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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE PRIMA - 3. Il gran passo (parte 2)

PARTE PRIMA - 3. Il gran passo (parte 2)

Furono le proteste violente di Franco che fecero voltare così precipitosamente strada al signor Giacomo. Luisa le appoggiò e la signora Teresa, che forse adesso avrebbe pure inclinato a una dilazione, non osò contraddire. «Luisa, Franco», diss'ella. «Riconducetemi in salotto.»

I due giovani spinsero insieme, seguiti dallo zio e dal signor Giacomo, la poltrona nel salotto. Nel passar la soglia Luisa si chinò, baciò la mamma sui capelli e le sussurrò: «vedrai che tutto andrà bene». Ella credeva di trovar il curato in salotto, ma il curato se l'era svignata per la cucina. Appena Franco e Luisa ebbero accostata la mamma al tavolo dov'era il lume, capitò il sagrestano ad avvertire che tutto era pronto. Allora la signora Teresa lo pregò di annunciare al curato che gli sposi sarebbero andati in chiesa fra mezz'ora. «Luisa», diss'ella, fissando sua figlia con uno sguardo significante. «Sì, mamma», rispose questa; e riprese a voce più alta volgendosi al suo fidanzato: «Franco, la mamma desidera parlarti.» Il signor Giacomo capì e uscì sulla terrazza. L'ingegnere non capì nulla e sua nipote dovette spiegargli che bisognava lasciar la mamma sola con Franco. L'uomo semplice non ne intendeva bene il perché: allora ella gli prese sorridendo un braccio e lo condusse fuori. La signora Teresa stese in silenzio la sua bella mano ancora giovane, a Franco, che s'inginocchiò per baciarla. «Povero Franco!», diss'ella dolcemente. Lo fece alzare e sedere vicino a sé. Doveva parlargli, disse; e si sentiva tanto poca lena! Ma egli capirebbe molto, anche da poche parole: «Minga vera?» Così dicendo la voce fioca ebbe una soavità infinita. «Sai», cominciò, «questo non avevo pensato a dirtelo, ma mi è venuto in mente quando tu raccontavi del piatto che hai rotto a tavola. Ti prego di avere riguardo alla situazione dello zio Piero. Egli pensa, nel suo cuore, come te. Se tu avessi veduto le lettere che mi scriveva nel 1848! Ma è impiegato del Governo. Vero che si sente tranquillo nella sua coscienza perché, occupandosi di strade e di acque, sa che serve il suo paese e non i tedeschi; ma certi riguardi vuole e deve averli. Fino a un dato punto bisogna che li abbiate anche voi per amor suo.» «I tedeschi andranno via presto, mamma», rispose Franco, «ma sta tranquilla, sarò prudente, vedrai.» «Oh caro, io non ho più niente da vedere. Non ho che a vedervi voi altri due uniti e benedetti dal Signore. Quando i tedeschi saranno andati via, verrete a dirmelo a Looch.» Portano il nome di Looch i praticelli ombrati di grandi noci dove sta il piccolo camposanto di Castello. «Ma ti devo parlare di un'altra cosa», proseguì la signora Teresa senza lasciar a Franco il tempo di far proteste. Egli le prese le mani, gliele strinse trattenendo a fatica il pianto. «Bisogna che ti parli di Luisa», diss'ella. «Bisogna che tu conosca bene tua moglie.» «La conosco, mamma! La conosco quanto la conosci tu e più ancora!» Egli ardeva e fremeva tutto, così dicendo, nell'appassionato amore per lei ch'era la vita della sua vita, l'anima dell'anima sua. «Povero Franco!», fece la signora Teresa teneramente, sorridendo. «No, ascoltami, vi è qualche cosa che non sai e che devi sapere. Aspetta un poco.»

