5. Il deserto dei Tartari (C. 6-7)
Già era scesa la piena notte. Drogo era seduto nella nuda camera della ridotta e si era fatto portare carta, inchiostro e penna per scrivere.
"Cara mamma" cominciò a scrivere e immediatamente si sentì come quando era bambino. Solo, al lume di una lanterna, mentre nessuno lo vedeva, nel cuore della Fortezza a lui ignota, lontano dalla casa, da tutte le cose familiari e buone, gli pareva una consolazione poter almeno aprire completamente il suo cuore.
Certo, con gli altri, con i colleghi ufficiali, doveva farsi vedere uomo, doveva ridere con loro e raccontare storie spavalde di militari e di donne. A chi altri se non alla mamma poteva dire la verità? e la verità di Drogo quella sera non era una verità da bravo soldato, non era probabilmente degna dell'austera Fortezza, i compagni ne avrebbero riso. La verità era la stanchezza del viaggio, l'oppressione delle tetre mura, il sentirsi completamente solo.
"Sono arrivato sfinito dopo due giorni di strada" questo le avrebbe scritto "e, arrivato, ho saputo che se volevo potevo tornare in città. La Fortezza è malinconica, non ci sono paesi vicini, non c'è nessun divertimento e nessuna allegria". Questo le avrebbe scritto.
Ma Drogo si ricordò della mamma, a quell'ora ella pensava proprio a lui e si consolava all'idea che il figlio se la passasse piacevolmente con simpatici amici, magari, chissà, in gentile compagnia. Lei certo lo credeva soddisfatto, sereno.
"Cara mamma" la sua mano scrisse. "Sono arrivato l'altro ieri dopo un ottimo viaggio. La Fortezza è grandiosa…" Oh, farle capire lo squallore di quelle mura, quell'aria vaga di punizione ed esilio, quegli uomini stranieri ed assurdi. Invece: "Gli ufficiali qui mi hanno accolto affettuosamente" scriveva. "Anche l'aiutante maggiore in prima è stato molto gentile e mi ha lasciato completamente libero di tornare in città se volevo. Eppure io…"
Forse in quel momento la mamma girava nella sua stanza abbandonata, apriva un cassetto, metteva in ordine i suoi vecchi vestiti, i libri, lo scrittoio; li aveva già riordinati tante volte, ma le pareva così di ritrovare un po' la viva presenza di lui, come se egli dovesse rincasare, al solito, prima di pranzo. Gli pareva di udirlo, il noto rumore dei suoi piccoli passi irrequieti che si sarebbero detti sempre in ansia per qualcuno. Come avrebbe avuto il cuore di amareggiarla? Se le fosse stato vicino, nella stessa stanza, raccolti sotto il familiare lume, allora sì Giovanni le avrebbe detto tutto e lei non avrebbe fatto in tempo a contristarsi, perché lui le era accanto e il brutto era ormai passato. Ma così da lontano, per lettera? Seduto accanto a lei, dinanzi al camino, nella rassicurante tranquillità dell'antica casa, allora sì le avrebbe parlato del maggiore Matti e delle sue insidiose blandizie, delle manie di Tronk! le avrebbe detto come stupidamente avesse accettato di rimanere quattro mesi, e probabilmente entrambi ci avrebbero riso sopra. Ma come fare, così da lontano? "Eppure io" Drogo scriveva "ho creduto bene per me e per la carriera restare qualche tempo quassù… La compagnia poi è molto simpatica, il servizio facile e non faticoso. E la sua stanza, il rumore della cisterna, l'incontro col capitano Ortiz e la desolata terra del nord? Non aveva da spiegarle i ferrei regolamenti della guardia, la nuda ridotta in cui si trovava? No, neppure con la mamma poteva essere sincero, nemmeno a lei confessare gli oscuri timori che non gli lasciavano pace.
Nella sua casa, in città, gli orologi, uno dopo l'altro, con voci diverse, adesso suonavano le dieci, ai rintocchi tintinnavano lievemente i bicchieri nelle credenze, dalla cucina giungeva una eco di risata, dall'altra parte della via un canto di pianoforte. Attraverso una strettissima finestretta, quasi una feritoia, dal posto dove sedeva, Drogo poteva gettare uno sguardo verso la valle del nord, quella terra triste; ma adesso non si vedeva che buio. La penna scricchiolava un poco. Benché trionfasse la notte, il vento cominciava a soffiare fra le merlature portando ignoti messaggi, benché dentro alla ridotta si ammucchiassero dense le tenebre e l'aria fosse umida e ingrata, "in complesso io sono molto contento e sto bene" scriveva Giovanni Drogo.
