Togliere! Togliere! Togliere! (1)
Non ho avuto, anzitutto per ragioni anagrafiche, la fortuna di conoscere Bruce Lee di persona. Ho visto i suoi film, letto i suoi libri, conosciuto alcuni allievi di suoi allievi sparsi per il mondo. Ho anche incontrato atleti che lo hanno descritto come fosse un vero dio. La mia competenza in fatto di arti marziali è sempre stata molto limitata, e l'unica arte che abbia mai praticato è il tai chi chuan. A quanto ne so, ahimè, con i maestri sbagliati, anche se grazie da quest'antichissima e nobile disciplina ho imparato una cosa per me fondamentale, e cioè che la prima forma di difesa personale è rappresentata dal coltivare e accrescere la propria energia. Per queste ragioni, forse, la mia visione di Bruce Lee è innanzitutto quella di un maestro spirituale. Una guida, un uomo di un genere superiore alla norma che ha lasciato alcune indicazioni fondamentali, non solo per combattere ma anche per vivere, e soprattutto per accrescere la propria energia personale.
Più o meno nelle stesse settimane in cui girava I tre dell'Operazione Drago, Bruce lavorava a un manoscritto, una sorta di saggio che avrebbe dovuto raccogliere buona parte del suo pensiero. Influenzato dal Tao, dallo Zen e dal Confucianesimo, le pagine di questo libro (di cui esistono molteplici versioni) affrontano costantemente uno dei temi principali cari alla tradizione orientale: l'abbandono del sé, lo svuotamento assoluto che è liberazione della mente. La natura spontaneamente fluida dell'essere umano può manifestarsi solo se l'ego – uno dei feticci della tradizione occidentale – viene dissolto. La volontà per Bruce non è la banale forza di volontà come spesso la intendiamo noi, nati e cresciuti dove “il sole tramonta”. Essa agisce anzitutto su noi stessi, disgregando conflitti ed emozioni estranee, forze potentemente autodistruttive. La sua concezione quasi mistica del kung fu metteva la calma e la tranquillità al centro di tutto, affinché si potesse svolgere il ritmo naturale delle cose. Un pulsare potente, supremo addirittura, che sentimenti come gelosia, invidia, orgoglio, vanità, odio, paura danneggiano continuamente.
Il qui e ora devono diventare i nostri unici riferimento: non c'è spazio per il rancore, per lo struggimento, per la nostalgia o per l'ansia di quanto ancora deve venire. Anche se non sono mai stato un praticante di Jeet Kune Do, ho ritrovato in questi princìpi ispiratori la quadratura del mio cerchio, quella soluzione che per anni ho cercato e che necessitava di risposte concrete. Lee non è stato l'unico maestro che ho incontrato, ma è stato certamente uno dei più significativi. Mi ha conquistato il fatto di avere mostrate queste risposte attraverso la danza d'acciaio di Bruce, e leggendo e studiando i suoi scritti ho potuto comprendere che cosa la animasse davvero. Di tutto l'edificio filosofico di Bruce Lee, forse quello che può maggiormente sorprendere un lettore occidentale è la sua spiazzante concezione di sintonia, di armonia con l'avversario. Chi pratica il kung fu ha come somma aspirazione quella di realizzare questa apparentemente paradossale armonia. Bruce è chiarissimo su questo punto e arriva a dire che bisogna “arrendersi alla forza dell'avversario”. Com'è possibile, letteralmente, non creare “conflitto” con un avversario, che magari è pronto a fracassarci la testa? Il miracolo si compie attraverso il wu wei, che significa mancanza di azione, o per meglio dire mancanza di sforzo. Il vero praticante di kung fu agisce per promuovere lo “spontaneo sviluppo del suo avversario, e non cerca di interferire di propria iniziativa”. Lo stato di riposo e lucidità garantito dal wu wei diviene quindi il contesto ideale perché la vera azione – quella senza sforzo – abbia luogo.
Arrendersi non significa farsi sconfiggere passivamente, questo è ovvio, ma in qualche modo assecondare. Solo se sei in empatia con il tuo avversario potrai anticiparlo e, ricordiamolo sempre, uno dei motti preferiti di Bruce era proprio “anticipa il tuo avversario”.