Aveva bisogno di una sosta, l'emozione le rendeva il respiro difficile e più difficile il parlare. Fece un gesto negativo a Franco che avrebbe pur voluto adoperarsi, aiutarla in qualche modo. Le bastava un po' di riposo e lo prese appoggiando il capo alla spalliera della poltrona. Si rialzò presto. «Avrai inteso parlar male», disse, «del povero mio marito, a casa tua. Avrai inteso dire ch'era un uomo senza principii e che ho avuto un gran torto a sposarlo. Infatti egli non era religioso e questa fu la ragione per cui esitai molto prima di decidermi. Sono stata consigliata di cedere perché potevo forse influire bene sopra di lui che aveva un'anima nobile. È morto da cristiano, ho tanta fede di trovarlo in paradiso se il Signore mi fa questa grazia di prendermi con sé; ma fino all'ultima ora parve che non ottenessi nulla. Bene, temo che la mia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Me le nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando, studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore, se io non ho saputo far bene con lei, tu fa meglio, sei un buon cristiano, guarda che lo sia anche lei, di cuore; promettimelo, Franco.»

Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i timori di lei e facesse, per compiacenza, una promessa superflua. L'ammalata lo guardò, triste. «Credimi, sai», soggiunse, «non sono fantasie. Non posso morire in pace se non la prendi come una cosa seria.» E poi che il giovane ebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiunse:

«Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casarico dal professor Gilardoni, non è vero?» «Ma, questo era il piano di prima. Dovevo dire alla nonna che andavo a dormire da Gilardoni per fare poi una gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sono venuto via.» «Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gilardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due anni or sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l'avrà detto?» «Sì, mamma.» Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da eremita, si era molto romanticamente innamorato, qualche anno prima, della signora Teresa e le si era timidamente, riverentemente proposto per marito, ottenendo un tale successo di stupore da togliergli poi il coraggio di ricomparirle davanti. «Povero uomo!», riprese la signora Rigey. «Quella è stata una stupidità grande, ma è un cuor d'oro, un buon amico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venisse quell'accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Non te la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene se non te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, in certi casi, aver molta importanza per voi altri, specialmente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaci prima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosa non come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zio Piero e poi parla o non parla, secondo la strada che vorrai prendere.» «Sì, mamma.» Si picchiò all'uscio, sommessamente, e la voce di Luisa disse: «È finito?» Franco guardò l'ammalata. «Avanti», diss'ella. «È ora di andare?» Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo di Franco. S'inginocchiarono insieme davanti alla mamma, le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzo per trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evitare alla mamma ogni emozione troppo forte, ma le spalle la tradivano. «No, Luisa», disse la mamma, «no, cara, no», e le accarezzava il capo. «Ti ringrazio che sei sempre stata una buona figliuola, sai; tanto buona; quietati; son così contenta; vedrai che starò meglio. Andate dunque; datemi un bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato. Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco.» Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, fece aprire le finestre e l'uscio della terrazza per respirar meglio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerle compagnia. Usciti gli sposi, entrò l'ingegnere per salutar sua sorella prima di andare in chiesa. «Ciao, neh, Teresa.» «Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, povero Piero.»