Dalle nove di sera all'alba, ogni mezz'ora una campana suonava nella quarta ridotta all'estremità destra del valico, dove finivano le mura. Suonava una piccola campana e subito l'ultima sentinella chiamava il compagno più vicino; da questa al soldato seguente e poi avanti fino all'estremità opposta delle mura, di ridotta in ridotta, attraverso il forte e ancora lungo la bastionata, il richiamo correva nella notte.
"All'erta, all'erta!" Le sentinelle non mettevano alcun entusiasmo nel grido, lo ripetevano meccanicamente, con strani timbri di voce. Disteso sul lettuccio, senza essersi spogliato, Giovanni Drogo, invaso da un crescente torpore, sentiva ad intervalli sopraggiungere da lontano quel grido. "Aè… aè… aè…" gli arrivava soltanto. Si faceva sempre più forte, gli passava sopra, con la massima intensità, si allontanava dall'altra parte, calando a poco a poco nel nulla. Dopo due minuti eccolo di ritorno, rimandato, come controprova, dal primo fortino di sinistra. Drogo lo udiva ancora avvicinarsi, a passi lenti ed uguali, "aè… aè… aè…". Solo quando gli era sopra, ripetuto dalle proprie sentinelle, riusciva a distinguere la parola. Ma presto l'"all'erta!" si confondeva ancora in una specie di lamento che moriva finalmente all'ultima sentinella, contro il piedestallo delle rupi. Giovanni udì arrivare il richiamo quattro volte e quattro volte ridiscendere il ciglione del forte fino al punto donde era partito. Alla quinta, giunse nella coscienza di Drogo solo una vaga risonanza che gli provocò un breve sussulto. Gli venne in mente che non era bello, per l'ufficiale di guardia, dormire; il regolamento lo permetteva a condizione che non ci si spogliasse, ma quasi tutti gli ufficiali giovani della Fortezza, per una forma di elegante alterigia, restavano svegli tutta la notte, leggendo, fumando sigari, facendosi anche abusivamente visita l'un l'altro e giocando a carte. Tronk, a cui prima Giovanni aveva chiesto informazioni, gli aveva fatto capire che era buona norma stare sveglio.
Disteso sul lettuccio, fuori dell'alone del lume a petrolio, mentre fantasticava sulla propria vita, Giovanni Drogo invece fu preso improvvisamente dal sonno. E intanto, proprio quella notte - oh, se l'avesse saputo, forse non avrebbe avuto voglia di dormire - proprio quella notte cominciava per lui l'irreparabile fuga del tempo. Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.
Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada.
Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto.
Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una sull'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire.
Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini.
Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che è successo. Sarà allora come un risveglio. Si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trepestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all'orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia. Intanto i compagni si perderanno di vista, qualcuno rimane indietro sfinito, un altro è fuggito innanzi, oramai non è più che un minuscolo punto all'orizzonte.
Dietro quel fiume - dirà la gente - ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo.
Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e all'orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buono era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti senza sapere. Oh, è troppo tardi ormai per ritornare, dietro a lui si amplia il rombo della moltitudine che lo segue, sospinta dalla stessa illusione, ma ancora invisibile sulla bianca strada deserta.
Giovanni Drogo adesso dorme nell'interno della terza ridotta. Egli sogna e sorride. Per le ultime volte vengono a lui nella notte le dolci immagini di un mondo completamente felice. Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme, e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d'erba, tutto così da immemorabile tempo.
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Capitolo 7.
Giunse finalmente dalla città la cassa con i vestiti del tenente Drogo. Fra l'altro c'era un mantello nuovissimo, di straordinaria eleganza. Drogo lo indossò e si guardò pezzo a pezzo nel piccolo specchio della propria stanza. Gli parve quello un vivo collegamento con il suo mondo, pensò con soddisfazione che tutti lo avrebbero guardato, tanto splendida era la stoffa, fiero il panneggiamento che ne risultava.
Pensò che non doveva sciuparlo per il servizio di fortezza, nelle notti di guardia, fra le umide mura. Era anche di malaugurio metterlo lassù, per la prima volta, quasi ad ammettere ch'egli non avrebbe avuto occasioni migliori. Pure gli dispiaceva di non farlo vedere in giro e, benché non fosse freddo, volle indossarlo almeno per andare fino dal sarto del reggimento, da cui ne avrebbe comperato un altro di tipo comune.
Lasciò quindi la camera e si avviò giù per le scale, osservando, dove la luce lo permetteva, l'eleganza della propria ombra. Tuttavia, man mano ch'egli scendeva nel cuore della Fortezza, il mantello sembrava perdere in qualche modo il suo primo splendore. Drogo inoltre si accorse che non riusciva a portarlo con naturalezza; gli pareva una cosa strana da dare nell'occhio.
Ebbe perciò piacere che le scale e i corridoi fossero quasi deserti. Un capitano che finalmente incontrò rispose al suo saluto senza uno sguardo in più del necessario. Neppure i rari soldati voltavano gli occhi a osservarlo.
