Stagione 4 - Episodio 4 (1)
La definizione da dizionario della parola “trauma” è questa: grave alterazione del normale stato psichico di un individuo, conseguente a esperienze e fatti tristi, dolorosi, negativi, che turbano e disorientano. Un trauma psicologico, insomma, è la conseguenza di un colpo che ci fa così male da avere ripercussioni anche a un certo periodo di distanza dal momento in cui è avvenuto, da lasciare dei segni e delle cicatrici non visibili ma che ci condizionano, che ci cambiano. Sono stato in Iowa e in New Hampshire, i due stati da cui sono iniziate le primarie del Partito Democratico statunitense. Per due settimane sono saltato da un comizio all'altro, due, tre o quattro ogni giorno, mi sono spostato da una città all'altra, sono entrato nelle palestre, nelle scuole, nei teatri e nelle caffetterie, e ho passato le mie giornate intere in mezzo a centinaia di elettori del Partito Democratico. Li ho visti in faccia e li ho osservati reagire ai discorsi dei candidati, ho ascoltato le loro opinioni e le loro aspettative, e la prima cosa che ho notato è stata proprio questa: gli elettori del Partito Democratico sono traumatizzati.
Le primarie americane, per come le conosciamo oggi, sono un esperimento relativamente recente. Per gran parte del Novecento, infatti, le primarie si organizzavano ma i risultati pesavano relativamente poco: erano una specie di consultazione non vincolante, che serviva a coinvolgere le persone e promuovere i candidati, ma alle convention estive erano i parlamentari e i funzionari dei partiti a decidere davvero. E non solo niente li vincolava a scegliere la persona che era stata scelta alle primarie: niente li vincolava a scegliere qualcuno che si fosse candidato alle primarie. Anche per questo motivo, nel 1968 i Democratici ebbero una convention estiva molto movimentata. Era un anno di fortissime tensioni sociali, fu definito poi “L'anno che ha plasmato una generazione”. Bobby Kennedy e Martin Luther King erano stati uccisi da poche settimane, il presidente uscente Lyndon Johnson aveva rinunciato alla rielezione, la guerra in Vietnam andava avanti tra proteste sempre più forti e i movimenti studenteschi di contestazione diventavano ogni giorno più partecipati e influenti.
Nonostante alle primarie del Partito Democratico la maggioranza degli elettori avesse votato per candidati contrari alla guerra, la convention di Chicago finì per nominare il vicepresidente Hubert Humphrey, che alle primarie non aveva nemmeno partecipato. Le proteste contro la guerra che erano state organizzate dai movimenti giovanili e dagli hippie contro la guerra diventarono molto forti, ne scaturirono duri scontri con la polizia che durante quei giorni diventarono LA storia e fecero parlare molto di più dei lavori della convention.
Humphrey alla fine perse quelle elezioni, e il Partito Democratico decise allora di riformare completamente il modo con cui sceglieva i suoi candidati alla presidenza: decise che la nomination sarebbe dipesa quasi esclusivamente dai risultati delle primarie, delegando quindi la scelta ai propri elettori, e stabilì che ogni Stato sarebbe stato libero di organizzare le sue primarie come voleva e quando voleva, purché mandasse in tempo i suoi delegati alla convention. Tra tutti gli Stati americani, l'Iowa scelse un metodo un po' complicato – non solo decise di esprimersi attraverso le assemblee popolari note come caucus, ma anche di scegliere i delegati attraverso un articolato sistema piramidale di congressi comunali e di contea. Dato che questo sistema di voto richiedeva tanto tempo, l'Iowa fissò le sue consultazioni con un tale anticipo sulla convention estiva che finì per essere il primo stato a votare nel calendario delle primarie. All'epoca nessuno diede grande peso a questa circostanza, finché qualche anno dopo un candidato di nome Jimmy Carter, sul quale nessuno puntava due lire, vinse i caucus dell'Iowa e ne ottenne una tale spinta che poi andò a vincere la nomination. Ancora oggi il calendario delle primarie cambia leggermente a ogni ciclo elettorale, ma l'Iowa resta primo per le ragioni che vi ho raccontato nella scorsa puntata: per tradizione, e perché è piccolo abbastanza da dare a tutti una chance di competere. E quindi da allora, ogni quattro anni, l'Iowa diventa il centro degli Stati Uniti e quindi in qualche modo il centro del mondo: i candidati battono lo stato contea per contea, città per città, strada per strada, parlando anche soltanto con cinquanta o sessanta elettori alla volta, e con i giornalisti di mezzo mondo al loro seguito.
