3. TELLUS STABILITA (5)
Ero deciso a reprimere quei torbidi di frontiera con mezzi meno banali che le legioni in marcia. Fu combinato un incontro di persona con Osroe. Riconducevo in Oriente la figlia dell'imperatore, fatta prigioniera quasi in culla, quando Traiano aveva occupato Babilonia, e poi trattenuta a Roma come ostaggio. Era una ragazzetta gracile, dai grandi occhi. La sua presenza e quella delle sue donne mi fu di qualche impaccio, durante quel viaggio che si doveva, oltretutto, compiere senza indugio. Quel gruppo di creature velate fu sballottato a dorso di cammello attraverso il deserto siriaco, sotto un baldacchino dalle cortine severamente abbassate. E ogni sera, alle tappe, mandavo a sentire se la principessa desiderava qualcosa.
Mi fermai un'ora in Licia, per convincere il mercante Opramoas, che aveva già dato prova delle sue eccellenti qualità di negoziatore, ad accompagnarmi in territorio partico. Per mancanza di tempo, non poté sfoggiare il suo lusso abituale. Quell'uomo infiacchito dall'opulenza era tuttavia un ammirevole compagno di viaggio, avvezzo a tutti gli imprevisti del deserto.
Il luogo dell'incontro si trovava sulla riva sinistra dell'Eufrate, poco lungi da Doura. Traversammo il fiume su una zattera. I soldati della guardia imperiale partica, con le corazze dorate, su cavalli altrettanto splendidi, formavano una linea abbagliante lungo le sponde. Il mio inseparabile Flegone era pallidissimo. Persino gli ufficiali che mi accompagnavano non celavano la loro apprensione: quell'incontro poteva nascondere un tranello. Opramoas, avvezzo a fiutare l'aria dell'Asia, si trovava a suo agio, si fidava di quel pericoloso amalgama di silenzio e di tumulto, d'immobilità e di galoppate improvvise, di quel lusso profuso nel deserto come un tappeto sulla sabbia. Quanto a me, ero straordinariamente calmo: come Cesare si fidava della sua barca, così io di quelle tavole su cui andava la mia sorte. Detti una prova di questa fiducia rendendo subito la principessa a suo padre, anziché tenerla sotto custodia nelle nostre linee fino al mio ritorno. Promisi anche che avrei reso il trono d'oro della dinastia Arsacide, che Traiano aveva portato via, e di cui non sapevamo che farci, laddove la superstizione orientale vi annetteva un immenso valore.
Il fasto di questi incontri con Osroe fu soltanto esteriore: in sostanza, non differivano gran che dagli abboccamenti di due vicini che cercano di comporre amichevolmente una questione di muro divisorio. Ero alle prese con un barbaro raffinato, che si esprimeva in greco, tutt'altro che stupido, non necessariamente più perverso di me; tuttavia, tanto indeciso da sembrare malsicuro. Le mie singolari discipline mentali m'aiutavano a captare quel pensiero sfuggente: seduto in faccia all'imperatore dei Parti, imparavo a prevedere, e ad orientare le sue risposte: entravo nel suo gioco; mi figuravo d'essere io Osroe nell'atto di contrattare con Adriano. Detesto i vaniloqui, nei quali ciascuno sa in anticipo che cederà, o che non cederà: la franchezza, negli affari, mi piace soprattutto come mezzo per semplificare le cose, e progredire in fretta. I Parti ci temevano; noi paventavamo i Parti: da questa reciproca paura poteva nascere la guerra. I satrapi la istigavano, per interesse personale: non tardai ad accorgermi che anche Osroe aveva i suoi Quieto, i suoi Palma. Farasmane, il più turbolento di quei principi semindipendenti assegnati alle frontiere, era ancor più pericoloso per l'impero partico che per noi. Mi hanno accusato di aver fiaccato con l'elargizione di sussidi quell'ambiente molle e malefico: era danaro investito bene. Ero troppo sicuro della superiorità delle nostre forze per irrigidirmi su un amor proprio idiota: ero pronto a tutte le concessioni formali, fatte solo di prestigio, ma a nessun'altra. La cosa più difficile fu persuadere Osroe che, se facevo poche promesse, era perché intendevo mantenerle. Tuttavia mi credette; o finse di credermi. L'accordo concluso tra noi durante quella visita dura ancora; da quindici anni a questa parte, nessuno di noi ha turbato la pace alle frontiere. Conto su di te affinché questo stato di cose perduri dopo la mia morte.