È anche importante comprendere che il trionfo non è il trionfo personale ma il ristabilimento dell'equilibrio. Asservendosi, con profonda umiltà, a questo credo si può trarre molta energia. Una quantità enorme di energia. Nessuna resistenza mentale o fisica frena allora il pugno. Il calcio va a segno lì dove deve andare, in uno scorrere continuo e quasi divino. Per questo le traiettorie dei colpi sono essenziali, e non c'è spazio per le vanitose esibizioni. Il concetto di bello assume un significato supremo, affine a quello che è in natura, dove tutto è bello perché necessario ed efficiente. Di fatto non esiste colui che agisce, ma solo l'azione. Non esiste colui che sferra un pugno, ma soltanto il pugno.
Un esempio riportato più volte da Bruce riguardo questa “armonia con l'avversario” è efficace quanto piuttosto crudo. Chi pratica il kung fu, ci dice, è come il macellaio che taglia la carne lungo le ossa, per evitare di rovinare il coltello che adopera. Se il suo coltello andasse contro la disposizione di fibre e strutture ossee dell'animale, in breve si danneggerebbe irrimediabilmente. Assecondare l'avversario significa conservare un continuo movimento. Non a caso il gioco di gambe è per Bruce un fatto imprescindibile, una vera e propria arte da coltivare e perfezionare quotidianamente. Questa fluidità permette di non distinguere tra avversario e se stessi, tra vincitore e sconfitto. Non dominio ma movimento, non lotta ma ricerca dell'equilibrio. Un approccio talmente complesso e affascinante che non richiede quasi alcuno sforzo per affermarsi come una metafora della vita stessa.
Vi lascio questo piccolo esercizio da svolgere: scoprire come gli insegnamenti di Bruce Lee possano applicarsi a problemi anche molto diversi da un aggressore che vuole derubarci all'angolo della strada. Affrontare i problemi di petto “per risolverli” è un modo di fare tipicamente occidentale, e che, nonostante porti quasi sistematicamente a fallimenti o, bene che vada, a stati di frustrazione o sfinimento, continuiamo cocciutamente ad adottare. Per Bruce i problemi vanno danzati, bisogna muoversi ritmicamente insieme a loro, comprendere i loro cicli e le loro ragioni.
Un buon praticante di Jeet Kune Do è un artista e un filosofo, un individuo che vuole realizzarsi anzitutto nella vita. Egli non oppone mai forza contro forza, non reagisce ma agisce, cerca continuamente la libertà originaria, fatta di semplicità. Non si arrende. Egli non ha tecnica perché si adatta a quanto ha davanti: possiede quindi tutte le tecniche, ma senza norme e istruzioni sempre uguali. Ogni combattimento, così come ogni situazione nella nostra vita, è diverso, e il combattente di Jeet Kune Do è consapevole che prima di cominciare qualsiasi incontro non sa quali mosse userà, ma solamente che dovrà essere presente, che dovrà cercare il qui e ora. Lo svolgimento dell'incontro sarà una sorta di “manifestazione dell'eliminazione quotidiana” praticata in allenamento. Togliere, urlava Bruce ai suoi allievi che non arrivavano all'essenza di un calcio o di un pugno: togliere! Il surplus di conoscenza, di tecniche, di schemi mentali e fisici dovrà scivolare via come l'acqua, alla ricerca della flessibilità più pura. Osservare e agire sono le uniche cose che un praticante di Jeet Kune Do deve fare. Dal mio modesto punto di vista, è anche ciò che ogni essere umano dovrebbe fare sempre.
Con l'enorme onestà di cui era capace, Bruce dichiarava di non aver mai “inventato” alcuno stile. Nella sua concezione superiore il Jeet Kune Do fu sempre concepito come uno specchio, in cui vige l'abbandono delle regole e dei metodi classici. Non avere forma, affidarsi costantemente all'intuizione, far lavorare il vibrante istinto che è dentro tutti noi sono le sole regole prescritte, perché “nessun tipo di conoscenza prestabilita o di insegnamento segreto può essere paragonato alla chiarezza della comprensione”. Per dirla con le parole di un famoso maestro zen: “Non c'è niente da cercare. Tu sei già”.
Ma Bruce Lee non era uno sprovveduto. All'epoca della sua ascesa già molti in Occidente pensavano di aver “afferrato” i concetti basi dell'Oriente, e li applicavano senza competenza, magari organizzando sedute di gruppo o meeting di meditazione. La California, in particolare, sembrava essere una sorta di laboratorio in perenne fermento. La cosiddetta controcultura, che poi si sarebbe trasformata in parte nella corrente new age, faceva molti proseliti, alimentando non pochi equivoci e mischiando come in un alambicco senza regole Oriente e Occidente, idee nuove e vecchissime.
