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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE SECONDA - 4. Con gli artigli

PARTE SECONDA - 4. Con gli artigli

L'ingegnere in capo non si accorse di nulla, e due giorni dopo, spirata la sua licenza, se n'andò via in barca, pacifico nel suo soprabitone grigio da viaggio, insieme alla Cia, la sua governante. Passarono altri dieci giorni senza novità alcuna, cosicché Franco e Luisa si persuasero che proprio fosse stato teso loro un tranello e che la Polizia non si lascerebbe vedere. La sera del primo ottobre fecero allegramente il tarocco con Puttini e Pasotti e, partiti gli ospiti per tempo, andarono a letto. Luisa, nel baciar la bambina che dormiva, la sentì calda. Le toccò le mani e le gambe. «Maria ha la febbre», diss'ella. Franco pigliò la candela e guardò. Maria dormiva con la testina piegata sulla spalla sinistra secondo il suo solito. Il bel visetto, sempre accigliato nel sonno, era un po' acceso, la respirazione un po' frequente. Franco si spaventò, immaginò in un momento il morbillo, la scarlattina, il gastrico, l'infiammazione cerebrale. Luisa, più tranquilla, pensò ai vermi, preparò la santonina sul tavolino da notte. Poi padre e madre si coricarono senza rumore, spensero il lume, stettero ad ascoltar con pena il sottile respiro breve della piccina. Si assopirono e furono svegliati intorno alla mezzanotte, da Maria che piangeva. Accesero il lume e Maria si chetò, prese la santonina. Poi uscì da capo a piangere, volle esser portata nel letto grande, fra la mamma e il papà e in breve vi pigliò sonno; ma era un sonno inquieto, interrotto da pianti.

Franco tenne il lume acceso per poterla osservare meglio. Pendevano, egli e sua moglie, sulla loro creatura quando all'uscio di strada furono precipitosamente battuti due colpi. Franco balzò a sedere sul letto. «Hai udito?», diss'egli. «Zitto!», fece Luisa afferrandogli un braccio e tendendo l'orecchio. Due altri colpi, più forti. Franco esclamò: «La Polizia!», e saltò a terra. «Va', va'!», supplicò lei, sottovoce. «Non lasciarti prendere! Passa dal cortiletto! Scavalca il muro!» Egli non rispose, si vestì a mezzo, in furia, e si slanciò fuori della camera, risoluto di non lasciar volontariamente la sua Luisa, la sua Maria malata, sdegnoso del pericolo. Discese le scale a salti. «Chi è?», diss'egli, prima di aprire. «La Polizia!», si rispose. «Aprite subito!» «A quest'ora non apro a chi non vedo.» Si udì un breve dialogo nella strada. La voce di prima disse: «Parli lei», e la voce che parlò poi era ben conosciuta da Franco. «Apra, signor Maironi.»

Era la voce del Ricevitore. Franco aperse. Entrò un signore vestito di nero, in occhiali; dopo di lui, il bestione; dopo il bestione un gendarme con una lanterna; poi tre altri gendarmi armati, due semplici e un graduato che portava un gran sacco di cuoio. Qualcuno rimase fuori. «Lei è il signor Maironi?», disse quel dagli occhiali, un aggiunto della Polizia di Milano. «Venga di sopra con me». E tutta la compagnia si avviò sulle scale con uno strepito di passi pesanti, di ferramenta soldatesche.

Non erano ancora al primo piano che la scala si illuminò in alto, singhiozzi e gemiti scoppiarono al secondo piano. «Questa è Sua moglie?», chiese l'aggiunto. «Crede?», rispose Franco, ironico. Il Ricevitore mormorò: «Sarà la domestica». L'aggiunto si voltò a dare un ordine, due gendarmi si fecero avanti, salirono in fretta al secondo piano. Il poliziotto domandò a Franco, più aspramente di prima: «Sua moglie è a letto?».

«Naturalmente.» «Dove? Bisogna che si alzi!» L'uscio dell'alcova si aperse, comparve Luisa, in veste da camera con i capelli sciolti e con una candela in mano, mentre un gendarme si affacciava al ripiano superiore della scala a dir che la serva era mezzo svenuta e non poteva venir giù. L'aggiunto gli ordinò di lasciar il suo compagno presso la donna e di scendere. Poi salutò la signora che non rispose al saluto. Sperando che Franco fuggisse, ella si era affrettata di uscir di camera per trattenere, per ingannare, se possibile, la Polizia. Vide suo marito, trasalì, palpitò, ma si rimise subito. L'aggiunto si avanzò per entrar in camera. «No!», esclamò Franco. «C'è un'ammalata!» Luisa impugnò la maniglia dell'uscio chiuso guardando colui in faccia. «Questa malata chi è?», domandò l'aggiunto. «Una bambina.» «Eh, cosa vogliono che le facciamo?» «Scusi», disse Luisa scotendo nervosamente la maniglia quasi in atto di sfida. «Hanno bisogno d'entrare tutti?» «Tutti.» Al rumore delle voci e della maniglia la piccola Maria si mise a piangere un pianto di stanchezza desolata, che faceva male al cuore. «Luisa», disse Franco, «lascia che questi signori facciano la loro parte!» L'aggiunto era un giovane, alquanto elegante, dalla fisonomia fine e cattiva. Lanciò a Franco una occhiata sinistra. «Ascolti Suo marito, signora», diss'egli tanto per mordere di rimando, a qualche modo. «Lo trovo prudente.» «Meno di lei che si fa scortare da un esercito!», rispose Luisa aprendo l'uscio. Quegli la guardò, si strinse nelle spalle e passò oltre, seguito dagli altri. «Aprano tutto, qui!», diss'egli forte, ruvidamente, indicando la scrivania. I grandi occhi cilestrini di Franco lampeggiarono. «Parli sottovoce!», diss'egli. «Non mi spaventi la bambina!» «Silenzio a Lei!», tuonò l'aggiunto calando un pugno sulla scrivania. «Apra!» La bambina, a quello strepito, si mise a singhiozzare disperatamente. Franco, furibondo, scagliò la chiave sulla scrivania. «A Lei!», diss'egli. «Ella è in arresto!», gridò l'aggiunto. «Va bene!» Mentre Franco rispondeva così, Luisa, che si era chinata tutta sulla sua creatura per cercar di quietarla, rialzò impetuosamente il viso. «Ci ho diritto anch'io, a quest'onore», diss'ella con la sua bella voce vibrante. L'aggiunto non degnò rispondere, fece aprire e rovistare da un gendarme tutti i cassetti della scrivania, levarne lettere e carte ch'egli esaminava rapidamente e buttava parte a terra, parte nel gran sacco di cuoio. Dopo la scrivania venne la volta dei cassettoni dove tutto fu messo sossopra. Dopo i cassettoni fu visitato il lettuccio di Maria. L'aggiunto ordinò a Luisa di levar la bambina dal letto grande ch'egli intendeva pure visitare. «Mi metta il lettuccio in ordine», rispose Luisa fremente. Fino a quel momento il bestione Carlascia era sempre stato lì muto e duro dietro i suoi baffi, come se quella bisogna, forse da lui desiderata in astratto, non fosse stata poi, in pratica, interamente di suo gusto. Adesso si mosse e, senza parlare, si pose ad accomodar con le sue manacce enormi le materasse e le lenzuola del lettuccio. Luisa vi posò la bambina e anche il letto grande fu sfatto e frugato senza frutto. Maria non piangeva più, guardava quella baraonda con tanto d'occhi spalancati. «Adesso vengano con me», disse l'aggiunto. Luisa si tenne sicura d'esser condotta via con suo marito e chiese che si facesse scendere la sua domestica per affidarle la bambina. All'idea che Luisa pure fosse tratta in arresto, che si volesse togliere a Maria malata anche la madre, Franco, fuori di sé dalla collera e dal dolore, mise un grido di protesta: «Questo non è possibile! Lo dica!» L'aggiunto non degnò rispondergli, ordinò che si facesse venir la fantesca. La fantesca, mezza morta di paura, entrò fra i gendarmi, gemendo e singhiozzando. «Stupida!», mormorò Franco, fra i denti. «La donna starà qui con la bambina», disse l'aggiunto. «Loro vengano con me. Devono assistere alla perquisizione.» Fece prendere dei lumi, lasciò un gendarme nell'alcova e passò in sala, seguito dagli altri gendarmi, dal Bianconi, da Franco e Luisa. «Prima di continuar la perquisizione», diss'egli, «domanderò Loro ciò che avrei domandato prima se il Loro contegno fosse stato migliore. Mi dicano se tengono armi o pubblicazioni sediziose o carte, sia stampate che manoscritte, ostili all'Imperial Regio Governo.» Franco rispose forte: «No». «È quello che vedremo», fece l'aggiunto. «Si accomodi.»

