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La coscienza di Zeno - Italo Svevo (Zeno's Conscience), 4.7 La Moglie e l'Amante

4.7 La Moglie e l'Amante

Augusta m'interruppe una seconda volta per mettere le cose a posto e raccontò come essa avesse dovuto evitare i musei per il pericolo che, per causa mia, correvano i capolavori. Non s'accorgeva che così rivelava non la falsità di quel particolare soltanto! Se ci fosse stato a quel tavolo un osservatore, avrebbe presto fatto a scoprire di quale natura fosse quell'amore ch'io prospettavo in un ambiente ove non aveva potuto svolgersi.

Ripresi il lungo, slavato discorso raccontando l'arrivo in casa nostra e come ambedue ci fossimo messi a perfezionarla facendo questo e quello e fra altro anche una lavanderia.

Sempre ridendo, Augusta m'interruppe di nuovo:

— Questa non è mica una festa data in nostro onore, ma in onore di Ada e Guido! Parla di loro!

Tutti annuirono rumorosamente. Risi anch'io accorgendomi che per opera mia si era arrivati ad una vera lietezza rumorosa quale è di prammatica in simili occasioni. Ma non trovai più nulla da dire. Mi pareva di aver parlato per ore. Ingoiai vari altri bicchieri di vino uno dopo l'altro:

— Questo per Ada! - Mi rizzai per un momento per vedere se essa avesse fatte le corna sotto la tovaglia.

— Questo per Guido! - e aggiunsi, dopo aver tracannato il vino:

— Di tutto cuore! - obliando che al primo bicchiere non era stata aggiunta tale dichiarazione.

— Questo per il vostro figliolo maggiore!

E ne avrei bevuti parecchi di quei bicchieri per i loro figliuoli, se non ne fossi stato finalmente impedito. Per quei poveri innocenti io avrei bevuto tutto il vino che si trovava su quel tavolo.

Poi tutto divenne anche più oscuro. Chiaramente ricordo una cosa sola: la mia principale preoccupazione era di non apparire ubriaco. Mi tenevo eretto e parlavo poco. Diffidavo di me stesso, sentivo il bisogno di analizzare ogni parola prima di dirla. Mentre il discorso generale si svolgeva, io dovevo rinunziare a prendervi parte perché non mi si lasciava il tempo di chiarire il mio torbido pensiero. Volli iniziare un discorso io stesso e dissi a mio suocero:

— Hai sentito che l'Extérieur è caduto di due punti?

Avevo detto una cosa che non mi concerneva affatto e che avevo sentita dire in Borsa; volevo solo parlare di affari, roba seria di cui un ubbriaco di solito non si ricorda. Ma pare che per mio suocero la cosa fosse meno indifferente e mi diede del corvo dalle male nuove. Con lui non ne indovinavo una.

Allora mi occupai della mia vicina, Alberta. Si parlò di amore. A lei interessava in teoria e a me, per il momento, non interessava affatto in pratica. Perciò era bello parlarne. Mi domandò delle idee ed io ne scopersi subito una che mi parve risultare evidente dalla mia esperienza della giornata stessa. Una donna era un oggetto che variava di prezzo ben più di qualunque valore di Borsa. Alberta mi fraintese e credette che io volessi dire una cosa saputa da tutti, cioè che una donna di una certa età aveva tutt'altro valore che ad un'altra. Mi spiegai più chiaramente: una donna poteva avere un alto valore ad una certa ora della mattina, nessunissimo a mezzodì, per valere nel pomeriggio il doppio che alla mattina e finire alla sera con un valore addirittura negativo. Spiegai il concetto di valore negativo: una donna aveva tale valore quando un uomo calcolava quale somma sarebbe pronto di pagare per mandarla molto ma molto lontano da lui.

Tuttavia la povera commediografa non vedeva la giustezza della mia scoperta mentre io, ricordando il movimento di valore che quel giorno stesso avevano subito Carla e Augusta, ne ero sicuro. Intervenne il vino quando volli spiegarmi meglio e deviai assolutamente:

— Vedi, - le dissi - supponendo che tu ora abbia il valore di X e mi permetta di premere il tuo piedino col mio, tu aumenti immediatamente almeno di un altro X.

Accompagnai subito alle parole l'atto.

Rossa, rossa ella sottrasse il piede e, volendo apparire spiritosa, disse:

— Ma questa è pratica e non più teoria. Me ne appellerò ad Augusta.

Devo confessare che anch'io sentivo quel piedino ben altrimenti che un'arida teoria, ma protestai gridando con l'aria più candida del mondo:

— È pura teoria, purissima, ed è male da parte tua di sentirla altrimenti.

Le fantasie del vino sono veri avvenimenti.

