09. Dolore delle dette donne per essergli scampato via l'uccello. [...] Il Re si mostra turbato forte...
Dolore delle dette donne per essergli scampato via l'uccello. Stavano dunque tutte dolenti e malenconiche queste povere madonne per aver perso il detto uccello, e riprendendo la sua curiosità dicevano: "Meschine noi, come avremo più faccia di tornare innanzi al Re, poiché non abbiamo osservato il suo comandamento, né abbiamo solo potuto tener stretto l'uccello per una notte. Misere e sconsolate noi, che animo, che ardire sarà il nostro domattina?" Così passarono tutta quella notte con dolore e angustia, né si sapevano risolvere se dovevano tornare il dì seguente innanzi al Re, o pur starsene a casa.
Risoluzione di donne animose.
Passata la notte e tornato il giorno chiaro, le dette donne si levarono e si ridussero insieme, e come disperate non sapevano che partito si dovessero pigliare circa il tornare più alla presenza del Re, per l'errore commesso; e parimente stavano in dubbio se dovevano tornare dalla Regina, o sì o no; chi diceva a un modo e chi a un altro, chi persuadeva di andare, chi di restare. Al fine, dopo molti parlamenti, si fece innanzi una di loro che aveva un poco più gagliardo il cervello di tutte l'altre e disse: "A che perdere più tempo in far tante chiacchiere fra noi? L'errore è già fatto, né si può coprire, né manco emendare se non con chiedere perdono al Re e confessare liberamente il fatto com'egli sta. Imperocché esso è di natura benigno e massime con le donne, facilmente ci perdonerà; e io sarò la prima andare inanzi. Su, fate buon animo e seguitatemi poiché questa all'ultimo non è morte d'uomo; sarebbe mai egli più che un uccelletto da quattro quattrini il quale è volato via? Venite meco e non temete punto". Altre dicevano che il Re averebbe più a sdegno l'atto della disobedienza, che se esse gli avessero fatto scampar via quanti fagiani e pernici egli si trovava avere nè suoi boschetti e giardini. Al fine, volta e rivolta, si risolsero d'appresentarsi alla Regina e narrargli il fatto, e così fecero. Le donne vanno dalla Regina ed essa le conduce innanzi al Re.
Udendo la Regina simil cosa, restò molto travagliata nell'animo e non sapeva che si dire, né che si fare, temendo di qualche gran disordine; pur fece buon cuore e andò dal Re con tutta questa comitiva di donne, le quali dovevano essere sino a trecento e tutte quante venivano col capo basso e tutte vergognose. Giunto che fu la Regina nella gran sala, salutò il Re ed esso rese a lei il saluto allegramente; poi la fece sedere appresso di sé e gli addimandò che buona nuova la conduceva a lui con tanta compagnia di donne.
La Regina racconta al Re la fuga dell'uccelletto. Disse la Regina: "Sappia tua Maestà ch'io son venuta qui dinanzi alla tua Corona con queste nobilissime madonne per la risposta della domanda fatta a te per via d'entrare ancor esse nè negozi e offici istessi che hanno quei del Senato; alle quali avendo tua Maestà mandato quella scatola con espressa commissione ch'elle non l'aprissero in modo alcuno e tornarla a lei nel modo ch'ella gli era stata data, ora una più curiosa dell'altre avendo desiderio di vedere quello che vi si rinchiudeva dentro, l'aperse non pensando più oltre; e l'uccello subito scampò via; onde elle sono restate tanto addolorate di simil fatto ch'elle non ardivano di levar più la testa, né mirarti in viso per la gran vergogna ch'elle hanno per aver trasgredito il precetto regale. Tu dunque, che sempre fosti benigno e clemente verso tutti, perdona loro, pregoti, tale errore, che non per disubbidire a tua Maestà, ma per un loro curioso desiderio hanno fatto simil fallo. Eccole qui pentite e dolenti innanzi a te, ch'elle ti chiedono umilmente perdono". Il Re si mostra turbato forte e riprende le donne di tal fatto, poi gli perdona e le manda a casa.
