo Stato Maggiore sarebbe informatissimo, sta pur certo." "Lo Stato Maggiore ha mille informazioni, ma su mille una sola buona, e così non credono a nessuno. Del resto è inutile discutere, vedrai se non succederà come dico."
Erano soli, sul ciglio del cammino di ronda. Le sentinelle, molto più distanziate di una volta, camminavano su e giù per il tratto rispettivamente fissato. Drogo guardò ancora verso il settentrione; le rocce, il deserto, le nebbie in fondo, tutto pareva vuoto di senso. Più tardi, parlando con Ortiz, Drogo venne a sapere che il famoso segreto del tenente Simeoni era conosciuto praticamente da tutti. Nessuno però ci aveva dato peso. Molti si stupivano anzi che un giovanotto serio come Simeoni avesse messo in giro quelle nuove storie.
In quei giorni c'erano altre cose da pensare. La diminuzione di organico obbligava a diradare, lungo il ciglione delle mura, le forze disponibili, e si continuavano a fare diverse prove per ottenere, con minori mezzi, un servizio di sicurezza quasi altrettanto efficace di prima. Si dovette abbandonare alcuni corpi di guardia, attrezzarne altri con più materiale, bisognò ricomporre le compagnie e dividerle nuovamente per camerate. Per la prima volta da quando era stata costruita la Fortezza alcuni locali vennero chiusi e sprangati. Il sarto Prosdocimo dovette liberarsi di tre aiutanti, perché non gli era rimasto abbastanza lavoro. Ogni tanto capitava di entrare in cameroni o uffici completamente vuoti, con sui muri le macchie bianche dei mobili e dei quadri portati via.
Il puntino nero che si muoveva agli estremi confini della pianura continuò a essere considerato uno scherzo. Ben pochi si fecero prestare da Simeoni il cannocchiale per vedere anche loro, e questi pochi dissero di non avere scorto nulla. Lo stesso Simeoni, siccome nessuno lo prendeva sul serio, evitava di parlare della scoperta e per prudenza ci rideva su anche lui senza formalizzarsi.
Poi una sera Simeoni andò nella stanza di Drogo a chiamarlo. Già era scesa la notte e si era compiuto il cambio della guardia. Lo sparuto drappello della Ridotta Nuova era tornato e la Fortezza si disponeva alla veglia, un'altra notte inutilmente sprecata.
"Vieni a vedere, tu che non ci credi, ma vieni a vedere" diceva Simeoni. "O che io abbia le allucinazioni, o che io vedo una luce." Andarono a vedere. Salirono sul ciglione delle mura, all'altezza della quarta ridotta. Nel buio il compagno diede a Drogo il cannocchiale perché osservasse.
"Ma se è buio!" disse Giovanni. "Che cosa vuoi vedere con questo buio?" "Guarda, ti dico" insistette Simeoni. "Te l'ho detto, non vorrei fosse un'allucinazione. Guarda dove ti ho mostrato l'altra volta, dimmi se vedi qualche cosa."
Drogo portò il cannocchiale all'occhio destro, lo puntò verso l'estremo settentrione, vide nelle tenebre un piccolo lume, una punta infinitesima di luce che brillava sì e no ai limiti delle nebbie.
"Una luce!" esclamò Drogo. "Vedo un piccolo chiaro… aspetta…" (E continuava ad aggiustarsi il cannocchiale all'orbita.) "…Non si capisce se siano diversi o uno solo, in certi momenti sembra ce ne siano due."
"Hai visto?" disse Simeoni trionfante. "Sono io il cretino?"
"Che cosa c'entra?" ribatté Drogo, anche se non troppo convinto. "Che cosa significa se c'è quel lume? Potrebbe essere un accampamento di zingari o di pastori."
"È il lume del cantiere" fece Simeoni. "Il cantiere per la nuova strada, vedrai se non ho ragione."
A occhi nudi, per quanto fosse strano, il lume non si poteva distinguere. Neppure le sentinelle (e sì che ce n'erano di bravissime, cacciatori famosi) non riuscivano a vedere niente.
Drogo puntò ancora il cannocchiale, cercò il lontanissimo lume, lo stette a guardare qualche istante, poi alzò lo strumento e si mise a osservare per curiosità le stelle. In numero sterminato esse riempivano ogni parte del cielo, bellissimo a vedersi. A oriente però erano assai più rade, perché stava per sorgere la luna, preceduta da un vago chiarore.
"Simeoni!" chiamò Drogo, non vedendo più il compagno vicino. Ma l'altro non gli rispose; doveva essere sceso giù per una scaletta a ispezionare il ciglione delle mura.
Drogo si guardò attorno. Nel buio si riusciva a distinguere solamente il cammino di ronda vuoto, il profilo delle fortificazioni, l'ombra nera delle montagne. Giunse qualche rintocco dall'orologio. L'estrema sentinella di destra avrebbe ora dovuto lanciare il grido notturno, di soldato in soldato la voce sarebbe corsa lungo tutte le mura.
"All'erta! All'erta!" Poi l'appello avrebbe fatto il cammino inverso, si sarebbe spento alla base delle grandi rupi. Adesso che i posti di sentinella erano dimezzati - Drogo pensò - la voce, per le minori ripetizioni, avrebbe fatto il viaggio complessivo molto più svelto. Invece restò il silenzio.
Vennero allora improvvisamente alla mente di Drogo pensieri di un mondo desiderabile e lontano, un palazzo per esempio sulla riva di un mare, in una molle notte di estate, graziose creature sedute vicino, ascoltare musiche, immagini di felicità che la giovinezza permetteva di meditare impunemente, e intanto l'orlo estremo del mare a levante farsi nitido e nero, cominciando quel cielo a impallidire per l'alba sopravveniente. E poter buttare via le notti, così, non rifugiarsi nel sonno, non paura di fare tardi, lasciare sorgere il sole, pregustare dinanzi a sé un tempo infinito, da non doversi angustiare. Fra tante cose belle del mondo, Giovanni si ostinava a desiderare questo improbabile palazzo marino, le musiche, la dissipazione delle ore, l'attesa dell'alba. Per quanto sciocco, ciò gli sembrava esprimere nel modo più intenso quella pace che egli aveva perduto. Da qualche tempo infatti un'ansia, che lui non sapeva capire, lo inseguiva senza riposo: l'impressione di non fare in tempo, che qualche cosa di importante sarebbe successo e l'avrebbe colto di sorpresa. Il colloquio col generale, giù in città, gli aveva lasciato poche speranze di trasferimento e brillante carriera, ma Giovanni capiva pure di non poter restare tutta la vita tra le mura della Fortezza. Presto o tardi qualche cosa bisognava decidere. Poi le abitudini lo riprendevano nel solito ritmo e Drogo non pensava più agli altri, ai compagni che erano fuggiti in tempo, ai vecchi amici che diventavano ricchi e famosi, egli si consolava alla vista degli ufficiali che vivevano come lui nel medesimo esilio, senza pensare che essi potevano essere i deboli o i vinti, l'ultimo esempio da seguire.
Di giorno in giorno Drogo rimandava la decisione, si sentiva del resto ancora giovane, appena venticinque anni. Quell'ansia sottile lo inseguiva tuttavia senza riposo, adesso poi c'era la storia del lume nella pianura del nord, poteva anche darsi che Simeoni avesse ragione.