L'idea per esempio che la meditazione sia una maniera per escludere il mondo esterno, per rifugiarsi nella propria interiorità, scaturisce oggi come allora da fraintendimenti grossolani e da una sostanziale ignoranza. Ritirarsi dentro di sé, scacciare i pensieri, svuotare la mente come fosse un secchio della spazzatura sono espressioni di una semplificazione tanto puerile quanto pericolosa che niente ha a che vedere con lo Zen.
Ci sono per Bruce tre errori fondamentali che vengono compiuti purtroppo anche dai praticanti più volenterosi, ancora però troppo lontani dall'essenza del Tao e dello Zen. Ho intenzione di elencarli perché costituiscono una sorta di check list davvero molto utile per ognuno di noi.
Essi sono:
1. L'invenzione di un sé empirico che osserva se stesso (una degenerazione di natura nevrotica del cosiddetto terzo occhio presente nel buddhismo); 2. Il fatto di considerare il pensiero come un oggetto, da manipolare, spostare, cancellare;
3. Lo sforzo, vano e paradossale, di pulire lo specchio, cioè la mente.
Un altro errore molto diffuso è il culto della routine quotidiana. Molte persone, in effetti, si applicano con grande impegno a realizzare operazioni ogni giorno identiche (Bruce le paragona al “succhiarsi il pollice”), sperando che questo li “autocostruisca”, anche se si tratta solo di un rigido gioco, perverso e confortante. Bruce sa bene che l'aiuto esterno, da parte di chiunque, non esiste, che è solo l'ennesima chimera consolatoria. Per quanto possa apparire crudo, la verità è che nessuno può veramente aiutarti. Il solo aiuto che esiste veramente è l'autoaiuto, che scaturisce dall'impegno, dall'onestà, dalla voglia di scoprire le cause della propria ignoranza, dalla dedizione quasi ossessiva, e dalla comprensione del principio del continuo divenire. Il fine ultimo, per questo, è divenire vuoti, cioè essere nella maniera più piena che sia concepibile. Proprio come la coppa che abbiamo citato e che era una delle immagini preferite di Bruce Lee.
Voglio chiudere questo breve e parziale racconto con una contraddizione di Bruce, dal momento che le contraddizioni, come ho cercato di sottolineare, sono forse il suo tratto più misterioso e affascinante.
Oriente e Occidente, ambizione e umiltà zen, menzogna e onestà, sete di successo e dedizione al lavoro fino allo sfinimento, giusto per citarne qualcuna.
Voglio soffermarmi però sul suo modo di gridare mentre distruggeva letteralmente il suo avversario. Il suo urlo metteva i brividi. Era un misto di furore divino e compiacimento demoniaco. Il kiai – così si chiama – è l'urlo di battaglia tipico del kung fu, e in genere delle arti marziali. Il suo significato è più o meno “congiunzione dell'energia vitale”, perché è attraverso questo grido che le energie dell'atleta si concentrano, fisicamente e psicologicamente, per colpire e resistere a un attacco. Il kiai è il verso del dio guerriero che si incarna nell'uomo, trasformando un corpo fatto di carne e sangue in un'arma inarrestabile. Lee perfezionò il suo kiai affinché diventasse terrificante e mettesse angoscia. Ma, si noti bene, egli lo emetteva solo davanti a una macchina da presa. In palestra, durante gli allenamenti, con i suoi allievi, nel corso di molti combattimenti reali, rimaneva in silenzio oppure parlava, spiegando i movimenti.
Perché? Molto probabilmente perché non aveva bisogno di gridare, perché Bruce era già la congiunzione dell'energia vitale, sempre, in ogni momento, e non aveva alcuna necessità di formule speciali per evocarla. E poi, quando combatteva, non era la furia a possederlo, ma lui a possedere la furia più cieca.
Si tratta a mio avviso di un paradosso molto fertile, che illustra bene quante anime si celassero dietro quel genio, quell'istrione, quel talento assoluto e sbruffone che in famiglia, da piccolo, portava un nome da bambina perché il demone non lo portasse via. E che, forse, appena divenne veramente famoso, il demone maligno, in una delle sue incursioni dall'alto, riconobbe davvero e strappò alla vita in una maniera che appare ancora oggi troppo misteriosa. Per alcuni addirittura inspiegabile.
Perfetta, però, per farlo entrare nel mito.