«Amen», rispose pacificamente l'ingegnere. Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il rumor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suo fratello e del signor Giacomo, la coda della colonna, non le lasciavano udire gli altri ch'ella avrebbe voluto accompagnar con l'orecchio quanto era possibile. Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l'idea che Luisa e Franco si allontanavano insieme nell'avvenire dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi o forse per pochi giorni; e che non poteva indovinar niente, presentir niente del loro destino. «Poveri ragazzi», pensò. «Chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fra dieci anni!» Stette ancora in ascolto, ma il silenzio era profondo; non entrava per le finestre aperte che il fragor lontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago. Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese il suo libro di preghiere e lesse con fervore. Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa, le si confusero alla vista anche i caratteri del libro. La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Presentiva una visione di cose non vere e sapeva di non dormire, comprendeva che non era sogno, ch'era uno stato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l'uscio che metteva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio, detto «el Carlin de Dàas», padre del professore, agente di casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da venticinque anni. La figura entrò e disse in tono naturale: «Oh sciora Teresa, la sta ben?». Ella credette di rispondere: «Oh Carlin! Bene e voi?», ma in fatto non aperse bocca. «Ghe l'hoo chì la lettra», riprese la figura agitando trionfalmente una lettera. «L'hoo portada chì per Lee.» E posò la lettera sul tavolo. La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo, senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa. Le parve dire: «Grazie, Carlin. E adesso andate a Dasio?». «Sciora no», rispose il Carlin. «Voo a Casarech dal me fioeu.»L'ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora la lettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non era certa che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l'idea vaga di altre allucinazioni passate, l'idea della malattia sua nemica, sua padrona violenta. Aveva l'occhio vitreo, la respirazione penosa e frequente. Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasi del tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitarono in camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il paralume della lucerna, che la fisionomia della mamma fosse stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono di baci, attribuirono all'emozione quel respiro affannoso. A un tratto l'ammalata sollevò il capo dalla spalliera della poltrona, tese le mani avanti, guardando e indicando qualche cosa. «La lettera», diss'ella. I due giovani si voltarono e non videro niente. «Che lettera, mamma?», disse Luisa. Nello stesso punto notò l'espressione del viso di sua madre, diede un'occhiata a Franco per avvertirlo. Non era la prima volta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva di allucinazioni. All'udirsi domandare «che lettera?» ella capì, fece «oh!», ritirò le mani, se ne coperse il viso e pianse silenziosamente. Confortata dalle carezze dè suoi figli, si ricompose, li baciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo, che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e accennò a Luisa di andar a pigliar qualche cosa. Si trattava di una torta e di una bottiglia preziosa di vino di Niscioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dal marchese Bianchi che aveva per la signora Rigey una singolare venerazione. Il signor Giacomo, non vedendo l'ora di svignarsela, incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l'ingegnere. «Signora Luisina», diss'egli vedendo uscire la novella sposa. «La scusa, son propramente per domandar licenza...» «No, no», lo interruppe con un fil di voce la signora Teresa, «aspetti un poco.»

Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori dalla stanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presa da uno scrupolo, accennò a richiamarlo. «Ma cosa mai!», fece l'ingegnere. «Ma, Piero!»

«Ma cosa?» Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sottile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religioso perché gli sposi non avevano ancora assistito alla messa della benedizione nuziale, impedivano alla signora Teresa di approvare che i giovani si appartassero e insieme di spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcale dello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiami senza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette. «Per sempre!», mormorò dopo un momento come parlando fra sé. «Uniti per sempre!» «Nualtri», disse l'ingegnere rivolgendosi in dialetto veneto al suo collega nel celibato, «nualtri, sior Giacomo, de ste buzare no ghe ne femo.» «Sempre de bon umor, Ela, ingegnere pregiatissimo», rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva che aveva fatto delle «buzare» peggiori. Gli sposi non ritornavano. «Signor Giacomo», riprese l'ingegnere, «per questa notte, niente letto.» L'infelice si contorse, soffiò e batté le palpebre senza rispondere. E gli sposi non ritornavano. «Piero», disse la signora, «suonate il campanello.» «Signor Giacomo», fece l'ingegnere senza scomporsi, «dobbiamo suonare il campanello?» «L'idea de la signora Teresa pare propramente questa», rispose l'omino navigando alla meglio tra il fratello e la sorella. «Però mi no digo gnente.» «Piero!», insistette la signora. «Ma insomma», riprese suo fratello senza muoversi. «Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello, o non lo suonerebbe?» «Oh Dio!», gemette il Puttini. «La me dispensa.» «Non La dispenso un corno.» Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più inquieta, ricominciava: «Ma suonate, dunque, Piero!» Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarsene e non poteva andarsene senza salutar gli sposi, incoraggiato dall'insistere della signora, fece uno sforzo, diventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: «Mi sonaria.» «Caro signor Giacomo», disse l'ingegnere, «mi stupisco, mi sorprendo e mi meraviglio.» Chi sa perché, quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno di quei sinonimi, li infilzava tutti e tre. «Però», conchiuse, «suoniamo.» E suonò molto discretamente. «Sentite, Piero», disse la signora Teresa. «Ricordatevi bene che adesso, quando partite voi, deve partire anche Franco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa.» «Oh povero me!», fece lo zio Piero. «Quante miserie! Insomma, sono marito e moglie, sì o no? Bene bene bene», soggiunse, perché sua sorella si inquietava. «Fate tutto quello che volete, ecco.» Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta e la bottiglia e disse all'ingegnere che la signora Luisina lo pregava di uscire un momento sulla terrazza. «Adesso che viene un po' di grazia di Dio, mi mandate fuori», disse l'ingegnere. Egli scherzava, con la solita serenità di spirito, forse non comprendendo bene lo stato grave di sua sorella, forse per certa sua naturale disposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile. Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco. «Senti, zio», diss'ella, «mio marito dice che certo la nonna scoprirà tutto subito, ch'egli non potrà più stare a Cressogno, che se la mamma fosse in buone condizioni si potrebbe venire da te a Oria, ma che così, pur troppo, non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettere all'ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo studio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?» «Hm!», fece lo zio, che non accettava facilmente le novità. «Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fate una spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che non può durare.»

