2. Il deserto dei Tartari (C. 2)
Drogo guardava sulla polvere della strada l'ombra netta dei due cavalli, le teste che facevano sì sì ad ogni passo; sentiva il loro quadruplice scalpitio, qualche ronzare di moscone e niente altro. La fine della strada non si vedeva. Ogni tanto, ad una curva della valle, si scorgeva di fronte, altissima, tagliata in coste precipitose, la via che si arrampicava a zig zag. Ci si arrivava, si guardava allora in su, eccola ancora di fronte, la strada, sempre più alta. Drogo domandò: "Scusi, signor capitano…".
"Dica, dica pure."
"C'è ancora molta strada?"
"Non molta, forse due ore e mezzo, anche tre forse, di questo passo. Forse per mezzogiorno ci siamo, effettivamente."
Tacquero per un pezzo, i cavalli erano tutti sudati, quello del capitano era stanco, trascinava le zampe.
Ortiz disse: "Viene dall'Accademia reale, no? ".
"Sissignore, dall'Accademia."
"Già, e dica: c'è ancora il colonnello Magnus?"
"Colonnello Magnus? Non mi pare, non lo conosco."
La valle adesso si stringeva, chiudendo il passo ai raggi del sole.
Cupe gole laterali si aprivano ogni tanto, ne scendevano venti gelidi, in cima si scorgevano ripidissimi monti a cono; due tre giorni, si sarebbe detto, non bastavano a raggiungere la vetta, tanto sembravano alti. Ortiz disse: "E mi dica, tenente. C'è ancora il maggiore Bosco? Fa ancora scuola di tiro? ".
"Nossignore, non mi pare, c'è Zimmermann, il maggiore Zimmermann." "Già, Zimmermann, effettivamente, l'ho sentito nominare. La questione è che sono passati molti anni, dai miei tempi ad oggi… saranno tutti cambiati oramai."
Entrambi ora pensavano a qualche cosa. La strada era uscita nuovamente al sole, montagne si succedevano a montagne, adesso più ripide e con alcune pareti di roccia.
Drogo disse: "L'ho vista ieri sera da lontano".
"Che cosa, la Fortezza?"
"Sì, la Fortezza" fece una pausa e poi, per mostrarsi gentile:
"Dev'essere grandiosa, vero? Mi è sembrata immensa."
"Grandiosa la Fortezza? No no, è una delle più piccole, una costruzione vecchissima, è da lontano che fa un certo effetto."
Tacque un momento, aggiunse: "Vecchissima, completamente superata".
"Ma è una delle principali, vero?"
"No no, è una fortezza di seconda categoria" rispose Ortiz. Pareva che ci trovasse gusto a dirne male, ma in un tono speciale; così come uno si diverte a notare i difetti del figlio, sicuro che saranno sempre ridicola cosa di fronte ai suoi meriti sconfinati.
"E' un tratto di frontiera morta" aggiunse Ortiz. "Così non l'hanno mai cambiata, è sempre rimasta come un secolo fa."
"Come: frontiera morta?"
"Una frontiera che non dà pensiero. Davanti c'è un grande deserto."
"Un deserto?"
"Un deserto effettivamente, pietre e terra secca, lo chiamano il deserto dei Tartari."
Drogo domandò: "Perché dei Tartari? C'erano i Tartari? ".
"Anticamente, credo. Ma più che altro una leggenda. Nessuno deve essere passato di là, neppure nelle guerre passate." "Così la Fortezza non è mai servita a niente?" "A niente" disse il capitano.
Alzandosi sempre più la strada, gli alberi erano finiti, solo rari cespugli rimanevano qua e là; per il resto prati riarsi, rocce, frane di terra rossa.
"Scusi, signor capitano, ci sono paesi vicini?"
"Eh, vicini no. C'è San Rocco, ma saranno trenta chilometri."
"Poco da divertirsi allora, mi immagino."
"Poco da divertirsi, poco, effettivamente."