Scese per una angusta scaletta a chiocciola, tagliata nel corpo di una muraglia, e i suoi passi risuonavano di sopra e di sotto come ci fosse altra gente. Le preziose falde del mantello battevano, oscillando, sulle bianche muffe dei muri.
Drogo giunse così ai sotterranei. Il laboratorio del sarto Prosdocimo era appunto allogato in una cantina. Uno spiraglio di luce scendeva, nelle giornate buone, da una piccola finestretta al livello del suolo, ma quella sera avevano già acceso i lumi.
"Buonasera, signor tenente" disse Prosdocimo, il sarto reggimentale, appena lo vide entrare. Nello stanzone solo alcuni piccoli tratti erano illuminati: un tavolo dove un vecchietto scriveva, il banco dove lavoravano tre giovani aiutanti. Tutt'attorno pendevano flosci, con sinistro abbandono da impiccati, decine e decine di uniformi, pastrani e mantelli. "Buonasera" rispose Drogo. "Vorrei un mantello, un mantello da non spendere molto, vorrei, basta che duri quattro mesi."
"Mi lasci vedere" disse il sarto con un sorriso di curiosità diffidente, prendendo un lembo del mantello di Drogo e traendolo verso la luce; egli era di grado maresciallo ma la sua qualità di sarto pareva concedergli di diritto una certa ironica familiarità coi superiori. "Bella stoffa, bella… l'avrà pagata un occhio, immagino, laggiù in città non scherzano" diede un'occhiata complessiva da uomo del mestiere, scosse il capo facendo tremolare le guance piene sanguigne "peccato però…"
"Peccato che cosa?"
"Peccato che il collo sia così basso, è poco militare. " "Si usa così adesso" fece Drogo con superiorità.
"La moda vorrà il collo basso" disse il sarto, "ma per noi militari la moda non c'entra. La moda ha da essere il regolamento e il regolamento dice "il collo del mantello stretto al collo, foggiato a cintura, alto centimetri sette". Lei forse crede, signor tenente, che io sia un sartucolo da poco, a vedermi in questo buco."
"Perché? " fece Drogo.
"Tutt'altro, anzi."
"Lei probabilmente crede che io sia un sartucolo da poco. Molti ufficiali invece mi stimano, anche in città, e ufficiali di riguardo. Io sono quassù in via as-so-lu-ta-men-te prov-vi-so-ria" e scandì le due ultime parole come premessa di grande importanza.
Drogo non sapeva che cosa dire.
"Da un giorno all'altro io aspetto di partire" continuava Prosdocimo.
"Se non fosse per il signor colonnello che non vuole lasciarmi andare… Ma che cosa avete voialtri da ridere?"
Nella penombra infatti si era sentito il riso soffocato dei tre aiutanti; adesso avevano chinato la fronte, esageratamente intenti al lavoro. Il vecchietto continuava a scrivere, facendo parte a se stesso.
"Che cosa c'era da ridere? " ripeté Prosdocimo. "Siete dei tipi un po' troppo svelti voi. Un giorno o l'altro ve n'accorgerete."
"Già" disse Drogo "che cosa c'era da ridere?"
"Sono degli stupidi" disse il sarto. "È meglio non badarci."
In quel momento si udì un passo scendere dalle scale e comparve un soldato. Prosdocimo era chiamato di sopra, dal maresciallo del magazzino vestiario. "Mi scusi, signor tenente" fece il sarto. "È una faccenda di servizio. Fra due minuti sono di ritorno. " E seguì il soldato di sopra.
Drogo si sedette preparandosi ad aspettare. I tre aiutanti, partito il padrone, avevano interrotto il lavoro. Il vecchietto finalmente levò gli occhi dalle sue carte si alzò in piedi, si avvicinò zoppicando a Giovanni. "L'ha sentito? " gli chiese con strano accento, facendo un segno ad indicare il sarto che era uscito. "L'ha sentito? Sa, signor tenente, da quanti anni è qui alla Fortezza?"
"Mah, non saprei…"
"Quindici anni, signor tenente, quindici maledettissimi anni, e continua a ripetere la solita storia: sono qui in via provvisoria, da un giorno all'altro aspetto…"
Qualcuno borbottò al tavolo degli aiutanti. Doveva essere quello il loro abituale oggetto di riso. Il vecchietto non ci badò nemmeno.
"E invece non si muoverà mai" disse. "Lui, il signor colonnello comandante e molti altri resteranno qui fino a crepare, è una specie di malattia, stia attento lei, signor tenente, che è nuovo, lei che è appena arrivato, stia attento finché è in tempo…"
"Stare attento a che cosa?"
"Ad andarsene appena può, a non prendere la loro mania. " Drogo disse: "Io sono qui per quattro mesi soltanto, non ho la minima intenzione di rimanere".