Una sera, sotto la tenda imperiale, durante una festa data in mio onore da Osroe, scorsi tra le donne e i paggi dalle lunghe ciglia, un uomo ignudo, scheletrico, completamente immobile, i cui occhi sbarrati pareva ignorassero quel trambusto di piatti carichi di vivande, di acrobati, di danzatrici. Gli rivolsi la parola a mezzo del mio interprete: non si degnò di rispondermi. Era un saggio. Ma i suoi discepoli erano più loquaci. Appresi così che quei pii vagabondi venivano dall'India, e il loro maestro apparteneva alla potente casta dei Bramini. Compresi che le sue meditazioni lo inducevano a ritenere che tutto l'universo non è che un tessuto di illusioni e di errori: l'austerità, la rinuncia, la morte, erano per lui il solo mezzo per eludere questo flusso mutevole delle cose, dal quale, al contrario, il nostro Eraclito s'è fatto portare, onde raggiungere, oltre il mondo dei sensi, quella sfera del divino, quel firmamento immobile e vuoto che anche Platone ha sognato. Presentii, pure attraverso le inesattezze degli interpreti, alcune delle idee che non furono del tutto ignorate da qualcuno dei nostri saggi, ma che l'indiano esprimeva in forma più definitiva e più netta. Quel Bramino era giunto in quello stadio in cui nulla, all'infuori del suo corpo, lo separava più dal dio intangibile, senza sostanza né forma, al quale aspirava a unirsi: aveva deciso, infatti, di farsi ardere vivo l'indomani. Osroe mi invitò a questa solenne cerimonia. Fu innalzato un rogo di arbusti odoriferi, l'uomo vi si tuffò e scomparve senza un grido. I discepoli non mostrarono il minimo rimpianto: per loro, era tutt'altro che una cerimonia funebre.
Ripensai a lungo a quel rogo, la notte che seguì. Ero disteso su di un tappeto di lana preziosa, sotto una tenda drappeggiata di pesante stoffa iridata. Un paggio mi massaggiava i piedi. Dall'esterno, mi giungevano radi i brusii di quella notte asiatica: la conversazione di due schiavi che sussurravano alla mia porta; il lieve fruscio d'una palma; Opramoas che russava dietro una tenda; il picchiare dello zoccolo d'un cavallo impastoiato: più lontano, dagli appartamenti delle donne, veniva il tubare mesto d'una canzone. Il Bramino aveva disdegnato tutto questo. Quell'uomo ebbro di rinuncia s'era abbandonato alle fiamme come un amante al suo talamo. Aveva respinto le cose, gli esseri, infine se stesso, come altrettante vesti che gli celavano quella presenza unica, quel centro invisibile e vuoto che preferiva a ogni altra cosa.