Mentre l'aggiunto faceva scostar i mobili dalle pareti, guardare e frugare dappertutto, venne in mente a Luisa che otto o dieci anni prima lo zio le aveva fatto vedere, nel cassettone di una camera del secondo piano, una vecchia sciabola che vi stava sin dal 1812. Era la sciabola di un altro Pietro Ribera, tenente di cavalleria, caduto a Malojaroslavetz. In quella camera, che stava sopra la cucina, non ci dormiva mai nessuno, non ci si andava quasi mai; era come se non ci fosse. Luisa aveva dimenticato del tutto la vecchia sciabola dell'Impero. Dio, le veniva in mente adesso! Se anche lo zio l'avesse dimenticata! Se non l'avesse consegnata nel '48, dopo la guerra; quando tutte le armi si dovevano consegnare, pena la vita! Avrà pensato, lo zio, nella sua semplicità patriarcale, che quel ricordo di famiglia, giacente da trentasei anni nel fondo d'un cassettone, era pure diventato un arnese pericoloso e proibito? E Franco, Franco che non sapeva niente! Luisa teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola; la seggiola scricchiolò tutta sotto una stretta convulsa; ell'alzò le mani, atterrita come se avesse parlato. Vedeva il poliziotto passar di camera in camera con i suoi gendarmi, giungere a quella, aprire il cassettone, frugare, trovar la sciabola. Faceva ogni sforzo di ricordar il posto preciso dove l'aveva veduta, d'immaginar una via di scampo, e taceva seguendo con gli occhi, macchinalmente, la candela che un gendarme accostava, secondo i cenni del suo capo, ora ad un cassetto aperto, ora ad una cantoniera, ora ad un quadro che colui alzava per guardarvi dietro. Non le veniva in mente nessun rimedio. Se lo zio non aveva pensato di levar la sciabola, c'era solo da sperare che non si visitasse anche quella camera. Franco, appoggiato alla stufa, seguiva, scuro nella fronte, ogni atto di quella gente. Quando cacciavano le mani nei cassetti, gli si vedeva la collera nel giuoco muto delle mascelle. Non si udiva che qualche ordine tronco dell'aggiunto, qualche risposta sommessa dei gendarmi. Nulla si moveva intorno ad essi se non le loro grandi ombre traballanti per le pareti. Il silenzio del Ricevitore, di Franco e di Luisa pareva, in una sala da giuoco proibito, intorno alle voci brevi dei giuocatori, il silenzio di coloro che hanno puntato forte. La sinistra faccia, la sinistra voce dell'aggiunto, quantunque nulla si trovasse, non cambiavano mai. A Luisa egli pareva un uomo sicuro d'arrivare al suo scopo. E non poter far niente, neppur avvertire Franco! Ma forse era meglio che non lo sapesse, forse quest'ignoranza poteva salvarlo. Visitate la sala e la loggia, l'aggiunto passò nel salotto. Pigliò la candela dalle mani del gendarme e fece una rapida rassegna dei piccoli uomini illustri. «Il signor ingegnere in capo Ribera», diss'egli vedendo i ritratti di Gouvion Saint-Cyr, di Marmont e di altri generali napoleonici, «avrebbe fatto molto meglio a tener il ritratto di S. E. il feld-maresciallo Radetzky. Non c'è?» «No», rispose Franco. «Che razza d'impiegati!», fece colui con un disprezzo, con un'arroganza da non dire. «Hanno gl'impiegati il dovere», scattò Franco, «di tenere ritratti...» «Non sono qui», lo interruppe l'aggiunto, «per discutere con Lei!» Franco voleva replicare. «Citto, Lei, con quella lingua lunga quatter brazza!», fece il Ricevitore, burbero. L'aggiunto uscì dal salotto nel corridoio che conduce alla scala. Salirebbe, pensava Luisa, o non salirebbe? Salì ed ella gli tenne dietro senza tremare ma immaginando con una rapidità vertiginosa tante cose diverse che potevano accadere. Rotavano, per così dire, nella sua mente tutte le possibilità del momento, le sciagurate e le prospere. Se si fermava sulle prime, l'orrore la portava di slancio alle seconde; se si fermava su queste, la fantasia ritornava con avidità perversa alle prime. Prima ancora di porre il piede nel corridoio del secondo piano, udì Maria piangere. Franco chiese all'aggiunto che permettesse a sua moglie di scendere dalla bambina ma ella protestò che voleva restare. L'idea di non essere con lui quando si scoprisse l'arma, l'atterriva. Intanto l'aggiunto entrò in uno stanzino dov'erano parecchi libri, trovò un'opera stampata a Capolago col titolo Scritti letterari di un italiano vivente e domandò: «Chi è quest'italiano vivente?» «Il padre Cesari», rispose Franco, audacemente. L'altro, ingannato da quella prontezza e da quel nome di frate, si diede l'aria dell'uomo colto, disse: «Ah, conosco!», e ripose il libro, chiese dove dormisse l'ingegnere in capo. Luisa era troppo soggiogata da un'angoscia sola per sentir altro, ma Franco, a veder entrare il birro e i suoi nella camera dello zio così pulita e ordinata, così piena del suo buono, pacifico spirito, a pensar che colpo sarebbe per il povero vecchio una notizia siffatta, si sentì uno struggimento, una rabbia da piangerne. «Mi pare», diss'egli, «che almeno questa camera dovrebb'essere rispettata.» «Ella si tenga le Sue osservazioni», rispose l'aggiunto, e incominciò con far buttare all'aria coperte e materasse. Poi volle la chiave del cassettone. L'aveva Franco, che discese, accompagnato da un gendarme, a prenderla nella sua camera. Lo zio gliel'aveva consegnata prima di partire dicendogli che, ad un bisogno, avrebbe trovato un po' di cum quibus nel primo cassetto. Aprirono. V'era un rotolo di svanziche, alcune lettere e carte, dei portafogli e dei taccuini vecchi, dei compassi, delle matite, una scodellina di legno con varie monete. L'aggiunto esaminò ogni cosa minutamente, scoperse fra le monete della scodellina uno scudo di Carlo Alberto e un pezzo da quaranta lire del Governo Provvisorio di Lombardia. «Il signor ingegnere in capo», disse l'aggiunto, «ha conservato queste monete con una cura straordinaria! D'ora in poi le conserveremo noi.» Chiuse il cassetto e restituì la chiave senza aprire gli altri. Uscì poi nel corridoio e si fermò, incerto. Il Ricevitore lo credette disposto a scendere e siccome il corridoio era quasi buio e la scala non si vedeva, s'incamminò egli, come più pratico, a destra, verso la scala, dicendo: «Di qua». La stanza della sciabola era a sinistra. «Aspetti», disse l'aggiunto. «Guardiamo anche qui dentro.» E voltosi a sinistra spinse quel tale uscio. Luisa, ch'era rimasta l'ultima del seguito, giunto il momento supremo, si fece avanti. Il cuore, che durante l'indecisione dell'aggiunto le aveva martellato a furia, si chetò come per miracolo. Ora ella era fredda, intrepida e pronta. «Chi dorme qui?», le chiese l'aggiunto. «Nessuno. Dormivano qui i genitori di mio zio che sono morti da quarant'anni. Dopo non vi ha più dormito nessuno.» Nella camera v'erano due letti, un canapè, un cassettone. L'aggiunto accennò ai gendarmi di aprire il cassettone. Si provarono; era chiuso a chiave. «Debbo averla io, la chiave», disse Luisa con perfetta indifferenza. Discese accompagnata da un gendarme e risalì con un cestellino pieno di chiavi, lo porse all'aggiunto. «Non la conosco», disse, «non si adopera mai. Dev'essere una di queste.» Colui le provò tutte inutilmente. Poi le provò il Ricevitore, poi Franco. La buona non c'era. «Mandi a S. Mamette, faccia venire il fabbro», disse Luisa tranquillamente. Il Ricevitore guardò l'aggiunto come per dirgli: «Mi pare inutile». Ma l'aggiunto gli voltò le spalle ed esclamò volto a Luisa: «Questa chiave ci dev'essere». Il cassettone, un vecchio mobile rococò, aveva maniglie di metallo ad ogni cassetto. Uno dei gendarmi, il più robusto, si provò di aprire a forza. Non gli riuscì né col primo né col secondo cassetto. In quel punto Luisa si risovvenne che aveva veduto la sciabola nel terzo, insieme a certi disegni arrotolati. Il gendarme afferrò le maniglie del terzo cassetto. «Questo non è chiuso», diss'egli. Infatti il cassetto si aperse facilmente. L'aggiunto pigliò il lume e si chinò a guardarvi dentro. Franco si era seduto sul canapè e guardava i travicelli del soffitto. Sua moglie, quando vide il cassetto aperto, gli sedette accanto, gli prese e gli strinse una mano spasmodicamente. Udì sfogliar carte e il Ricevitore mormorar con voce benigna: «Disegni». Poi l'aggiunto fece: «Oh!». I satelliti si chinarono a guardare; Franco trasalì. Ella ebbe la forza di levarsi per vedere e dire: «Cosa c'è?». L'aggiunto aveva in mano una lunga, curva busta di cartone, che portava un biglietto scritto. Egli lo aveva prima letto silenziosamente e ora lo lesse forte con un accento inesprimibile di soddisfazione e di sarcasmo. «Sciabola del tenente Pietro Ribera ucciso a Malojaroslavetz, 1812.» Franco balzò in piedi, sorpreso, incredulo, e in pari tempo l'aggiunto aperse la busta. Franco non la poteva vedere; guardò sua moglie, che la vedeva. Sua moglie aveva le labbra bianche. Lo credette spavento e non gli pareva possibile. Era gioia: la busta non conteneva che un fodero vuoto. Luisa si trasse nell'ombra precipitosamente, cadde a sedere sul canapè, lottò contro un violento tremito interno, s'irritò con se stessa, si disprezzò e lo vinse. Intanto l'aggiunto, preso il fodero e guardatolo per ogni verso, chiese a Franco dove fosse l'arma. Franco fu per rispondere che non lo sapeva com'era vero. Ma questa potendo parere una giustificazione personale, rispose invece: «In Russia». La sciabola non era in Russia, era confitta nella melma, in fondo al lago, dove l'aveva segretamente gittata lo zio Piero, invece di consegnarla. «E perché hanno scritto sciabola ?», fece il Ricevitore tanto per mostrare un po' di zelo anche lui. «Chi ha scritto è morto», disse Franco. «Questa chiave subito!», esclamò rabbiosamente il Commissario. Stavolta Luisa la trovò e gli altri due cassetti furono aperti; uno era vuoto, l'altro conteneva delle coperte di lana e della lavanda. La perquisizione finì qui. L'aggiunto discese in sala e intimò a Franco di prepararsi a seguirlo dentro un quarto d'ora. «Ma ci arresti tutti, dunque!», esclamò Luisa. L'aggiunto si strinse nelle spalle e ripeté a Franco: «Dentro un quarto d'ora. Lei! Vada pure nella Sua camera». Franco trascinò via Luisa, la supplicò di tacere, di rassegnarsi per amor di Maria. Egli pareva un altro, non mostrava né dolore né collera, aveva nel viso e nella voce una dolcezza seria, una virile tranquillità. Mise nella valigia poca biancheria, un Dante e un Almanach du jardinier che aveva sul tavolino da notte, si chinò un momento su Maria che dormiva e non le diede un bacio per non svegliarla, baciò invece Luisa e, poiché stavano sotto gli occhi dei gendarmi posti alle due uscite della camera, si sciolse presto dalle sue braccia dicendole in francese che non conveniva dare spettacolo a quei signori. Prese la valigia, andò a porsi agli ordini dell'aggiunto. Questi aveva la barca a cinquanta passi da casa Ribera, verso Albogasio, all'approdo che chiamano del Canevaa. Uscendo dal sottoportico cavalcato dalla casa, Franco si udì sopra la testa uno strepito d'imposte, vide batter sulla faccia bianca della chiesa il lume della sua camera e si voltò a dir verso la finestra: «Manda a chiamar il medico, domattina! Addio!» Luisa non rispose. Quando i gendarmi arrivarono con l'arrestato presso il Canevaa, l'aggiunto comandò loro di fermarsi. «Signor Maironi», diss'egli, «Ella ha avuto la sua lezione. Per questa volta ritorni a casa Sua e impari a rispettare le Autorità.» Meraviglia, gioia, sdegno scoppiarono nel cuore di Franco. Si contenne, però, si morse le labbra e si avviò a casa senza fretta. Non aveva ancora girato il canto della chiesa, che Luisa lo riconobbe al passo e chiamò: «Franco?». Egli saltò avanti, fu visto, vide l'ombra di lei sparire dalla finestra, entrò in casa di corsa, si slanciò sulla scala gridando «libero, libero!» mentre sua moglie la scendeva a precipizio con una furia di «come come come?». Si cercarono con le braccia avide, si afferrarono, si strinsero, non parlarono più. Parlarono poi, in loggia, per due ore continue di tutto che avevano visto, udito e provato, ritornando sempre alla sciabola, alle carte, alle monete, non senza fermarsi su tante inezie, sull'accento veneto che aveva l'aggiunto, sul gendarme bruno che pareva un buon diavolo e sul gendarme biondo che doveva essere un cane. Di quando in quando tacevano, gustavano il silenzio sicuro e la dolcezza della casa; poi ricominciavano. Prima di andar a letto uscirono sulla terrazza. La notte era scura e tepida, il lago immobile. L'afa, le tenebre, le forme vaghe, mostruose delle montagne pigliavano nella immaginazione una mortale pesantezza austriaca; l'aria stessa ne pareva grave. Non avevano sonno, né Luisa né Franco, ma conveniva pure andar a letto per la fantesca che vegliava Maria. Entrarono in camera in punta di piedi. La bambina dormiva, aveva il respiro quasi regolare. Cercarono di dormire anch'essi e non ci riuscirono. Non potevano a meno, specialmente Franco, di parlare. Egli domandava sottovoce: «Dormi?». Ella rispondeva «no» e allora tornavano in campo le monete o le carte o la sciabola o lo sgherro dall'accento veneto. Oramai non erano più davvero cose nuove e siccome sull'alba Maria si agitava, dava segno di svegliarsi, avendo Franco sussurrato da capo «dormi?» Luisa rispose «sì» ed egli tacque definitivamente, come se ne fosse persuaso. Il giorno dopo la perquisizione, Oria, Albogasio, San Mamette, furono pieni di bisbigli: «Avii sentii?». «Oh car Signor!». «Avii sentii?». «Oh cara Madonna!» I bisbigli più sonori, per forza, furono quelli che appresero il fatto alla Barborin Pasotti. Suo marito le gridò in bocca: «Maironi! Polizia! Gendarmi! Arresto!». La povera donna credette che un esercito avesse spazzato via i suoi amici e si mise a sbuffare «oh! oh!» come una locomotiva. Gemette, pianse, domandò a Pasotti della bambina. Pasotti, che non voleva assolutamente permetterle di scendere a Oria, di mostrare in quelle circostanze affetto ai Maironi, rispose con un gesto che pareva un colpo di scopa. Via. Via anche quella!. «E la serva? Ci sarà la serva?» Il perfido uomo menò in aria un altro colpo di scopa e la Barborin capì che Sua Maestà I. R. A. avesse fatto portar via anche la serva.