Il vecchietto disse: "Stia attento lo stesso, signor tenente. Ha cominciato il signor colonnello Filimore. Si preparano grandi eventi, ha cominciato a dire, me lo ricordo benissimo, saranno diciotto anni. Proprio "eventi" diceva. Questa è la sua frase. Si è messo in mente che la Fortezza è importantissima, molto più importante di tutte le altre, che in città non capiscono niente". Parlava adagio, tra una parola e l'altra faceva in tempo ad insinuarsi il silenzio. "Si è messo in mente che la Fortezza è importantissima, che deve succedere qualcosa."
Drogo sorrise. "Che succeda qualcosa? Vuol dire una guerra?"
"Chi lo sa, può darsi, anche una guerra."
"Una guerra dalla parte del deserto?"
"Dalla parte del deserto, probabilmente" confermò il vecchietto.
"Ma chi? chi dovrebbe venire?"
"Cosa vuole che io ne sappia? Non verrà nessuno, si capisce. Ma il signor colonnello comandante ha studiato le carte, dice che ci sono ancora i Tartari, dice, un resto dell'antico esercito che scorrazza su e giù. " Nella penombra si udì un ghignare ebete dei tre aiutanti.
"E sono ancora qui che aspettano" proseguì il vecchietto. "Guardi il signor colonnello, il signor capitano Stizione, il signor capitano Ortiz, il signor tenente colonnello, ogni anno ha da succedere qualcosa, sempre così, fino a che li metteranno a riposo. " Si interruppe, piegò la testa da un lato come per ascoltare. "Mi pareva di sentire dei passi" disse. Ma non si udiva nessuno.
"Non sento niente" fece Drogo.
"Anche Prosdocimo! " disse il vecchietto. "È semplice maresciallo, sarto reggimentale, ma si è messo con loro. Anche lui aspetta, sono già quindici anni… Ma lei non è persuaso, signor tenente, lo vede, lei sta zitto e pensa che sono tutte storie. " Aggiunse, quasi supplichevole: "Stia attento, le dico, lei si lascerà suggestionare, anche lei finirà per restare, basta guardarlo negli occhi". Drogo taceva, gli pareva indegno di un ufficiale confidarsi con un così povero uomo.
"Ma lei" disse "e lei cosa fa allora?"
"Io? " fece il vecchietto. "Io sono suo fratello, sto qui a lavorare con lui."
"Suo fratello? Suo fratello maggiore?"
"Già" il vecchietto sorrise "fratello maggiore. Anch'io ero militare una volta, poi mi sono rotto una gamba, sono ridotto a questo. " Nel silenzio sotterraneo Drogo allora sentì i colpi del proprio cuore che si era messo a battere forte. Dunque anche il vecchietto rintanato nella cantina a fare conti, anche quell'oscura e umile creatura aspettava un destino eroico? Giovanni lo fissava negli occhi e l'altro scosse un poco la testa con amara mestizia, come a significare di sì, che non c'era proprio rimedio: così siamo fatti - pareva dire- e mai più guariremo.
Forse perché in qualche parte delle scale era stata aperta una porta, adesso si udivano, filtrate dai muri, lontane voci umane di indeterminabile origine; ogni tanto cessavano lasciando un vuoto, poco dopo raffioravano ancora, andavano e venivano, come lento respiro della Fortezza. Ora Drogo finalmente capiva. Egli fissava le ombre multiple delle uniformi appese, che tremolavano all'oscillare dei lumi e pensò che in quel momento preciso il colonnello, nel segreto del suo ufficio, aveva aperto la finestra verso il nord. Era certo: in un'ora così triste come quella per il buio e l'autunno, il comandante della Fortezza guardava verso il settentrione, verso le nere voragini della valle. Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l'avventura, l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita. Non si erano adattati alla esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima.
Forse anche Tronk, probabilmente. Tronk inseguiva gli articoli del regolamento, la disciplina matematica, l'orgoglio della responsabilità scrupolosa e si illudeva che ciò gli bastasse. Pure se gli avessero detto: sempre così fino che vivi, tutto uguale fino in fondo, anche lui si sarebbe svegliato. Impossibile, avrebbe detto. Qualche cosa di diverso dovrà pur venire, qualche cosa di veramente degno, da poter dire: adesso, anche se è finita, pazienza.
Drogo aveva capito il loro facile segreto e con sollievo pensò di esserne fuori, spettatore incontaminato. Fra quattro mesi, grazie a Dio, egli li avrebbe lasciati per sempre. Gli oscuri fascini della vecchia bicocca si erano ridicolmente dissolti. Così pensava. Ma perché il vecchietto continuava a fissarlo e con quell'espressione ambigua? Perché Drogo sentiva il desiderio di fischiettare un poco, di bere vino, di uscire all'aperto? Forse per dimostrare a se stesso di essere veramente libero e tranquillo?