Mi sentivo diverso, pronto anch'io ad altre scelte. L'austerità, la rinuncia, la negazione non mi erano del tutto estranee: le avevo assaporate, come accade quasi sempre, a vent'anni. Non li avevo ancora quando, a Roma, condottovi da un amico, ero andato a visitare il vecchio Epitteto nel suo tugurio alla Suburra, pochi giorni prima che Domiziano lo esiliasse. L'antico schiavo, al quale un padrone brutale anni prima aveva spezzato una gamba senza riuscire a strappargli un lamento, il fragile vecchio che sopportava paziente i lunghi tormenti dei calcoli renali, m'era sembrato in possesso d'una libertà quasi sovrumana. Avevo contemplato con ammirazione quelle grucce, quel pagliericcio, quella lampada di terracotta, il mestolo di legno nella ciotola di creta, gli utensili semplici di una vita pura. Ma Epitteto rinunciava a troppe cose, e ben presto m'ero reso conto che, per me, nulla era più insidiosamente grato della rinuncia. L'indiano, più logico, ricusava addirittura la vita. Avevo molto da imparare da quei puri fanatici, ma a condizione di volgere in un altro senso la lezione ch'essi m'impartivano. Quei saggi si affannavano a trovare il loro dio al di là dell'oceano di forme, a ridurlo a quella qualità di unico, intangibile, incorporeo a cui egli ha rinunciato il giorno che ha voluto essere l'universo. Io intuivo diversi i miei rapporti col divino. M'immaginavo nell'atto di secondarlo nel suo sforzo d'imprimere al mondo una forma e un ordine, di sviluppare e moltiplicarne le circonvoluzioni, le ramificazioni. Io ero uno dei segmenti di quella ruota, uno degli aspetti di questa forza unica impegnata nella molteplicità delle cose: aquila e toro, uomo e cigno, fallo e cervello insieme, Proteo e insieme Giove.
Fu verso quell'epoca che cominciai a sentirmi dio. Non mi fraintendere: ero sempre, ero più che mai lo stesso uomo, nutrito dei frutti e degli animali della terra, che rende al suolo i resti dei suoi alimenti, sacrifica al sonno a ogni rivoluzione degli astri, irrequieto sino alla follia quando gli manca troppo a lungo la calda presenza dell'amore. La mia forza, la mia agilità fisica e mentale erano conservate accuratamente intatte, attraverso una ginnastica completamente umana. Ma che altro dirti, se non che tutto ciò io lo vivevo divinamente? Erano cessate le avventure temerarie della giovinezza, e quella urgenza di godere il tempo che passa. A quarantaquattro anni, mi sentivo senza impazienze, sicuro di me, perfetto quanto me lo consentiva la mia natura: eterno. E, comprendimi bene, si trattava d'un'ideazione dell'intelletto: i deliri, se devo assegnar loro questo nome, vennero più tardi. Ero dio, semplicemente, perché ero uomo. I titoli divini che la Grecia mi accordò in seguito non fecero che proclamare ciò che da tempo avevo constatato da me stesso. Credo che mi sarebbe stato possibile sentirmi dio anche nelle prigioni di Domiziano o nelle viscere d'una miniera. Se ho l'audacia di pretenderlo, vuol dire che questo sentimento mi appare assai poco straordinario, e per nulla raro. Anche altri, oltre che io stesso, l'hanno provato, o lo proveranno in avvenire.
Ho detto che i miei titoli aggiungevano ben poco a questa sorprendente certezza: essa, al contrario, trovava conferma nei gesti più semplici del mio mestiere d'imperatore. Se Giove è il cervello del mondo, ogni uomo incaricato di organizzare e moderare gli affari terreni può ragionevolmente considerarsi una parte di quel cervello che a tutto presiede. A torto o a ragione, quasi sempre l'umanità ha concepito il suo dio in termini di Provvidenza; le mie funzioni mi costringevano a essere, per una parte del genere umano, questa Provvidenza incarnata. Più lo Stato si sviluppa, serrando l'uomo nelle sue maglie fredde e rigorose, più la fiducia umana aspira a collocare al polo estremo di questa interminabile catena l'immagine adorata d'un uomo protettore. Lo volessi o no, le popolazioni orientali dell'impero mi trattavano da dio. Persino in Occidente, e a Roma, dove solo dopo morti siamo proclamati ufficialmente divini, la oscura pietà popolare sempre più si compiace di deificarci ancor vivi. Ben presto, la riconoscenza dei Parti elevò templi all'imperatore romano che aveva instaurata e serbata la pace: e a Vologesa, nel cuore di quel vasto mondo straniero, sorse il mio santuario. Lungi dallo scorgere in quelle dimostrazioni di culto i pericoli di follia o di prepotenza per l'uomo che le accetta, io vi ravvisavo un freno, l'impegno a delinearsi conforme un modello eterno, ad associare alla potenza umana una parte di sapienza divina. Esser dio, in fin dei conti, obbliga a un maggior numero di virtù che non essere imperatore.