Ma i bisbigli più maligni suonarono assai lontano dalla Valsolda, in una sala del Palazzo Maironi a Brescia. Dieci giorni dopo la perquisizione, il cavaliere Greisberg di S. Giustina, cugino del Maironi, addetto al governo del feld-maresciallo Radetzky in Verona sino al 1853 e passato poi col padrone a Milano, scendeva a casa Maironi dalla carrozza dell'I. R. Delegato di Brescia, del quale era ospite da poche ore. Il cavaliere, un bell'uomo sulla quarantina, azzimato e profumato, non aveva un'aria molto gaia mentre, ritto in mezzo alla sala di ricevimento, stava guardando gli antichi stucchi del soffitto in aspettazione della marchesa, loro contemporanea. Però, quando l'uscio in faccia, spalancato da mano servile, lasciò passar lentamente la grossa persona, il viso marmoreo e la parrucca nera di Madama, il cavaliere si trasfigurò e baciò con fervore la mano grinzosa della vecchia. Una dama lombarda devota all'Austria era un animale raro e di gran pregio agli occhi dell'Imperial Regio Governo: ogni leale funzionario le doveva la più ossequiosa galanteria. La marchesa ricevette gli omaggi del cugino cavaliere con la solita flemmatica dignità e, fattolo sedere, gli domandò notizie dei suoi, lo ringraziò della visita, sempre nello stesso tono gutturale e dormiglioso. Finalmente, posatesi le mani sul ventre, ansando un poco per la fatica di tante parole, mostrò di star ad aspettare quelle del cugino.