L'aria era diventata più fresca, i fianchi delle montagne si arrotondavano, lasciando presagire le creste finali.
"E non ci si annoia, signor capitano?" chiese Giovanni, con accento confidenziale, ridendo, come per dire che lui non ci avrebbe badato lo stesso.
"Uno si abitua" rispose Ortiz e aggiunse, con sottinteso rimprovero:
"Io ci sono da quasi diciott'anni. Mi sbaglio anzi, diciott'anni compiuti".
"Diciott'anni?" fece Giovanni impressionato.
"Diciotto" rispose il capitano.
Un volo di corvi passò rasente ai due ufficiali, si inabissò nell'imbuto della valle.
"Corvi" disse il capitano.
Giovanni non rispose, stava pensando alla vita che lo attendeva, si sentiva estraneo a quel mondo, a quella solitudine, a quelle montagne.
Domandò:
"Ma degli ufficiali che vanno a fare lassù il servizio di prima nomina, ce n'è qualcuno che poi si ferma?"
"Pochi adesso" rispose Ortiz, quasi pentito di aver parlato male della Fortezza, accorgendosi che l'altro adesso esagerava "quasi nessuno anzi. Adesso tutti vogliono la guarnigione brillante. Una volta era un onore la Fortezza Bastiani, adesso par quasi una punizione." Tacque Giovanni, ma l'altro insisteva:
"Dopo tutto è una guarnigione di confine. In genere ci sono elementi di primo ordine. Un posto di confine è sempre un posto di confine, effettivamente."
Drogo taceva, con addosso un'improvvisa oppressione. L'orizzonte si era allargato, sullo sfondo comparivano curiose sagome di montagne rocciose, rupi aguzze che si accavallavano nel cielo.
"Adesso, anche nell'esercito, le concezioni sono cambiate" continuava Ortiz. "Una volta la Fortezza Bastiani era un grande onore. Adesso dicono che è una frontiera morta, non pensano che la frontiera è sempre frontiera e non si sa mai…"
Un ruscello attraversava la strada. Si fermarono per far bere i cavalli, e scesi di sella camminarono un po' su e giù per sgranchirsi. Ortiz disse: "Sa quello che c'è effettivamente di primo ordine?" e rise di gusto.
"Che cosa, signor capitano?"
"La cucina, vedrà alla Fortezza come si mangia. E questo spiega la frequenza delle ispezioni. Ogni quindici giorni un generale."
Drogo rise per complimento. Non riusciva a capire se Ortiz fosse un cretino, nascondesse qualche cosa o tenesse quei discorsi così, senza il minimo impegno.
"Benissimo" fece Giovanni "ho una fame!"
"Oh, non ci manca molto oramai. Vede quella gobba con una macchia di ghiaia? Ecco, proprio dietro."
Ripreso il cammino, proprio dietro la gobba con una macchia di ghiaia, i due ufficiali sbucarono sul ciglione di un pianoro in leggera salita e la Fortezza comparve loro dinanzi, a poche centinaia di metri. Pareva davvero piccola in confronto alla visione della sera prima. Dal forte centrale, che in fondo assomigliava a una caserma con poche finestre, partivano due bassi muraglioni merlati che lo collegavano alle ridotte laterali, due per parte. I muri sbarravano così debolmente l'intero valico, largo circa cinquecento metri, chiuso ai fianchi da alte precipitose rupi. A destra, proprio sotto la parete della montagna, il pianoro si infossava in una specie di sella; là passava l'antica strada del valico, e terminava contro le mura.
Il forte era silenzioso, immerso nel pieno sole meridiano, privo di ombre. I suoi muri (il fronte non si scorgeva essendo rivolto a settentrione) si stendevano nudi e giallastri. Un camino emetteva pallido fumo. Lungo tutto il ciglione dell'edificio centrale, delle mura e delle ridotte, si vedevano decine di sentinelle, col fucile in spalla, camminare su e giù metodiche, ciascuna per un piccolo tratto. Simili a moto pendolare, esse scandivano il cammino del tempo, senza rompere l'incanto di quella solitudine che risultava immensa.