Perché dico che gli elettori del Partito Democratico mi sono sembrati traumatizzati? Perché parlando con loro, osservandoli ai comizi di tutti i candidati, giudicando le loro reazioni, ho notato che la cosa che in assoluto più li accomuna è il terrore che Trump possa vincere ancora le elezioni, mentre la frase di qualsiasi candidato che riscuote sempre più applausi, applausi rabbiosi, quasi liberatori, è: sconfiggeremo Donald Trump. Un comizio dopo l'altro, un incontro dopo l'altro, questi applausi fragorosi al minimo riferimento all'eventuale sconfitta di Trump mi sono sembrati sempre di più un modo per provare a darsi coraggio, per esorcizzare lo scenario che più li spaventa, per convincersi che non accadrà, che non succederà, che quel disastro non può capitare di nuovo. Se l'elezione di Trump nel 2016 vi ha creato dello sconforto, o anche soltanto se vi ha semplicemente sorpresi, pensate quale dev'essere stata la reazione di un elettore o di una militante del Partito Democratico. Di una persona americana che per mesi aveva lavorato per la vittoria della sua avversaria e poi ha scoperto che Donald Trump sarebbe diventato il suo presidente.
Ma c'è di più: pensate alle sensazioni di questa persona quando, durante il primo mandato di Trump, la catastrofe che era stata preconizzata non avviene. Quando i mercati finanziari non crollano. Quando l'economia non smette di crescere. Quando la terza guerra mondiale non scoppia. Quando Donald Trump non viene rimosso dalla Casa Bianca con l'impeachment. Quando Trump riesce a fare tutto quello che loro temevano – abusare del suo potere, trattare con crudeltà gli immigrati, tagliare le tasse ai ricchi, sabotare la riforma sanitaria di Obama – ma allo stesso tempo riesce anche a non pagarne le conseguenze. Anzi, a trovarsi oggi in una posizione che lo porterà alle elezioni del 2020, se non addirittura da favorito, con delle possibilità più che dignitose di essere rieletto. Se la vittoria di Trump nel 2016 è stata una sorpresa, infatti, un'eventuale nuova vittoria nel voto del prossimo novembre non lo sarebbe affatto.
Questo scenario per gli elettori del Partito Democratico è reso ancora più complesso e faticoso da attraversare dal numero e dal tipo di candidati tra cui stanno scegliendo chi opporre a Trump. Si sono candidate tantissime persone a queste primarie, a un certo punto i candidati principali erano addirittura più di venti: quel numero ora si è ridotto di molto, ma la scelta rimane molto ampia. C'è l'ex vicepresidente Joe Biden, un personaggio esperto, affidabile e benvoluto. C'è il senatore Bernie Sanders, che ha proposte radicali e il sostegno dei giovani e di un movimento popolare energico e generoso. C'è la senatrice Elizabeth Warren, competente, rispettata e molto dettagliata nei piani che propone al Paese. C'è l'imprenditore Michael Bloomberg, ricordato da tutti come un ottimo sindaco di New York e con il suo patrimonio personale sconfinato che ha promesso di usare per battere Donald Trump. C'è l'ex sindaco Pete Buttigieg, con la freschezza dei suoi 38 anni e un messaggio di speranza e unità che ricorda la retorica di Barack Obama. C'è la senatrice Amy Klobuchar, con il suo pragmatismo, il suo equilibrio e la sua credibilità. E poi ci sono e ci sono stati altri candidati che potremmo considerare minori, ma davvero minori non sono: il ricchissimo californiano Tom Steyer, che usa la retorica più combattiva e battagliera contro Trump; c'è l'imprenditore Andrew Yang, che ha portato nel partito idee e persone nuove. E poi ci sono stati i senatori Kamala Harris, Kristen Gillibrand, Beto O' Rourke, Cory Booker e Michael Bennet: gente quadrata, rispettata, solida.