Aspettava che le parlasse della perquisizione e dell'ingegnere Ribera. Ella gli aveva espresso in passato il suo dispiacere che Franco subisse la influenza di sua moglie e del Ribera, il suo stupore che il Governo tenesse al proprio stipendio uno che nel 1848 aveva fatto apertamente il liberale e la cui famiglia, specialmente quella signorina della trappola, professava il più sfacciato liberalismo. Il cavaliere Greisberg le aveva risposto che di queste sue sagge osservazioni si sarebbe tenuto conto. Poi la marchesa aveva istigato il Commissario Zérboli contro il povero ingegnere in capo. Sapeva dallo Zérboli della perquisizione; perciò, quando vide Greisberg, intese ch'era venuto a parlarle di questo. Ora ella voleva bene servirsi del Governo per i suoi rancori privati, ma, per principio, non si riconosceva obbligata mai di gratitudine a nessuno. Il governo austriaco, saggiando un impiegato malfido, aveva fatto il proprio interesse. Ella non aveva sollecitato nulla, non toccava a lei di chieder nulla; toccava al cavaliere di parlare per primo. Ma il signor cavaliere, furbo, maligno e orgoglioso la sua parte, non la intendeva così. La vecchia voleva un favore e per averlo doveva piegarsi a baciar le unghie benefiche del Governo.

Tacque alquanto per raccogliersi e vedere se l'altra cedesse. Visto che stava muta e dura, si fece a un tratto molle egli stesso, sorridente, grazioso, le disse che veniva da Verona, le propose d'indovinar il giro che aveva fatto. Era passato per un paese così carino, aveva veduto una villa così deliziosa, così splendida, un paradiso! Indovinare non era il forte della marchesa; gli domandò s'era stato in Brianza. No, da Verona a Brescia per la Brianza non c'era venuto. Tornò a descriver la villa così minutamente che la marchesa non poté a meno di riconoscere il suo possesso di Monzambano. Allora il cavaliere le propose d'indovinare perché mai fosse andato a veder la villa. Ella indovinò subito, indovinò tutta la tela della commedia che le si recitava, ma il suo viso melenso non ne disse nulla. Il Delegato di Brescia l'aveva tastata un'altra volta per sapere se appigionerebbe la villa a S. E. il Maresciallo; ed ella, minacciata segretamente d'incendi e di morte dai liberali di Brescia, aveva preso delle rispettose scappatoie. Sentì ora nel discorso del Greisberg la tacita offerta di un contratto e si pose in guardia. Confessò al cugino che non sapeva indovinare neppur questo. Già le pareva di diventare ogni giorno più stupida. Anni e dispiaceri! «Ne ho avuto uno grosso anche di questi giorni!», diss'ella. «Ho saputo che la Polizia ha fatto una perquisizione in casa di mio nipote a Oria.»

Il Greisberg, sentendosi sfuggire la vecchia ipocrita, buttò via i guanti e la fermò con gli artigli. «Marchesa», diss'egli prendendo un tono che non ammetteva repliche, «Ella non deve parlare di dispiaceri. Ella ha fornito per mezzo mio e per mezzo del signor Commissario di Porlezza preziose informazioni al Governo, il quale Le tien conto delle Sue benemerenze. A Suo nipote non fu torto un capello né si torcerà se avrà giudizio. Mi rincresce invece che non si avrà modo, forse, di prendere provvedimenti severi contro un'altra persona che ha dei torti privati verso di Lei. Per trovar modo di colpire questa persona il signor Commissario di Porlezza ha fatto anche più del suo dovere. Ella deve capire senz'altro, marchesa, che non è il caso di dispiacersi e che anzi ha un obbligo particolare verso il Governo.» La marchesa non s'era mai udita parlare così alto e con tanta formidabile autorità. Era forse ai battiti dispettosi del cuore che rispondeva sopra al suo rigido busto il visibile ondulamento continuo del collo e del capo; ma pareva proprio il moto d'un animale che lavorasse faticosamente a ingoiar un boccone enorme. A ogni modo ella non piegò fino a dire una parola d'acquiescenza. Solamente, quando riprese la sua placidezza obesa, osservò che non aveva mai domandato di prendere provvedimenti contro nessuno, che se nella perquisizione non si era trovato niente a carico dell'ingegnere Ribera, ne aveva piacere; che del resto in casa Ribera se n'eran dette di tutti i colori e che i discorsi era difficile trovarli. Il cavaliere rispose, più mansueto, che non poteva dire se si fosse trovato niente o no e che l'ultima parola sarebbe stata pronunciata dal maresciallo, il quale intendeva occuparsi personalmente della cosa. Ciò gli diede modo di ritornar al discorso della villa di Monzambano. La chiese formalmente per Sua Eccellenza che intendeva venirci dentro otto giorni. La marchesa ringraziò dell'onor grande, disse che la sua villa non meritava tanto, che le pareva troppo angusta, che aveva bisogno di riparazioni, che bisognava dirlo a Sua Eccellenza. Avrebbe voluto differire, aspettar il prezzo sciagurato della sua condiscendenza, ma il cavaliere diede un altro colpo di artiglio e dichiarò che bisognava risponder subito, risponder netto, sì o no, e convenne bene che la vecchia piegasse il capo. «Per compiacere a Sua Eccellenza», diss'ella. Greisberg tornò subito amabile, scherzò sulle misure che si potrebbero prendere contro quel signor ingegnere. Non c'era da sparger sangue, c'era da spargere, tutt'al più, un po' d'inchiostro; non c'era da togliergli la libertà, c'era da rendergliela intera! La marchesa non fiatò. Fece portare due limonate e sorbì lentamente la sua a piccoli sorsi, non senza una fioca espressione di contentezza fra un sorso e l'altro, come se ci fosse nella limonata un sapore nuovo e squisito. Il cavaliere avrebbe pur voluto da lei una parola esplicita su questo punto del Ribera, una confessione del suo desiderio, e posando sul vassoio la tazza vuotata rapidamente, le disse: «Mi ci metterò io, sa, e ci riusciremo a questo. È contenta?».

La marchesa continuò a sorseggiare la limonata, piano, piano, guardando nel bicchiere. «Non va bene?», domandò ancora il cugino dopo una inutile attesa. «Sì, è buona», rispose il sonnolento naso. «Bevo adagio per i denti.»

Gli ultimi bisbigli non furono umani. Luisa e Franco erano seduti sull'erba di Looch, presso al cimitero. Parlavano della bontà grande e squisita della mamma, la paragonavano alla bontà grande e semplice dello zio notandone le somiglianze e le differenze. Non dicevano quale delle due bontà paresse loro superiore nell'insieme, ma dai loro giudizi s'indovinavano le inclinazioni diverse. Franco preferiva la bontà tutta penetrata di fede nel sovrannaturale e Luisa preferiva l'altra. Egli soffriva di questa contraddizione segreta pur esitando di rilevarla, temendo di premere il tasto che poteva dare una nota troppo penosa. Ma la fronte sua n'era adombrata e a un certo punto gli sfuggì di dire: «Quante disgrazie, quante amarezze ha sopportato tua madre, con che rassegnazione, con che forza, con che pace! Credi tu che una pura bontà naturale le avrebbe potute sopportare così?». «Non lo so», rispose Luisa. «La povera mamma aveva vissuto, io credo, in un mondo superiore prima che in questo: aveva sempre il cuore là.» Ella non disse tutto il suo pensiero. Pensava che se le anime buone di questo mondo fossero simili nella mansuetudine religiosa a sua madre, la terra diventerebbe il regno dei bricconi e dei prepotenti. E quanto ai dolori che non vengono dagli uomini ma dalle condizioni stesse della vita umana, le pareva di ammirar coloro che vi resistono per una forza loro propria sopra quegli altri che invocano e ottengono aiuto dallo stesso Essere onde furono percossi. Ma ella non voleva confessar questi sentimenti a suo marito. Espresse invece la speranza che lo zio non avesse a incontrar mai afflizioni gravi. Possibile che il Signore volesse far soffrire un uomo tale? «No no no!», esclamò Franco, che in un altro momento non avrebbe osato, forse, ammonire Iddio a questo modo. Un soffio del Boglia calò per la gola di Muzài, agitò le frondi alte dei noci. A Luisa quello stormire parve legarsi con le ultime parole di Franco: le parve che il vento e i grandi alberi sapessero qualche cosa del futuro e ne bisbigliassero insieme.