La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia a Oria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra. Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello finissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo che non si poteva fare altrimenti, che né la spesa né l'incomodo sarebbero stati grandi, che suo marito, quando avesse a uscir di casa, andrebbe difilato a Lugano e ritornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lo zio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi a Oria e starvi fino a quando vi potessero scendere la mamma e lei. «Oh, zio!», fece Luisa. S'ella avesse saputo del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata di una proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualche volta di queste idee ingenue che facevano sorridere sua sorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti contro l'esilio di Franco e ad adoperarli con calore. «Basta», fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le braccia in arco, nell'atto di un Dominus vobiscum più caritatevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere creature umane. « Fiat . Oh, e se occorre», soggiunse volgendosi a Franco, «come stai a quattrini?»

Franco trasalì, s'imbarazzò. «È il nostro papà, sai», gli disse sua moglie. «Papà niente affatto», osservò lo zio, sempre placidamente. «Papà niente affatto, ma quel ch'è mio è vostro, ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondo le mie forze.» E ricevette l'abbraccio commosso dè suoi nipoti senza corrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione superflua, seccato che non accogliessero più semplicemente una cosa tanto semplice e naturale. «Sì, sì», diss'egli, «andiamo a bere ch'è meglio.» Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, delicato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell'impaziente signor Giacomo, che in quegli anni di oïdium ben di rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupamente vin Grimelli di acquosa memoria. « Est, est , non è vero, signor Giacomo?», disse lo zio Piero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bicchiere che teneva in mano. «Qui almeno non c'è pericolo di crepare come quel tale: et propter nimium est dominus meus mortuus est .» «A mi me par de resussitar», rispose il signor Giacomo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando sempre nel bicchiere. «Allora, un brindisi agli sposi!», riprese l'altro, alzandosi. «Se non lo fa Lei, lo farò io:

Viva lü e viva lee E nün andèm foeura d'i pee. Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto e batté molto le palpebre in segno dei vari sentimenti che tumultuavano nell'animo suo mentre l'ultimo aroma e l'ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offerse la sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua devozione alla sposina amabilissima, la sua osservanza allo sposo compitissimo; si schermì, menando le braccia e la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso, e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmente, soffiando con un misto di compiacenza e di rammarico, dietro la mole placida dell'ingegnere pregiatissimo. «E tu, Franco?», chiese subito la signora Teresa. «Vado», rispose Franco. «Vien qua», diss'ella. «Vi ho accolto così male, poveri figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m'era venuto uno dè miei accessi; lo avete ben capito. Adesso mi sento tanto benino, tanto in pace. Signore, Vi ringrazio. Mi pare d'avere messa la casa in ordine, d'avere spento il fuoco, d'aver dette un po' di orazioni e di andar a dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai, caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti lascio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordati anche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce di non vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da dar loro un bacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va', figlio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, addio, va'.» Gli parlava carezzevole, come a un bambino che non capisce ancora ed egli piangeva di tenerezza silenziosamente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Luisa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensa tenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di essere divenuto un solo con la figlia e come un'avidità di amar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza. «Va'», ripeteva mamma Teresa, temendo anche la commozione propria: «va', va'.» Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche stavolta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più sante hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantesca non facesse che andare e venire dalla cucina al salotto, la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d'affetto che le aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare il campanello.