Allora il Re mostrando avere a sdegno simil fatto, volto a loro con un viso turbato, disse: "Voi vi siete dunque lasciato scampare l'uccello fuori della scatola? Ahi, femine sciocche e di poco cervello! e poi avete ardimento di voler entrare nè consigli segreti della mia corte? Or come potreste, ditemi voi, tenere un secreto, dove andasse l'interesse dello stato mio e della vita degli uomini, se un'ora intiera non avete potuto tener serrato una scatola, la quale io ho raccommandata con tanta instanza? Tornate dunque ai vostri esercizi e ad aver cura delle vostre famiglie e governare le case vostre, come è solito vostro, e lasciate il governo della città agli uomini. Io so che le cose andrebbono per i loro piedi, s'elle avessero a passare per le vostre mani: non vi sarebbe cosa tanto secreta e occulta che non si sapesse in un'ora per tutta la città. Orsù, levatevi su, ch'io vi perdono, e andate alle case vostre e non entrate mai più in simil frenetico". Poi licenziò similmente la Regina, facendola accompagnare sino alle sue stanze da molti cavalieri. Così si partirono quelle povere donne tutte di mala voglia, né mai più parlarono di entrare in consiglio, né di balottare o mettere fave, essendo elle state balottate per sempre dal Re per opera però dell'astuto Bertoldo, al quale il Re rivolto, ridendo, disse: Re.
Questa è stata una bellissima invenzione, ed è riuscita molto bene.
Bertoldo. Ben vada la capra zoppa, fin che nel lupo ella s'intoppa. Re.
Perché dici tu questo?
Bertoldo. Perché donna, acqua e fuoco per tutto si fan dar luoco.
Re.
Chi ha il seder nell'ortica, spesse volte gli formica. Bertoldo. Chi sputa contra il vento si sputa nel mostaccio.
Re.
Chi piscia sotto la neve forza è che si discopra.
Bertoldo. Chi lava il capo all'asino perde la fatica e il sapone. Re.
Parli tu forsi così per me?
Bertoldo. Per te parlo apunto e non per altri.
Re.
Di che cosa ti puoi tu doler di me?
Bertoldo. Di che poss'io lodarmi? Re.
Dimmi in che cosa tu ti senti aggravato da me.
Bertoldo. Io ti sono stato coadiutore in cosa di tanta importanza e tu in cambio di assicurarmi della vita mi dai la burla.
Re.
Io non son tanto ingrato ch'io non conosca i tuoi meriti. Bertoldo. Il conoscerli è poco, il tutto è il riconoscerli.
Re.
Taci, ch'io ti voglio rimunerare in guisa ch'io voglio che tu stia sempre a piè pari. Bertoldo. Anco quelli che sono appiccati stanno a piè pari.
Re.
Tu interpreti ogni cosa alla roversa.
Bertoldo. Chi dice così l'indovina quasi sempre. Re.
Tu dici male e fai male ancora.
Bertoldo. Che male faccio io nella tua corte?
Re.
Tu non hai punto di civiltà né di creanza.
Bertoldo. Ch'importa a te s'io son ben creato o scostumato? Re.
M'importa assai, perché troppo villanescamente ti porti meco. Bertoldo. La causa?
Re.
Perché quando tu vieni alla presenza mia mai non ti cavi il cappello e non t'inchini. Bertoldo. L'uomo non deve inchinarsi all'altr'uomo. Re.
Secondo le qualità degli uomini si devono usare le creanze e le riverenze.
Bertoldo. Tutti siamo di terra, tu di terra, io di terra, e tutti torneremo in terra; e però la terra non deve inchinarsi alla terra.
Re.
Tu dici il vero, che tutti siamo di terra; ma la differenza qual è fra te e me non è altro se non che, sì come d'un'istessa terra si fanno varii vasi, parte che in essi tengono liquori preciosi e odoriferi e altri che servono a esercizi vili e negletti, così io sono uno di quelli che rinchiudono in sé balsami, nardi e altri liquori preciosi, e tu uno di quelli nei quali s'orina e vi si fa peggio ancora: e pure tutti sono fabricati da una mano istessa e d'un'istessa terra. Bertoldo. Questo non ti nego, ma ben ti dico che tanto sono fragili l'uno quanto l'altro, e quando ambo son rotti i pezzi si gettano là per le strade e dall'uno all'altro non si fa differenza alcuna. Re.
Orsù, sia come si voglia, io voglio che tu t'inchini a me. Bertoldo. Io non posso far questo, abbi pazienza.
Re.
Perché non puoi?
Bertoldo. Perché io ho mangiato delle pertiche di salice e però non vorrei scavezzarle nel piegarmi.
Re.
Ah, villan tristo, io voglio al tuo dispetto che tu t'inchini, come tu torni alla presenza mia. Bertoldo. Ogni cosa può essere, ma duro gran fatica a crederlo.
Re.
Domattina si vedrà l'effetto; va' pur a casa per questa sera.