PARTE SECONDA - 4. Con gli artigli

L'ingegnere in capo non si accorse di nulla, e due giorni dopo, spirata la sua licenza, se n'andò via in barca, pacifico nel suo soprabitone grigio da viaggio, insieme alla Cia, la sua governante. Passarono altri dieci giorni senza novità alcuna, cosicché Franco e Luisa si persuasero che proprio fosse stato teso loro un tranello e che la Polizia non si lascerebbe vedere. La sera del primo ottobre fecero allegramente il tarocco con Puttini e Pasotti e, partiti gli ospiti per tempo, andarono a letto. Luisa, nel baciar la bambina che dormiva, la sentì calda. Le toccò le mani e le gambe. «Maria ha la febbre», diss'ella. Franco pigliò la candela e guardò. Maria dormiva con la testina piegata sulla spalla sinistra secondo il suo solito. Il bel visetto, sempre accigliato nel sonno, era un po' acceso, la respirazione un po' frequente. Franco si spaventò, immaginò in un momento il morbillo, la scarlattina, il gastrico, l'infiammazione cerebrale. Luisa, più tranquilla, pensò ai vermi, preparò la santonina sul tavolino da notte. Poi padre e madre si coricarono senza rumore, spensero il lume, stettero ad ascoltar con pena il sottile respiro breve della piccina. Si assopirono e furono svegliati intorno alla mezzanotte, da Maria che piangeva. Accesero il lume e Maria si chetò, prese la santonina. Poi uscì da capo a piangere, volle esser portata nel letto grande, fra la mamma e il papà e in breve vi pigliò sonno; ma era un sonno inquieto, interrotto da pianti.

Franco tenne il lume acceso per poterla osservare meglio. Pendevano, egli e sua moglie, sulla loro creatura quando all'uscio di strada furono precipitosamente battuti due colpi. Franco balzò a sedere sul letto. «Hai udito?», diss'egli. «Zitto!», fece Luisa afferrandogli un braccio e tendendo l'orecchio. Due altri colpi, più forti. Franco esclamò: «La Polizia!», e saltò a terra. «Va', va'!», supplicò lei, sottovoce. «Non lasciarti prendere! Passa dal cortiletto! Scavalca il muro!» Egli non rispose, si vestì a mezzo, in furia, e si slanciò fuori della camera, risoluto di non lasciar volontariamente la sua Luisa, la sua Maria malata, sdegnoso del pericolo. Discese le scale a salti. «Chi è?», diss'egli, prima di aprire. «La Polizia!», si rispose. «Aprite subito!» «A quest'ora non apro a chi non vedo.» Si udì un breve dialogo nella strada. La voce di prima disse: «Parli lei», e la voce che parlò poi era ben conosciuta da Franco. «Apra, signor Maironi.»

Era la voce del Ricevitore. Franco aperse. Entrò un signore vestito di nero, in occhiali; dopo di lui, il bestione; dopo il bestione un gendarme con una lanterna; poi tre altri gendarmi armati, due semplici e un graduato che portava un gran sacco di cuoio. Qualcuno rimase fuori. «Lei è il signor Maironi?», disse quel dagli occhiali, un aggiunto della Polizia di Milano. «Venga di sopra con me». E tutta la compagnia si avviò sulle scale con uno strepito di passi pesanti, di ferramenta soldatesche.

Non erano ancora al primo piano che la scala si illuminò in alto, singhiozzi e gemiti scoppiarono al secondo piano. «Questa è Sua moglie?», chiese l'aggiunto. «Crede?», rispose Franco, ironico. Il Ricevitore mormorò: «Sarà la domestica». L'aggiunto si voltò a dare un ordine, due gendarmi si fecero avanti, salirono in fretta al secondo piano. Il poliziotto domandò a Franco, più aspramente di prima: «Sua moglie è a letto?».

«Naturalmente.» «Dove? Bisogna che si alzi!» L'uscio dell'alcova si aperse, comparve Luisa, in veste da camera con i capelli sciolti e con una candela in mano, mentre un gendarme si affacciava al ripiano superiore della scala a dir che la serva era mezzo svenuta e non poteva venir giù. L'aggiunto gli ordinò di lasciar il suo compagno presso la donna e di scendere. Poi salutò la signora che non rispose al saluto. Sperando che Franco fuggisse, ella si era affrettata di uscir di camera per trattenere, per ingannare, se possibile, la Polizia. Vide suo marito, trasalì, palpitò, ma si rimise subito. L'aggiunto si avanzò per entrar in camera. «No!», esclamò Franco. «C'è un'ammalata!» Luisa impugnò la maniglia dell'uscio chiuso guardando colui in faccia. «Questa malata chi è?», domandò l'aggiunto. «Una bambina.» «Eh, cosa vogliono che le facciamo?» «Scusi», disse Luisa scotendo nervosamente la maniglia quasi in atto di sfida. «Hanno bisogno d'entrare tutti?» «Tutti.» Al rumore delle voci e della maniglia la piccola Maria si mise a piangere un pianto di stanchezza desolata, che faceva male al cuore. «Luisa», disse Franco, «lascia che questi signori facciano la loro parte!» L'aggiunto era un giovane, alquanto elegante, dalla fisonomia fine e cattiva. Lanciò a Franco una occhiata sinistra. «Ascolti Suo marito, signora», diss'egli tanto per mordere di rimando, a qualche modo. «Lo trovo prudente.» «Meno di lei che si fa scortare da un esercito!», rispose Luisa aprendo l'uscio. Quegli la guardò, si strinse nelle spalle e passò oltre, seguito dagli altri. «Aprano tutto, qui!», diss'egli forte, ruvidamente, indicando la scrivania. I grandi occhi cilestrini di Franco lampeggiarono. «Parli sottovoce!», diss'egli. «Non mi spaventi la bambina!» «Silenzio a Lei!», tuonò l'aggiunto calando un pugno sulla scrivania. «Apra!» La bambina, a quello strepito, si mise a singhiozzare disperatamente. Franco, furibondo, scagliò la chiave sulla scrivania. «A Lei!», diss'egli. «Ella è in arresto!», gridò l'aggiunto. «Va bene!» Mentre Franco rispondeva così, Luisa, che si era chinata tutta sulla sua creatura per cercar di quietarla, rialzò impetuosamente il viso. «Ci ho diritto anch'io, a quest'onore», diss'ella con la sua bella voce vibrante. L'aggiunto non degnò rispondere, fece aprire e rovistare da un gendarme tutti i cassetti della scrivania, levarne lettere e carte ch'egli esaminava rapidamente e buttava parte a terra, parte nel gran sacco di cuoio. Dopo la scrivania venne la volta dei cassettoni dove tutto fu messo sossopra. Dopo i cassettoni fu visitato il lettuccio di Maria. L'aggiunto ordinò a Luisa di levar la bambina dal letto grande ch'egli intendeva pure visitare. «Mi metta il lettuccio in ordine», rispose Luisa fremente. Fino a quel momento il bestione Carlascia era sempre stato lì muto e duro dietro i suoi baffi, come se quella bisogna, forse da lui desiderata in astratto, non fosse stata poi, in pratica, interamente di suo gusto. Adesso si mosse e, senza parlare, si pose ad accomodar con le sue manacce enormi le materasse e le lenzuola del lettuccio. Luisa vi posò la bambina e anche il letto grande fu sfatto e frugato senza frutto. Maria non piangeva più, guardava quella baraonda con tanto d'occhi spalancati. «Adesso vengano con me», disse l'aggiunto. Luisa si tenne sicura d'esser condotta via con suo marito e chiese che si facesse scendere la sua domestica per affidarle la bambina. All'idea che Luisa pure fosse tratta in arresto, che si volesse togliere a Maria malata anche la madre, Franco, fuori di sé dalla collera e dal dolore, mise un grido di protesta: «Questo non è possibile! Lo dica!» L'aggiunto non degnò rispondergli, ordinò che si facesse venir la fantesca. La fantesca, mezza morta di paura, entrò fra i gendarmi, gemendo e singhiozzando. «Stupida!», mormorò Franco, fra i denti. «La donna starà qui con la bambina», disse l'aggiunto. «Loro vengano con me. Devono assistere alla perquisizione.» Fece prendere dei lumi, lasciò un gendarme nell'alcova e passò in sala, seguito dagli altri gendarmi, dal Bianconi, da Franco e Luisa. «Prima di continuar la perquisizione», diss'egli, «domanderò Loro ciò che avrei domandato prima se il Loro contegno fosse stato migliore. Mi dicano se tengono armi o pubblicazioni sediziose o carte, sia stampate che manoscritte, ostili all'Imperial Regio Governo.» Franco rispose forte: «No». «È quello che vedremo», fece l'aggiunto. «Si accomodi.»