PARTE PRIMA - 3. Il gran passo (parte 2) PART 1 - 3. The big step (part 2)

Furono le proteste violente di Franco che fecero voltare così precipitosamente strada al signor Giacomo. Luisa le appoggiò e la signora Teresa, che forse adesso avrebbe pure inclinato a una dilazione, non osò contraddire. «Luisa, Franco», diss'ella. «Riconducetemi in salotto.»

I due giovani spinsero insieme, seguiti dallo zio e dal signor Giacomo, la poltrona nel salotto. Nel passar la soglia Luisa si chinò, baciò la mamma sui capelli e le sussurrò: «vedrai che tutto andrà bene». Ella credeva di trovar il curato in salotto, ma il curato se l'era svignata per la cucina. Appena Franco e Luisa ebbero accostata la mamma al tavolo dov'era il lume, capitò il sagrestano ad avvertire che tutto era pronto. Allora la signora Teresa lo pregò di annunciare al curato che gli sposi sarebbero andati in chiesa fra mezz'ora. «Luisa», diss'ella, fissando sua figlia con uno sguardo significante. «Sì, mamma», rispose questa; e riprese a voce più alta volgendosi al suo fidanzato: «Franco, la mamma desidera parlarti.» Il signor Giacomo capì e uscì sulla terrazza. L'ingegnere non capì nulla e sua nipote dovette spiegargli che bisognava lasciar la mamma sola con Franco. L'uomo semplice non ne intendeva bene il perché: allora ella gli prese sorridendo un braccio e lo condusse fuori. La signora Teresa stese in silenzio la sua bella mano ancora giovane, a Franco, che s'inginocchiò per baciarla. «Povero Franco!», diss'ella dolcemente. Lo fece alzare e sedere vicino a sé. Doveva parlargli, disse; e si sentiva tanto poca lena! Ma egli capirebbe molto, anche da poche parole: «Minga vera?» Così dicendo la voce fioca ebbe una soavità infinita. «Sai», cominciò, «questo non avevo pensato a dirtelo, ma mi è venuto in mente quando tu raccontavi del piatto che hai rotto a tavola. Ti prego di avere riguardo alla situazione dello zio Piero. Egli pensa, nel suo cuore, come te. Se tu avessi veduto le lettere che mi scriveva nel 1848! Ma è impiegato del Governo. Vero che si sente tranquillo nella sua coscienza perché, occupandosi di strade e di acque, sa che serve il suo paese e non i tedeschi; ma certi riguardi vuole e deve averli. Fino a un dato punto bisogna che li abbiate anche voi per amor suo.» «I tedeschi andranno via presto, mamma», rispose Franco, «ma sta tranquilla, sarò prudente, vedrai.» «Oh caro, io non ho più niente da vedere. Non ho che a vedervi voi altri due uniti e benedetti dal Signore. Quando i tedeschi saranno andati via, verrete a dirmelo a Looch.» Portano il nome di Looch i praticelli ombrati di grandi noci dove sta il piccolo camposanto di Castello. «Ma ti devo parlare di un'altra cosa», proseguì la signora Teresa senza lasciar a Franco il tempo di far proteste. Egli le prese le mani, gliele strinse trattenendo a fatica il pianto. «Bisogna che ti parli di Luisa», diss'ella. «Bisogna che tu conosca bene tua moglie.» «La conosco, mamma! La conosco quanto la conosci tu e più ancora!» Egli ardeva e fremeva tutto, così dicendo, nell'appassionato amore per lei ch'era la vita della sua vita, l'anima dell'anima sua. «Povero Franco!», fece la signora Teresa teneramente, sorridendo. «No, ascoltami, vi è qualche cosa che non sai e che devi sapere. Aspetta un poco.»