Mai come in questo caso, però, avere troppo tra cui scegliere rischia di diventare un problema.
Per quanto ognuno di questi candidati abbia evidentemente delle qualità, dei talenti e dei meriti, tutti hanno anche delle evidenti imperfezioni, dei limiti. Joe Biden è molto invecchiato, non ha lo smalto di un tempo ed è troppo legato al passato del partito per generare davvero entusiasmo negli elettori. Bernie Sanders forse è un po' troppo radicale, e tanti americani si dicono spaventati dall'idea di avere un presidente che si definisca socialista; senza contare che ha avuto un infarto soltanto tre mesi fa. Elizabeth Warren non riesce a essere persuasiva, non ha un grande fiuto politico e rischia anche lei di spaventare un pezzo sostanzioso dell'elettorato. Michael Bloomberg è forse persino troppo ricco, è detestato dall'ala sinistra del partito e fino a poco tempo fa si definiva Repubblicano. Amy Klobuchar a volte fa pensare di non essere pronta per il salto dalla politica locale a quella nazionale. Pete Buttigieg è molto inesperto e non riscuote grandi consensi, per usare un eufemismo, tra gli elettori non bianchi; Tom Steyer non ha nessuna esperienza governativa pregressa e nessun vero radicamento nel partito. Eccetera eccetera.
Se uniamo questa situazione alla cosa di cui parlavamo poco fa, al trauma che hanno subito i Democratici e agli effetti di questo trauma, si arriva a quella condizione che qualche americano ha chiamato “analysis paralysis”. La sensazione di non poter davvero sbagliare questa scelta, unita alla quantità di scelte possibili e ai potenziali rischi che comporta ognuna di queste opzioni, ha portato tanti Democratici a essere incerti, a cambiare idea più volte, a sostenere un candidato e poi sostenerne un'altra e comunque non esserne convinti.
Mentre mi trovavo in Iowa e poi in New Hampshire, per esempio, ho notato una cosa: anche i comizi dei candidati meno noti erano sempre pieni di gente. Ma pieni. Un pomeriggio avevo due ore libere e ho deciso di andare a vedere un incontro con gli elettori di Michael Bennet, un candidato che probabilmente non avete mai sentito nominare, e che era dato dai sondaggi intorno allo 0,6 per cento. Sono arrivato all'ultimo momento, senza nemmeno accreditarmi come giornalista, pensavo: ma chi vuoi mai che ci sia a sentire Michael Bennet? Invece c'erano più di duecento persone e due sale che scoppiavano di gente. In condizioni normali avrei potuto pensare: beh, qui sta succedendo qualcosa, forse la stampa non se n'è accorta ma Bennet raccoglie più consensi di quelli magrissimi che gli attribuiscono i sondaggi. Invece no, e prima che lo dimostrasse il voto – Bennet ha preso lo 0,3 per cento e si è ritirato – me lo ha dimostrato ascoltare gli elettori che avevano partecipato a quell'iniziativa. Non erano elettori di Bennet, ma erano andati comunque ad ascoltarlo. Erano curiosi. Ma soprattutto volevano essere sicuri di fare questa scelta così complessa e delicata dopo aver valutato per bene ogni opzione possibile. Durante queste due settimane mi è capitato di incontrare anche persone che non abitavano nemmeno in Iowa e in New Hampshire, ma che arrivavano da tantissimi altri posti d'America e avevano deciso di passare due giorni da quelle parti per vedere i candidati da vicino, per farsi un'idea.
Questo è il contesto, insomma. Un partito ferito, traumatizzato, che sa di non poter sbagliare e si sente bloccato dalla quantità e varietà di opzioni a disposizione. Pur in questo contesto, però, queste primarie oggi hanno un favorito.
The baseline is who can beat Trump? And that's a question of message organization and how they are resonating with the voters. Obviously, Bernie has got his his true believers. And, you know, he will be strong going all the way forward, although he's got about half to support he had last time. Well, I will vote for whoever the Democrat is. If they win the primary. But I would vote for him and I'd probably work with him assuming he'd still lose. I mean, I would never not vote for the Democrat. But I've been told by members of the House that they worry that if Bernie is the nominee, not only will we lose, we'll lose the House of Representatives as well.