Per lungo tempo io ed Alberta non dimenticammo che io avevo toccato una parte del suo corpo avvisandola che lo facevo per goderne. La parola aveva rilevato l'atto e l'atto la parola. Finché essa non si sposò ebbe per me un sorriso e un rossore, poi, invece, rossore ed ira. Le donne son fatte così. Ogni giorno che sorge porta loro una nuova interpretazione del passato. Dev'essere una vita poco monotona la loro. Da me, invece, l'interpretazione di quel mio atto fu sempre la stessa: il furto di piccolo oggetto dal sapore intenso e fu colpa di Alberta se in certa epoca cercai di far ricordare quell'atto mentre invece più tardi avrei pagato qualche cosa perché fosse dimenticato del tutto.

Ricordo anche che prima di lasciare quella casa avvenne un'altra cosa e ben più grave. Restai, per un istante, solo con Ada. Giovanni si era coricato da tempo e gli altri prendevano congedo dal signor Francesco che andava all'albergo accompagnato da Guido. Io guardai Ada lungamente vestita tutta di pizzi bianchi, le spalle e le braccia nude. Restai lungamente muto benché sentissi il bisogno di dirle qualche cosa; ma, dopo analizzata, sopprimevo qualunque frase che mi venisse alle labbra. Ricordo che analizzai anche se mi fosse stato permesso di dirle: «Come mi fa piacere che finalmente ti sposi e sposi il mio grande amico Guido. Ora appena sarà tutto finito fra di noi.». Volevo dire una bugia perché tutti sapevano che fra di noi tutto era finito da varii mesi, ma mi pareva che quella bugia fosse un bellissimo complimento ed è certo che una donna, vestita così, domanda complimenti e se ne compiace. Però dopo lunga riflessione non ne feci nulla. Soppressi quelle parole perché nel mare di vino in cui nuotavo, trovai una tavola che mi salvò. Pensai che avevo torto di rischiare l'affetto di Augusta per fare un piacere ad Ada che non mi voleva bene. Ma, nel dubbio che per qualche istante mi turbò la mente, eppoi anche quando con uno sforzo da quelle parole mi staccai, diedi ad Ada una tale occhiata ch'essa si alzò e uscì dopo di essersi voltata a sorvegliarmi con spavento, pronta forse di mettersi a correre.

Anche una propria occhiata si ricorda quanto e forse meglio di una parola; è più importante di una parola perché non v'è in tutto il vocabolario una parola che sappia spogliare una donna. Io so ora che quella mia occhiata falsò le parole che avevo ideate, semplificandole. Essa per gli occhi di Ada, aveva tentato di penetrare al di là dei vestiti e anche della sua epidermide. E aveva certamente significato: «Vuoi venire intanto subito a letto con me?». Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità. Tutt'altro che la verità anzi: rivela dell'individuo specialmente la storia passata e dimenticata e non la sua attuale volontà; getta capricciosamente alla luce anche tutte le ideuccie con le quali in epoca più o meno recente ci si baloccò e che si è dimenticate; trascura le cancellature e legge tutto quello ch'è ancora percettibile nel nostro cuore. E si sa che non v'è modo di cancellarvi niente tanto radicalmente, come si fa di un giro errato su di una cambiale. Tutta la nostra storia vi è sempre leggibile e il vino la grida, trascurando quello che poi la vita vi aggiunse.

Per andare a casa, Augusta ed io prendemmo una vettura. Nell'oscurità mi parve fosse mio dovere di baciare e abbracciare mia moglie perché in simili incontri molte volte avevo usato così e temevo che, se non l'avessi fatto, essa avrebbe potuto pensare che fra di noi ci fosse qualche cosa di mutato. Non v'era nulla di cambiato fra di noi: il vino gridava anche questo! Ella aveva sposato Zeno Cosini che, immutato, le stava accanto. Che cosa importava se quel giorno io avevo possedute delle altre donne di cui il vino, per rendermi più lieto, aumentava il numero ponendo fra di esse non so più se Ada o Alberta?

Ricordo che, addormentandomi, rividi per un istante la faccia marmorea del Copler sul letto di morte. Pareva domandasse giustizia, cioè le lacrime ch'io gli avevo promesse. Ma non le ebbe neppure allora perché il sonno mi abbracciò annientandomi. Prima però mi scusai col fantasma: «Aspetta ancora per poco. Sono subito con te!». Con lui non fui più, giammai, perché non assistetti neppure al suo funerale. Avevamo tanto da fare in casa ed io anche fuori, che non ci fu tempo per lui. Se ne parlò talvolta, ma solo per ridere ricordando che il mio vino l'aveva tante volte ammazzato e fatto risuscitare. Anzi egli restò proverbiale in famiglia e quando i giornali, come avviene spesso, annunziano e smentiscono la morte di qualcuno, noi diciamo: «Come il povero Copler».