Aveva bisogno di una sosta, l'emozione le rendeva il respiro difficile e più difficile il parlare. Fece un gesto negativo a Franco che avrebbe pur voluto adoperarsi, aiutarla in qualche modo. Le bastava un po' di riposo e lo prese appoggiando il capo alla spalliera della poltrona. Si rialzò presto. «Avrai inteso parlar male», disse, «del povero mio marito, a casa tua. Avrai inteso dire ch'era un uomo senza principii e che ho avuto un gran torto a sposarlo. Infatti egli non era religioso e questa fu la ragione per cui esitai molto prima di decidermi. Sono stata consigliata di cedere perché potevo forse influire bene sopra di lui che aveva un'anima nobile. È morto da cristiano, ho tanta fede di trovarlo in paradiso se il Signore mi fa questa grazia di prendermi con sé; ma fino all'ultima ora parve che non ottenessi nulla. Bene, temo che la mia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Me le nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando, studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore, se io non ho saputo far bene con lei, tu fa meglio, sei un buon cristiano, guarda che lo sia anche lei, di cuore; promettimelo, Franco.»

Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i timori di lei e facesse, per compiacenza, una promessa superflua. L'ammalata lo guardò, triste. «Credimi, sai», soggiunse, «non sono fantasie. Non posso morire in pace se non la prendi come una cosa seria.» E poi che il giovane ebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiunse:

«Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casarico dal professor Gilardoni, non è vero?» «Ma, questo era il piano di prima. Dovevo dire alla nonna che andavo a dormire da Gilardoni per fare poi una gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sono venuto via.» «Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gilardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due anni or sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l'avrà detto?» «Sì, mamma.» Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da eremita, si era molto romanticamente innamorato, qualche anno prima, della signora Teresa e le si era timidamente, riverentemente proposto per marito, ottenendo un tale successo di stupore da togliergli poi il coraggio di ricomparirle davanti. «Povero uomo!», riprese la signora Rigey. «Quella è stata una stupidità grande, ma è un cuor d'oro, un buon amico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venisse quell'accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Non te la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene se non te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, in certi casi, aver molta importanza per voi altri, specialmente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaci prima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosa non come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zio Piero e poi parla o non parla, secondo la strada che vorrai prendere.» «Sì, mamma.» Si picchiò all'uscio, sommessamente, e la voce di Luisa disse: «È finito?» Franco guardò l'ammalata. «Avanti», diss'ella. «È ora di andare?» Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo di Franco. S'inginocchiarono insieme davanti alla mamma, le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzo per trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evitare alla mamma ogni emozione troppo forte, ma le spalle la tradivano. «No, Luisa», disse la mamma, «no, cara, no», e le accarezzava il capo. «Ti ringrazio che sei sempre stata una buona figliuola, sai; tanto buona; quietati; son così contenta; vedrai che starò meglio. Andate dunque; datemi un bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato. Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco.» Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, fece aprire le finestre e l'uscio della terrazza per respirar meglio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerle compagnia. Usciti gli sposi, entrò l'ingegnere per salutar sua sorella prima di andare in chiesa. «Ciao, neh, Teresa.» «Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, povero Piero.»