Le montagne a destra e a sinistra si prolungavano a vista d'occhio in dirupate catene, apparentemente inaccessibili. Anch'esse, almeno a quell'ora, avevano un colore giallo e riarso.
Istintivamente Giovanni Drogo fermò il cavallo. Girando lentamente gli occhi, fissava le tetre mura, senza riuscire a decifrarne il senso. Pensò a una prigione, pensò a una reggia abbandonata. Un lieve soffio di vento fece ondeggiare una bandiera sopra il forte, che prima pendeva floscia confondendosi con l'antenna. Si udì una vaga eco di tromba. Le sentinelle camminavano lente. Sul piazzale dinanzi alla porta d'ingresso tre quattro uomini (non si capiva per la distanza se fossero soldati) stavano caricando dei sacchi sopra un carro. Ma tutto ristagnava in un torpore misterioso.
Anche il capitano Ortiz si era fermato a guardare l'edificio.
"Eccola" disse, benché fosse perfettamente inutile.
Drogo pensò: "Adesso mi domanda che cosa me ne pare" e ne ebbe fastidio. Invece il capitano tacque.
Non era imponente, la Fortezza Bastiani, con le sue basse mura, né in alcun modo bella, né pittoresca di torri e bastioni, assolutamente nulla c'era che consolasse quella nudità, che ricordasse le dolci cose della vita. Eppure, come la sera prima dal fondo della gola, Drogo la guardava ipnotizzato e un inesplicabile orgasmo gli entrava nel cuore. E dietro, che cosa c'era? Di là di quell'inospitale edificio, di là dei merli, delle casematte, delle polveriere, che chiudevano la vista, quale mondo si apriva? Come appariva il regno del Nord, il pietroso deserto per dove nessuno era mai passato? La carta - ricordava vagamente Drogo - segnava al di là del confine una vasta zona con pochissimi nomi, ma dall'alto della fortezza si sarebbe visto almeno qualche paese, qualche prato, una casa, oppure soltanto la desolazione di una landa disabitata?
Egli si senti improvvisamente solo e la sua baldanza di soldato, così disinvolta fino allora, fino a che duravano le placide esperienze di guarnigione, con la comoda casa, con gli amici allegri sempre al fianco, con le piccole avventure nei giardini notturni, tutta la sicurezza in sé gli era venuta di colpo a mancare. Gli pareva, la Fortezza, uno di quei mondi sconosciuti a cui mai aveva pensato sul serio di poter appartenere, non perché gli sembrassero odiosi, ma perché infinitamente lontani dalla sua solita vita. Un mondo ben più impegnativo, senza alcuno splendore che non fosse quello delle sue geometriche leggi.
Oh, tornare. Non varcare neppure la soglia della Fortezza e ridiscendere al piano, alla sua città, alle vecchie abitudini. Questo fu il primo pensiero di Drogo e non importa se tanta debolezza fosse vergognosa per un soldato, lui era anche pronto a confessarla, se occorresse, purché lo lasciassero subito andare. Ma una densa nube si levava bianca, dall'invisibile orizzonte del nord, sopra gli spalti, e imperturbabili, sotto il sole a picco, le sentinelle camminavano su e giù come automi. Il cavallo di Drogo fece un nitrito. Poi ritornò il grande silenzio.
Giovanni staccò finalmente gli occhi dalla Fortezza e guardò di fianco a sé il capitano, sperando in una parola amica. Anche Ortiz era rimasto immobile e fissava intensamente le gialle mura. Sì, lui che ci viveva da diciott'anni, le contemplava, quasi ammaliato, come se rivedesse un prodigio. Pareva che non si stancasse di rimirarle e un vago sorriso insieme di gioia e di tristezza illuminava lentamente il suo volto.