Mentre l'aggiunto faceva scostar i mobili dalle pareti, guardare e frugare dappertutto, venne in mente a Luisa che otto o dieci anni prima lo zio le aveva fatto vedere, nel cassettone di una camera del secondo piano, una vecchia sciabola che vi stava sin dal 1812. Era la sciabola di un altro Pietro Ribera, tenente di cavalleria, caduto a Malojaroslavetz. In quella camera, che stava sopra la cucina, non ci dormiva mai nessuno, non ci si andava quasi mai; era come se non ci fosse. Luisa aveva dimenticato del tutto la vecchia sciabola dell'Impero. Dio, le veniva in mente adesso! Se anche lo zio l'avesse dimenticata! Se non l'avesse consegnata nel '48, dopo la guerra; quando tutte le armi si dovevano consegnare, pena la vita! Avrà pensato, lo zio, nella sua semplicità patriarcale, che quel ricordo di famiglia, giacente da trentasei anni nel fondo d'un cassettone, era pure diventato un arnese pericoloso e proibito? E Franco, Franco che non sapeva niente! Luisa teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola; la seggiola scricchiolò tutta sotto una stretta convulsa; ell'alzò le mani, atterrita come se avesse parlato. Vedeva il poliziotto passar di camera in camera con i suoi gendarmi, giungere a quella, aprire il cassettone, frugare, trovar la sciabola. Faceva ogni sforzo di ricordar il posto preciso dove l'aveva veduta, d'immaginar una via di scampo, e taceva seguendo con gli occhi, macchinalmente, la candela che un gendarme accostava, secondo i cenni del suo capo, ora ad un cassetto aperto, ora ad una cantoniera, ora ad un quadro che colui alzava per guardarvi dietro. Non le veniva in mente nessun rimedio. Se lo zio non aveva pensato di levar la sciabola, c'era solo da sperare che non si visitasse anche quella camera. Franco, appoggiato alla stufa, seguiva, scuro nella fronte, ogni atto di quella gente. Quando cacciavano le mani nei cassetti, gli si vedeva la collera nel giuoco muto delle mascelle. Non si udiva che qualche ordine tronco dell'aggiunto, qualche risposta sommessa dei gendarmi. Nulla si moveva intorno ad essi se non le loro grandi ombre traballanti per le pareti. Il silenzio del Ricevitore, di Franco e di Luisa pareva, in una sala da giuoco proibito, intorno alle voci brevi dei giuocatori, il silenzio di coloro che hanno puntato forte. La sinistra faccia, la sinistra voce dell'aggiunto, quantunque nulla si trovasse, non cambiavano mai. A Luisa egli pareva un uomo sicuro d'arrivare al suo scopo. E non poter far niente, neppur avvertire Franco! Ma forse era meglio che non lo sapesse, forse quest'ignoranza poteva salvarlo. Visitate la sala e la loggia, l'aggiunto passò nel salotto. Pigliò la candela dalle mani del gendarme e fece una rapida rassegna dei piccoli uomini illustri. «Il signor ingegnere in capo Ribera», diss'egli vedendo i ritratti di Gouvion Saint-Cyr, di Marmont e di altri generali napoleonici, «avrebbe fatto molto meglio a tener il ritratto di S. E. il feld-maresciallo Radetzky. Non c'è?» «No», rispose Franco. «Che razza d'impiegati!», fece colui con un disprezzo, con un'arroganza da non dire. «Hanno gl'impiegati il dovere», scattò Franco, «di tenere ritratti...» «Non sono qui», lo interruppe l'aggiunto, «per discutere con Lei!» Franco voleva replicare. «Citto, Lei, con quella lingua lunga quatter brazza!», fece il Ricevitore, burbero. L'aggiunto uscì dal salotto nel corridoio che conduce alla scala. Salirebbe, pensava Luisa, o non salirebbe? Salì ed ella gli tenne dietro senza tremare ma immaginando con una rapidità vertiginosa tante cose diverse che potevano accadere. Rotavano, per così dire, nella sua mente tutte le possibilità del momento, le sciagurate e le prospere. Se si fermava sulle prime, l'orrore la portava di slancio alle seconde; se si fermava su queste, la fantasia ritornava con avidità perversa alle prime. Prima ancora di porre il piede nel corridoio del secondo piano, udì Maria piangere. Franco chiese all'aggiunto che permettesse a sua moglie di scendere dalla bambina ma ella protestò che voleva restare. L'idea di non essere con lui quando si scoprisse l'arma, l'atterriva. Intanto l'aggiunto entrò in uno stanzino dov'erano parecchi libri, trovò un'opera stampata a Capolago col titolo Scritti letterari di un italiano vivente e domandò: «Chi è quest'italiano vivente?» «Il padre Cesari», rispose Franco, audacemente. L'altro, ingannato da quella prontezza e da quel nome di frate, si diede l'aria dell'uomo colto, disse: «Ah, conosco!», e ripose il libro, chiese dove dormisse l'ingegnere in capo. Luisa era troppo soggiogata da un'angoscia sola per sentir altro, ma Franco, a veder entrare il birro e i suoi nella camera dello zio così pulita e ordinata, così piena del suo buono, pacifico spirito, a pensar che colpo sarebbe per il povero vecchio una notizia siffatta, si sentì uno struggimento, una rabbia da piangerne. «Mi pare», diss'egli, «che almeno questa camera dovrebb'essere rispettata.» «Ella si tenga le Sue osservazioni», rispose l'aggiunto, e incominciò con far buttare all'aria coperte e materasse. Poi volle la chiave del cassettone. L'aveva Franco, che discese, accompagnato da un gendarme, a prenderla nella sua camera. Lo zio gliel'aveva consegnata prima di partire dicendogli che, ad un bisogno, avrebbe trovato un po' di cum quibus nel primo cassetto. Aprirono. V'era un rotolo di svanziche, alcune lettere e carte, dei portafogli e dei taccuini vecchi, dei compassi, delle matite, una scodellina di legno con varie monete. L'aggiunto esaminò ogni cosa minutamente, scoperse fra le monete della scodellina uno scudo di Carlo Alberto e un pezzo da quaranta lire del Governo Provvisorio di Lombardia. «Il signor ingegnere in capo», disse l'aggiunto, «ha conservato queste monete con una cura straordinaria! D'ora in poi le conserveremo noi.» Chiuse il cassetto e restituì la chiave senza aprire gli altri. Uscì poi nel corridoio e si fermò, incerto. Il Ricevitore lo credette disposto a scendere e siccome il corridoio era quasi buio e la scala non si vedeva, s'incamminò egli, come più pratico, a destra, verso la scala, dicendo: «Di qua». La stanza della sciabola era a sinistra. «Aspetti», disse l'aggiunto. «Guardiamo anche qui dentro.» E voltosi a sinistra spinse quel tale uscio. Luisa, ch'era rimasta l'ultima del seguito, giunto il momento supremo, si fece avanti. Il cuore, che durante l'indecisione dell'aggiunto le aveva martellato a furia, si chetò come per miracolo. Ora ella era fredda, intrepida e pronta. «Chi dorme qui?», le chiese l'aggiunto. «Nessuno. Dormivano qui i genitori di mio zio che sono morti da quarant'anni. Dopo non vi ha più dormito nessuno.» Nella camera v'erano due letti, un canapè, un cassettone. L'aggiunto accennò ai gendarmi di aprire il cassettone. Si provarono; era chiuso a chiave. «Debbo averla io, la chiave», disse Luisa con perfetta indifferenza. Discese accompagnata da un gendarme e risalì con un cestellino pieno di chiavi, lo porse all'aggiunto. «Non la conosco», disse, «non si adopera mai. Dev'essere una di queste.» Colui le provò tutte inutilmente. Poi le provò il Ricevitore, poi Franco. La buona non c'era. «Mandi a S. Mamette, faccia venire il fabbro», disse Luisa tranquillamente. Il Ricevitore guardò l'aggiunto come per dirgli: «Mi pare inutile». Ma l'aggiunto gli voltò le spalle ed esclamò volto a Luisa: «Questa chiave ci dev'essere». Il cassettone, un vecchio mobile rococò, aveva maniglie di metallo ad ogni cassetto. Uno dei gendarmi, il più robusto, si provò di aprire a forza. Non gli riuscì né col primo né col secondo cassetto. In quel punto Luisa si risovvenne che aveva veduto la sciabola nel terzo, insieme a certi disegni arrotolati. Il gendarme afferrò le maniglie del terzo cassetto. «Questo non è chiuso», diss'egli. Infatti il cassetto si aperse facilmente. L'aggiunto pigliò il lume e si chinò a guardarvi dentro. Franco si era seduto sul canapè e guardava i travicelli del soffitto. Sua moglie, quando vide il cassetto aperto, gli sedette accanto, gli prese e gli strinse una mano spasmodicamente. Udì sfogliar carte e il Ricevitore mormorar con voce benigna: «Disegni». Poi l'aggiunto fece: «Oh!». I satelliti si chinarono a guardare; Franco trasalì. Ella ebbe la forza di levarsi per vedere e dire: «Cosa c'è?». L'aggiunto aveva in mano una lunga, curva busta di cartone, che portava un biglietto scritto. Egli lo aveva prima letto silenziosamente e ora lo lesse forte con un accento inesprimibile di soddisfazione e di sarcasmo. «Sciabola del tenente Pietro Ribera ucciso a Malojaroslavetz, 1812.» Franco balzò in piedi, sorpreso, incredulo, e in pari tempo l'aggiunto aperse la busta. Franco non la poteva vedere; guardò sua moglie, che la vedeva. Sua moglie aveva le labbra bianche. Lo credette spavento e non gli pareva possibile. Era gioia: la busta non conteneva che un fodero vuoto. Luisa si trasse nell'ombra precipitosamente, cadde a sedere sul canapè, lottò contro un violento tremito interno, s'irritò con se stessa, si disprezzò e lo vinse. Intanto l'aggiunto, preso il fodero e guardatolo per ogni verso, chiese a Franco dove fosse l'arma. Franco fu per rispondere che non lo sapeva com'era vero. Ma questa potendo parere una giustificazione personale, rispose invece: «In Russia». La sciabola non era in Russia, era confitta nella melma, in fondo al lago, dove l'aveva segretamente gittata lo zio Piero, invece di consegnarla. «E perché hanno scritto sciabola ?», fece il Ricevitore tanto per mostrare un po' di zelo anche lui. «Chi ha scritto è morto», disse Franco. «Questa chiave subito!», esclamò rabbiosamente il Commissario. Stavolta Luisa la trovò e gli altri due cassetti furono aperti; uno era vuoto, l'altro conteneva delle coperte di lana e della lavanda. La perquisizione finì qui. L'aggiunto discese in sala e intimò a Franco di prepararsi a seguirlo dentro un quarto d'ora. «Ma ci arresti tutti, dunque!», esclamò Luisa. L'aggiunto si strinse nelle spalle e ripeté a Franco: «Dentro un quarto d'ora. Lei! Vada pure nella Sua camera». Franco trascinò via Luisa, la supplicò di tacere, di rassegnarsi per amor di Maria. Egli pareva un altro, non mostrava né dolore né collera, aveva nel viso e nella voce una dolcezza seria, una virile tranquillità. Mise nella valigia poca biancheria, un Dante e un Almanach du jardinier che aveva sul tavolino da notte, si chinò un momento su Maria che dormiva e non le diede un bacio per non svegliarla, baciò invece Luisa e, poiché stavano sotto gli occhi dei gendarmi posti alle due uscite della camera, si sciolse presto dalle sue braccia dicendole in francese che non conveniva dare spettacolo a quei signori. Prese la valigia, andò a porsi agli ordini dell'aggiunto. Questi aveva la barca a cinquanta passi da casa Ribera, verso Albogasio, all'approdo che chiamano del Canevaa. Uscendo dal sottoportico cavalcato dalla casa, Franco si udì sopra la testa uno strepito d'imposte, vide batter sulla faccia bianca della chiesa il lume della sua camera e si voltò a dir verso la finestra: «Manda a chiamar il medico, domattina! Addio!» Luisa non rispose. Quando i gendarmi arrivarono con l'arrestato presso il Canevaa, l'aggiunto comandò loro di fermarsi. «Signor Maironi», diss'egli, «Ella ha avuto la sua lezione. Per questa volta ritorni a casa Sua e impari a rispettare le Autorità.» Meraviglia, gioia, sdegno scoppiarono nel cuore di Franco. Si contenne, però, si morse le labbra e si avviò a casa senza fretta. Non aveva ancora girato il canto della chiesa, che Luisa lo riconobbe al passo e chiamò: «Franco?». Egli saltò avanti, fu visto, vide l'ombra di lei sparire dalla finestra, entrò in casa di corsa, si slanciò sulla scala gridando «libero, libero!» mentre sua moglie la scendeva a precipizio con una furia di «come come come?». Si cercarono con le braccia avide, si afferrarono, si strinsero, non parlarono più. Parlarono poi, in loggia, per due ore continue di tutto che avevano visto, udito e provato, ritornando sempre alla sciabola, alle carte, alle monete, non senza fermarsi su tante inezie, sull'accento veneto che aveva l'aggiunto, sul gendarme bruno che pareva un buon diavolo e sul gendarme biondo che doveva essere un cane. Di quando in quando tacevano, gustavano il silenzio sicuro e la dolcezza della casa; poi ricominciavano. Prima di andar a letto uscirono sulla terrazza. La notte era scura e tepida, il lago immobile. L'afa, le tenebre, le forme vaghe, mostruose delle montagne pigliavano nella immaginazione una mortale pesantezza austriaca; l'aria stessa ne pareva grave. Non avevano sonno, né Luisa né Franco, ma conveniva pure andar a letto per la fantesca che vegliava Maria. Entrarono in camera in punta di piedi. La bambina dormiva, aveva il respiro quasi regolare. Cercarono di dormire anch'essi e non ci riuscirono. Non potevano a meno, specialmente Franco, di parlare. Egli domandava sottovoce: «Dormi?». Ella rispondeva «no» e allora tornavano in campo le monete o le carte o la sciabola o lo sgherro dall'accento veneto. Oramai non erano più davvero cose nuove e siccome sull'alba Maria si agitava, dava segno di svegliarsi, avendo Franco sussurrato da capo «dormi?» Luisa rispose «sì» ed egli tacque definitivamente, come se ne fosse persuaso. Il giorno dopo la perquisizione, Oria, Albogasio, San Mamette, furono pieni di bisbigli: «Avii sentii?». «Oh car Signor!». «Avii sentii?». «Oh cara Madonna!» I bisbigli più sonori, per forza, furono quelli che appresero il fatto alla Barborin Pasotti. Suo marito le gridò in bocca: «Maironi! Polizia! Gendarmi! Arresto!». La povera donna credette che un esercito avesse spazzato via i suoi amici e si mise a sbuffare «oh! oh!» come una locomotiva. Gemette, pianse, domandò a Pasotti della bambina. Pasotti, che non voleva assolutamente permetterle di scendere a Oria, di mostrare in quelle circostanze affetto ai Maironi, rispose con un gesto che pareva un colpo di scopa. Via. Via anche quella!. «E la serva? Ci sarà la serva?» Il perfido uomo menò in aria un altro colpo di scopa e la Barborin capì che Sua Maestà I. R. A. avesse fatto portar via anche la serva.