«Amen», rispose pacificamente l'ingegnere. Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il rumor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suo fratello e del signor Giacomo, la coda della colonna, non le lasciavano udire gli altri ch'ella avrebbe voluto accompagnar con l'orecchio quanto era possibile. Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l'idea che Luisa e Franco si allontanavano insieme nell'avvenire dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi o forse per pochi giorni; e che non poteva indovinar niente, presentir niente del loro destino. «Poveri ragazzi», pensò. «Chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fra dieci anni!» Stette ancora in ascolto, ma il silenzio era profondo; non entrava per le finestre aperte che il fragor lontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago. Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese il suo libro di preghiere e lesse con fervore. Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa, le si confusero alla vista anche i caratteri del libro. La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Presentiva una visione di cose non vere e sapeva di non dormire, comprendeva che non era sogno, ch'era uno stato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l'uscio che metteva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio, detto «el Carlin de Dàas», padre del professore, agente di casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da venticinque anni. La figura entrò e disse in tono naturale: «Oh sciora Teresa, la sta ben?». Ella credette di rispondere: «Oh Carlin! Bene e voi?», ma in fatto non aperse bocca. «Ghe l'hoo chì la lettra», riprese la figura agitando trionfalmente una lettera. «L'hoo portada chì per Lee.» E posò la lettera sul tavolo. La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo, senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa. Le parve dire: «Grazie, Carlin. E adesso andate a Dasio?». «Sciora no», rispose il Carlin. «Voo a Casarech dal me fioeu.»L'ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora la lettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non era certa che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l'idea vaga di altre allucinazioni passate, l'idea della malattia sua nemica, sua padrona violenta. Aveva l'occhio vitreo, la respirazione penosa e frequente. Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasi del tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitarono in camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il paralume della lucerna, che la fisionomia della mamma fosse stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono di baci, attribuirono all'emozione quel respiro affannoso. A un tratto l'ammalata sollevò il capo dalla spalliera della poltrona, tese le mani avanti, guardando e indicando qualche cosa. «La lettera», diss'ella. I due giovani si voltarono e non videro niente. «Che lettera, mamma?», disse Luisa. Nello stesso punto notò l'espressione del viso di sua madre, diede un'occhiata a Franco per avvertirlo. Non era la prima volta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva di allucinazioni. All'udirsi domandare «che lettera?» ella capì, fece «oh!», ritirò le mani, se ne coperse il viso e pianse silenziosamente. Confortata dalle carezze dè suoi figli, si ricompose, li baciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo, che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e accennò a Luisa di andar a pigliar qualche cosa. Si trattava di una torta e di una bottiglia preziosa di vino di Niscioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dal marchese Bianchi che aveva per la signora Rigey una singolare venerazione. Il signor Giacomo, non vedendo l'ora di svignarsela, incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l'ingegnere. «Signora Luisina», diss'egli vedendo uscire la novella sposa. «La scusa, son propramente per domandar licenza...» «No, no», lo interruppe con un fil di voce la signora Teresa, «aspetti un poco.»

Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori dalla stanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presa da uno scrupolo, accennò a richiamarlo. «Ma cosa mai!», fece l'ingegnere. «Ma, Piero!»

«Ma cosa?» Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sottile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religioso perché gli sposi non avevano ancora assistito alla messa della benedizione nuziale, impedivano alla signora Teresa di approvare che i giovani si appartassero e insieme di spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcale dello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiami senza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette. «Per sempre!», mormorò dopo un momento come parlando fra sé. «Uniti per sempre!» «Nualtri», disse l'ingegnere rivolgendosi in dialetto veneto al suo collega nel celibato, «nualtri, sior Giacomo, de ste buzare no ghe ne femo.» «Sempre de bon umor, Ela, ingegnere pregiatissimo», rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva che aveva fatto delle «buzare» peggiori. Gli sposi non ritornavano. «Signor Giacomo», riprese l'ingegnere, «per questa notte, niente letto.» L'infelice si contorse, soffiò e batté le palpebre senza rispondere. E gli sposi non ritornavano. «Piero», disse la signora, «suonate il campanello.» «Signor Giacomo», fece l'ingegnere senza scomporsi, «dobbiamo suonare il campanello?» «L'idea de la signora Teresa pare propramente questa», rispose l'omino navigando alla meglio tra il fratello e la sorella. «Però mi no digo gnente.» «Piero!», insistette la signora. «Ma insomma», riprese suo fratello senza muoversi. «Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello, o non lo suonerebbe?» «Oh Dio!», gemette il Puttini. «La me dispensa.» «Non La dispenso un corno.» Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più inquieta, ricominciava: «Ma suonate, dunque, Piero!» Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarsene e non poteva andarsene senza salutar gli sposi, incoraggiato dall'insistere della signora, fece uno sforzo, diventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: «Mi sonaria.» «Caro signor Giacomo», disse l'ingegnere, «mi stupisco, mi sorprendo e mi meraviglio.» Chi sa perché, quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno di quei sinonimi, li infilzava tutti e tre. «Però», conchiuse, «suoniamo.» E suonò molto discretamente. «Sentite, Piero», disse la signora Teresa. «Ricordatevi bene che adesso, quando partite voi, deve partire anche Franco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa.» «Oh povero me!», fece lo zio Piero. «Quante miserie! Insomma, sono marito e moglie, sì o no? Bene bene bene», soggiunse, perché sua sorella si inquietava. «Fate tutto quello che volete, ecco.» Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta e la bottiglia e disse all'ingegnere che la signora Luisina lo pregava di uscire un momento sulla terrazza. «Adesso che viene un po' di grazia di Dio, mi mandate fuori», disse l'ingegnere. Egli scherzava, con la solita serenità di spirito, forse non comprendendo bene lo stato grave di sua sorella, forse per certa sua naturale disposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile. Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco. «Senti, zio», diss'ella, «mio marito dice che certo la nonna scoprirà tutto subito, ch'egli non potrà più stare a Cressogno, che se la mamma fosse in buone condizioni si potrebbe venire da te a Oria, ma che così, pur troppo, non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettere all'ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo studio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?» «Hm!», fece lo zio, che non accettava facilmente le novità. «Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fate una spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che non può durare.»