Diciotto mesi dopo, mi feci iniziare a Eleusi. In un certo senso, questa visita a Osroe aveva segnato una svolta nella mia vita. Invece di tornare a Roma, avevo deciso di dedicare qualche anno alle province greche e orientali dell'impero: Atene diventava sempre più la mia patria, il mio centro. Ci tenevo molto a piacere ai Greci, e anche a ellenizzarmi il più possibile; ma quella iniziazione, motivata in parte da considerazioni politiche, costituì tuttavia una esperienza religiosa senza pari. Quei riti solenni non fanno che simboleggiare gli avvenimenti dell'esistenza umana, ma il simbolo va oltre l'atto, spiega ciascuno dei nostri gesti in termini di meccanica eterna. L'insegnamento che si riceve a Eleusi deve restare segreto: del resto, ha ben poche probabilità di venir divulgato, in quanto è, per sua natura, ineffabile. Una volta formulato, non condurrebbe che alle certezze più banali: in questo appunto risiede la sua profondità. I gradi più elevati che mi vennero conferiti in seguito, nel corso di conversazioni private con lo ierofante, nulla, o quasi nulla aggiunsero all'emozione iniziale, che il più oscuro dei pellegrini, partecipando alle abluzioni rituali o dissetandosi a quella sorgente, prova in egual misura. Avevo sentito le dissonanze risolversi in accordo; per un istante mi ero posato su una sfera diversa, avevo contemplato da lungi, ma anche molto da vicino, quella teoria umana e divina nella quale occupo il mio posto anch'io, quel mondo nel quale esiste ancora il dolore, non più l'errore. La sorte umana, quel vago tracciato al quale un occhio meno esercitato attribuisce tante imperfezioni, scintillava come le scie del cielo.
A questo punto conviene ch'io ti accenni un'abitudine che per tutta la vita mi indusse a percorrere sentieri meno segreti di quelli di Eleusi, ma che, in fin dei conti, vi corrono paralleli; voglio intendere lo studio degli astri. Sono stato sempre amico degli astronomi e cliente degli astrologhi. La scienza di questi ultimi è incerta, falsa nelle singole parti, forse veritiera nell'insieme; dato che l'uomo, particella dell'universo, è governato dalle leggi medesime che presiedono al cielo, non è poi così assurdo cercare lassù i temi delle nostre esistenze, le fredde simpatie che partecipano ai nostri successi e ai nostri errori. Non c'è sera d'autunno in cui io mancai mai di salutare, a sud dell'Acquario, il Coppiere celeste, il Dispensatore insigne sotto il cui segno sono nato. Non mancavo mai di riconoscere, in ciascuna delle loro evoluzioni, Giove e Venere, i moderatori della mia vita, né di misurare l'influenza del funesto Saturno. Ma se questa strana proiezione dell'umano sulla volta stellare spesso turbava le mie veglie, ancor più fortemente mi interessavo alle matematiche celesti, speculazioni astratte alle quali i grandi corpi incandescenti c'inducono. Uniformandomi ad alcuni più temerari tra i nostri sapienti, ero incline a ritenere che la terra partecipi anch'essa a quel periplo notturno e diurno del quale le processioni sacre di Eleusi rappresentano, tutt'al più, il simulacro umano. In un mondo dove tutto non è che turbine di forze, danza di atomi, dove tutto si trova contemporaneamente in alto e in basso, al centro e alla periferia, non riuscivo a farmi convinto dell'esistenza d'un globo immobile, d'un punto fisso che non fosse al tempo stesso in moto.