Ma i bisbigli più maligni suonarono assai lontano dalla Valsolda, in una sala del Palazzo Maironi a Brescia. Dieci giorni dopo la perquisizione, il cavaliere Greisberg di S. Giustina, cugino del Maironi, addetto al governo del feld-maresciallo Radetzky in Verona sino al 1853 e passato poi col padrone a Milano, scendeva a casa Maironi dalla carrozza dell'I. R. Delegato di Brescia, del quale era ospite da poche ore. Il cavaliere, un bell'uomo sulla quarantina, azzimato e profumato, non aveva un'aria molto gaia mentre, ritto in mezzo alla sala di ricevimento, stava guardando gli antichi stucchi del soffitto in aspettazione della marchesa, loro contemporanea. Però, quando l'uscio in faccia, spalancato da mano servile, lasciò passar lentamente la grossa persona, il viso marmoreo e la parrucca nera di Madama, il cavaliere si trasfigurò e baciò con fervore la mano grinzosa della vecchia. Una dama lombarda devota all'Austria era un animale raro e di gran pregio agli occhi dell'Imperial Regio Governo: ogni leale funzionario le doveva la più ossequiosa galanteria. La marchesa ricevette gli omaggi del cugino cavaliere con la solita flemmatica dignità e, fattolo sedere, gli domandò notizie dei suoi, lo ringraziò della visita, sempre nello stesso tono gutturale e dormiglioso. Finalmente, posatesi le mani sul ventre, ansando un poco per la fatica di tante parole, mostrò di star ad aspettare quelle del cugino.