La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia a Oria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra. Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello finissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo che non si poteva fare altrimenti, che né la spesa né l'incomodo sarebbero stati grandi, che suo marito, quando avesse a uscir di casa, andrebbe difilato a Lugano e ritornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lo zio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi a Oria e starvi fino a quando vi potessero scendere la mamma e lei. «Oh, zio!», fece Luisa. S'ella avesse saputo del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata di una proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualche volta di queste idee ingenue che facevano sorridere sua sorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti contro l'esilio di Franco e ad adoperarli con calore. «Basta», fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le braccia in arco, nell'atto di un Dominus vobiscum più caritatevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere creature umane. « Fiat . Oh, e se occorre», soggiunse volgendosi a Franco, «come stai a quattrini?»

Franco trasalì, s'imbarazzò. «È il nostro papà, sai», gli disse sua moglie. «Papà niente affatto», osservò lo zio, sempre placidamente. «Papà niente affatto, ma quel ch'è mio è vostro, ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondo le mie forze.» E ricevette l'abbraccio commosso dè suoi nipoti senza corrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione superflua, seccato che non accogliessero più semplicemente una cosa tanto semplice e naturale. «Sì, sì», diss'egli, «andiamo a bere ch'è meglio.» Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, delicato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell'impaziente signor Giacomo, che in quegli anni di oïdium ben di rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupamente vin Grimelli di acquosa memoria. « Est, est , non è vero, signor Giacomo?», disse lo zio Piero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bicchiere che teneva in mano. «Qui almeno non c'è pericolo di crepare come quel tale: et propter nimium est dominus meus mortuus est .» «A mi me par de resussitar», rispose il signor Giacomo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando sempre nel bicchiere. «Allora, un brindisi agli sposi!», riprese l'altro, alzandosi. «Se non lo fa Lei, lo farò io:

Viva lü e viva lee E nün andèm foeura d'i pee. Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto e batté molto le palpebre in segno dei vari sentimenti che tumultuavano nell'animo suo mentre l'ultimo aroma e l'ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offerse la sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua devozione alla sposina amabilissima, la sua osservanza allo sposo compitissimo; si schermì, menando le braccia e la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso, e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmente, soffiando con un misto di compiacenza e di rammarico, dietro la mole placida dell'ingegnere pregiatissimo. «E tu, Franco?», chiese subito la signora Teresa. «Vado», rispose Franco. «Vien qua», diss'ella. «Vi ho accolto così male, poveri figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m'era venuto uno dè miei accessi; lo avete ben capito. Adesso mi sento tanto benino, tanto in pace. Signore, Vi ringrazio. Mi pare d'avere messa la casa in ordine, d'avere spento il fuoco, d'aver dette un po' di orazioni e di andar a dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai, caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti lascio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordati anche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce di non vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da dar loro un bacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va', figlio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, addio, va'.» Gli parlava carezzevole, come a un bambino che non capisce ancora ed egli piangeva di tenerezza silenziosamente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Luisa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensa tenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di essere divenuto un solo con la figlia e come un'avidità di amar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza. «Va'», ripeteva mamma Teresa, temendo anche la commozione propria: «va', va'.» Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche stavolta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più sante hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantesca non facesse che andare e venire dalla cucina al salotto, la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d'affetto che le aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare il campanello.