Altre volte, i calcoli sul ricorso degli equinozi, già stabilito da Ipparco di Alessandria, assillavano le mie veglie notturne: vi ritrovavo sotto forma di dimostrazione e non più favola o simbolo, lo stesso mistero eleusino dei corsi e ricorsi. La Spiga della Vergine, ai nostri giorni, non si trova più in quel punto della carta dove l'ha segnata Ipparco; e questa variazione è il compimento d'un ciclo, che conferma le ipotesi dell'astronomo. Lentamente, ineluttabilmente, il firmamento tornerà a essere quello che era ai tempi di Ipparco: e sarà nuovamente quello che è oggi, ai tempi di Adriano. Quel disordine s'integrava nell'ordine; il mutamento faceva parte d'un piano che l'astronomo era in grado di prevedere in anticipo; lo spirito umano rivelava la sua partecipazione all'universo per il fatto d'aver concepito teoremi esatti così come a Eleusi con le grida rituali e le danze. L'uomo che contempla gli astri, e gli astri contemplati ruotano ineluttabilmente verso la loro fine, segnata in qualche punto del cielo. Ma ogni momento di questa caduta rappresentava un tempo d'arresto, un riferimento, il segmento d'una curva, solida quanto una catena d'oro. Ogni slittamento ci riconduceva a quel punto che, oggi, dato che per caso ci siamo trovati a viverci, ci appare un centro.
Sin dalle notti della mia infanzia, quando col braccio levato Marullino m'indicava le costellazioni, l'interesse per le cose del cielo non mi ha mai abbandonato. Al campo, durante le veglie forzate, ho contemplato la luna che corre tra le nubi dei cieli barbari; più tardi, nelle limpide notti dell'Attica, ho ascoltato l'astronomo Terone di Rodi spiegarmi il suo sistema del mondo; disteso sul ponte d'una nave, in pieno Egeo, osservavo il lento moto oscillante dell'albero maestro spostarsi tra le stelle, andare dall'occhio acceso del Toro al pianto delle Pleiadi, dal Pegaso al Cigno; e ho risposto come meglio sapevo alle domande serie e ingenue del giovinetto che contemplava quello stesso cielo con me. Qui, in Villa, ho fatto costruire un vero osservatorio, ma oggi il mio male m'impedisce di ascenderne i gradini. Una volta, nella mia vita, ho fatto di più: ho offerto il sacrificio d'una intera notte alle costellazioni. Ciò avvenne dopo la mia visita a Osroe, durante la traversata del deserto siriaco. Disteso supino, gli occhi bene aperti, tralasciando per qualche ora ogni pensiero umano, mi sono abbandonato dal tramonto all'aurora a quel mondo di cristallo e di fiamma. E' stato il più bello dei miei viaggi. Il grande astro della Lira, stella polare degli uomini che vivranno quando noi da dozzine di migliaia d'anni non saremo più, splendeva sul mio capo. I Gemelli rilucevano d'una luce tenue negli estremi bagliori del tramonto; il Serpente precedeva il Sagittario; l'Aquila saliva allo zenit, le ali aperte, e ai suoi piedi splendeva quella costellazione non ancora designata dagli astronomi alla quale in seguito ho dato il più caro dei nomi. La notte, che non è mai così totale come credono coloro che vivono e dormono nelle stanze, si fece più cupa, poi si rischiarò. Si spensero i fuochi, che s'erano lasciati accesi per fugare gli sciacalli; quel mucchio di brace ardente mi rammentò il nonno, in piedi nella sua vigna, le sue profezie che ormai erano il presente, e che sarebbero state ben presto il passato. Ho cercato di aderire al divino sotto molte forme; e ho conosciuto molte estasi. Ve ne sono di atroci; altre, d'una dolcezza struggente. Quella della notte siriaca fu singolarmente lucida. Mi tracciò i movimenti celesti con una precisione che nessuna osservazione parziale mi avrebbe mai consentito di raggiungere. Nel momento in cui scrivo, io so esattamente quali stelle passano qui, a Tivoli, sopra questo soffitto ornato di stucchi e di pitture preziose, e altrove, laggiù, su un sepolcro. Qualche anno dopo, la morte doveva diventare l'oggetto delle mie meditazioni costanti, il pensiero al quale ho dedicato tutte quelle forze del mio spirito che lo Stato non assorbiva. E chi dice morte esprime anche quel mondo misterioso al quale forse per suo mezzo si accede. Dopo tante riflessioni ed esperienze, talvolta condannabili, ignoro ancora quello che accade dietro quella buia cortina. Ma la notte siriaca rappresenta la mia parte consapevole d'immortalità.