Aspettava che le parlasse della perquisizione e dell'ingegnere Ribera. Ella gli aveva espresso in passato il suo dispiacere che Franco subisse la influenza di sua moglie e del Ribera, il suo stupore che il Governo tenesse al proprio stipendio uno che nel 1848 aveva fatto apertamente il liberale e la cui famiglia, specialmente quella signorina della trappola, professava il più sfacciato liberalismo. Il cavaliere Greisberg le aveva risposto che di queste sue sagge osservazioni si sarebbe tenuto conto. Poi la marchesa aveva istigato il Commissario Zérboli contro il povero ingegnere in capo. Sapeva dallo Zérboli della perquisizione; perciò, quando vide Greisberg, intese ch'era venuto a parlarle di questo. Ora ella voleva bene servirsi del Governo per i suoi rancori privati, ma, per principio, non si riconosceva obbligata mai di gratitudine a nessuno. Il governo austriaco, saggiando un impiegato malfido, aveva fatto il proprio interesse. Ella non aveva sollecitato nulla, non toccava a lei di chieder nulla; toccava al cavaliere di parlare per primo. Ma il signor cavaliere, furbo, maligno e orgoglioso la sua parte, non la intendeva così. La vecchia voleva un favore e per averlo doveva piegarsi a baciar le unghie benefiche del Governo.

Tacque alquanto per raccogliersi e vedere se l'altra cedesse. Visto che stava muta e dura, si fece a un tratto molle egli stesso, sorridente, grazioso, le disse che veniva da Verona, le propose d'indovinar il giro che aveva fatto. Era passato per un paese così carino, aveva veduto una villa così deliziosa, così splendida, un paradiso! Indovinare non era il forte della marchesa; gli domandò s'era stato in Brianza. No, da Verona a Brescia per la Brianza non c'era venuto. Tornò a descriver la villa così minutamente che la marchesa non poté a meno di riconoscere il suo possesso di Monzambano. Allora il cavaliere le propose d'indovinare perché mai fosse andato a veder la villa. Ella indovinò subito, indovinò tutta la tela della commedia che le si recitava, ma il suo viso melenso non ne disse nulla. Il Delegato di Brescia l'aveva tastata un'altra volta per sapere se appigionerebbe la villa a S. E. il Maresciallo; ed ella, minacciata segretamente d'incendi e di morte dai liberali di Brescia, aveva preso delle rispettose scappatoie. Sentì ora nel discorso del Greisberg la tacita offerta di un contratto e si pose in guardia. Confessò al cugino che non sapeva indovinare neppur questo. Già le pareva di diventare ogni giorno più stupida. Anni e dispiaceri! «Ne ho avuto uno grosso anche di questi giorni!», diss'ella. «Ho saputo che la Polizia ha fatto una perquisizione in casa di mio nipote a Oria.»

Il Greisberg, sentendosi sfuggire la vecchia ipocrita, buttò via i guanti e la fermò con gli artigli. «Marchesa», diss'egli prendendo un tono che non ammetteva repliche, «Ella non deve parlare di dispiaceri. Ella ha fornito per mezzo mio e per mezzo del signor Commissario di Porlezza preziose informazioni al Governo, il quale Le tien conto delle Sue benemerenze. A Suo nipote non fu torto un capello né si torcerà se avrà giudizio. Mi rincresce invece che non si avrà modo, forse, di prendere provvedimenti severi contro un'altra persona che ha dei torti privati verso di Lei. Per trovar modo di colpire questa persona il signor Commissario di Porlezza ha fatto anche più del suo dovere. Ella deve capire senz'altro, marchesa, che non è il caso di dispiacersi e che anzi ha un obbligo particolare verso il Governo.» La marchesa non s'era mai udita parlare così alto e con tanta formidabile autorità. Era forse ai battiti dispettosi del cuore che rispondeva sopra al suo rigido busto il visibile ondulamento continuo del collo e del capo; ma pareva proprio il moto d'un animale che lavorasse faticosamente a ingoiar un boccone enorme. A ogni modo ella non piegò fino a dire una parola d'acquiescenza. Solamente, quando riprese la sua placidezza obesa, osservò che non aveva mai domandato di prendere provvedimenti contro nessuno, che se nella perquisizione non si era trovato niente a carico dell'ingegnere Ribera, ne aveva piacere; che del resto in casa Ribera se n'eran dette di tutti i colori e che i discorsi era difficile trovarli. Il cavaliere rispose, più mansueto, che non poteva dire se si fosse trovato niente o no e che l'ultima parola sarebbe stata pronunciata dal maresciallo, il quale intendeva occuparsi personalmente della cosa. Ciò gli diede modo di ritornar al discorso della villa di Monzambano. La chiese formalmente per Sua Eccellenza che intendeva venirci dentro otto giorni. La marchesa ringraziò dell'onor grande, disse che la sua villa non meritava tanto, che le pareva troppo angusta, che aveva bisogno di riparazioni, che bisognava dirlo a Sua Eccellenza. Avrebbe voluto differire, aspettar il prezzo sciagurato della sua condiscendenza, ma il cavaliere diede un altro colpo di artiglio e dichiarò che bisognava risponder subito, risponder netto, sì o no, e convenne bene che la vecchia piegasse il capo. «Per compiacere a Sua Eccellenza», diss'ella. Greisberg tornò subito amabile, scherzò sulle misure che si potrebbero prendere contro quel signor ingegnere. Non c'era da sparger sangue, c'era da spargere, tutt'al più, un po' d'inchiostro; non c'era da togliergli la libertà, c'era da rendergliela intera! La marchesa non fiatò. Fece portare due limonate e sorbì lentamente la sua a piccoli sorsi, non senza una fioca espressione di contentezza fra un sorso e l'altro, come se ci fosse nella limonata un sapore nuovo e squisito. Il cavaliere avrebbe pur voluto da lei una parola esplicita su questo punto del Ribera, una confessione del suo desiderio, e posando sul vassoio la tazza vuotata rapidamente, le disse: «Mi ci metterò io, sa, e ci riusciremo a questo. È contenta?».

La marchesa continuò a sorseggiare la limonata, piano, piano, guardando nel bicchiere. «Non va bene?», domandò ancora il cugino dopo una inutile attesa. «Sì, è buona», rispose il sonnolento naso. «Bevo adagio per i denti.»

Gli ultimi bisbigli non furono umani. Luisa e Franco erano seduti sull'erba di Looch, presso al cimitero. Parlavano della bontà grande e squisita della mamma, la paragonavano alla bontà grande e semplice dello zio notandone le somiglianze e le differenze. Non dicevano quale delle due bontà paresse loro superiore nell'insieme, ma dai loro giudizi s'indovinavano le inclinazioni diverse. Franco preferiva la bontà tutta penetrata di fede nel sovrannaturale e Luisa preferiva l'altra. Egli soffriva di questa contraddizione segreta pur esitando di rilevarla, temendo di premere il tasto che poteva dare una nota troppo penosa. Ma la fronte sua n'era adombrata e a un certo punto gli sfuggì di dire: «Quante disgrazie, quante amarezze ha sopportato tua madre, con che rassegnazione, con che forza, con che pace! Credi tu che una pura bontà naturale le avrebbe potute sopportare così?». «Non lo so», rispose Luisa. «La povera mamma aveva vissuto, io credo, in un mondo superiore prima che in questo: aveva sempre il cuore là.» Ella non disse tutto il suo pensiero. Pensava che se le anime buone di questo mondo fossero simili nella mansuetudine religiosa a sua madre, la terra diventerebbe il regno dei bricconi e dei prepotenti. E quanto ai dolori che non vengono dagli uomini ma dalle condizioni stesse della vita umana, le pareva di ammirar coloro che vi resistono per una forza loro propria sopra quegli altri che invocano e ottengono aiuto dallo stesso Essere onde furono percossi. Ma ella non voleva confessar questi sentimenti a suo marito. Espresse invece la speranza che lo zio non avesse a incontrar mai afflizioni gravi. Possibile che il Signore volesse far soffrire un uomo tale? «No no no!», esclamò Franco, che in un altro momento non avrebbe osato, forse, ammonire Iddio a questo modo. Un soffio del Boglia calò per la gola di Muzài, agitò le frondi alte dei noci. A Luisa quello stormire parve legarsi con le ultime parole di Franco: le parve che il vento e i grandi alberi sapessero qualche cosa del futuro e ne bisbigliassero insieme.