La mattina dopo mi levai con un po' di male di testa. Mi affannò un poco il mio dolore al fianco, probabilmente perché, finché era durato l'effetto del vino, non lo avevo sentito affatto e subito ne avevo perduta l'abitudine. Ma in fondo non ero triste. Augusta contribuì alla mia serenità dicendomi che sarebbe stato male se io non fossi andato a quella cena di nozze, perché prima del mio arrivo le era sembrato di assistere ad un mortorio. Non avevo dunque da aver rimorso del mio contegno. Poi sentii che una cosa sola non mi era stata perdonata: l'occhiataccia ad Ada!

Quando c'incontrammo nel pomeriggio, Ada mi porse la mano con un'ansietà che aumentò la mia. Forse però le pesava sulla coscienza quella sua fuga ch'era stata tutt'altro che gentile. Ma anche la mia occhiata era stata una gran brutta azione. Ricordavo esattamente il movimento del mio occhio e capivo come non sapesse dimenticare chi ne era stato trafitto. Bisognava riparare con un contegno accuratamente fraterno.

Si dice che quando si soffre per aver bevuto troppo, non ci sia miglior cura che di berne dell'altro. Io, quella mattina, andai a rianimarmi da Carla. Andai da lei proprio col desiderio di vivere più intensamente ed è quello che riconduce all'alcool, ma camminando verso di lei, avrei desiderato ch'essa m'avesse fornita tutt'altra intensità di vita del giorno prima. Mi accompagnavano dei propositi poco precisi ma tutti onesti. Sapevo di non poter abbandonarla subito, ma potevo avviarmi a quell'atto tanto morale pian pianino. Intanto avrei continuato a parlarle di mia moglie. Senza sorprendersene, un bel giorno essa avrebbe saputo com'io amassi mia moglie. Avevo nella mia giubba un'altra busta con del denaro per essere pronto ad ogni evenienza.

Arrivai da Carla, e un quarto d'ora dopo essa mi rimproverò con una parola che per la sua giustezza lungamente mi risonò all'orecchio: «Come sei rude, tu, in amore!». Non sono conscio di essere stato rude proprio allora. Avevo cominciato a parlarle di mia moglie, e le lodi tributate ad Augusta erano risonate all'orecchio di Carla come tanti rimproveri rivolti a lei.

Poi fu Carla che mi ferì. Per passare il tempo, le avevo raccontato come mi fossi seccato al banchetto, specie per un brindisi che avevo detto e ch'era stato assolutamente spropositato. Carla osservò:

— Se tu amassi tua moglie non sbaglieresti i brindisi al tavolo di suo padre.

E mi diede anche un bacio per rimeritarmi del poco amore che portavo a mia moglie.

Intanto lo stesso desiderio d'intensificare la mia vita, che m'aveva tratto da Carla, m'avrebbe riportato subito da Augusta, ch'era la sola con cui avrei potuto parlare del mio amore per lei. Il vino preso come cura era già di troppo o volevo oramai tutt'altro vino. Ma quel giorno la mia relazione con Carla doveva ingentilirsi, coronarsi finalmente di quella simpatia che - come seppi più tardi - la povera giovinetta meritava. Essa più volte m'aveva offerto di cantarmi una canzonetta, desiderosa di avere il mio giudizio. Ma io non avevo voluto saperne di quel canto di cui non m'importava nemmeno più l'ingenuità. Le dicevo che giacché essa rifiutava di studiare, non valeva la pena di cantare più.

La mia era proprio una grave offesa ed essa ne sofferse. Seduta accanto a me, per non farmi vedere le sue lacrime essa guardava immota le mani che teneva intrecciate in grembo. Ripeté il suo rimprovero:

— Come devi essere rude con chi non ami, se lo sei tanto con me!

Buon diavolo come sono, mi lasciai intenerire da quelle lacrime e pregai Carla di squarciarmi le orecchie con la sua grande voce nel piccolo ambiente. Essa ora se ne schermiva e dovetti persino minacciare di andarmene se non fossi stato compiaciuto. Devo riconoscere che mi sembrò per un istante anche di aver trovato un pretesto per riconquistare almeno temporaneamente la mia libertà, ma, alla minaccia, la mia umile serva si recò con gli occhi bassi a sedere al pianoforte. Dedicò poi un istante breve breve al raccoglimento e si passò la mano sul viso quasi a scacciarne ogni nube. Vi riuscì con una prontezza che mi sorprese e la sua faccia, quando fu scoperta da quella mano, non ricordava affatto il dolore di prima.

Ebbi subito una grande sorpresa. Carla diceva la sua canzonetta, la raccontava, non la gridava. Le grida - come essa poi mi disse - le erano state imposte dal suo maestro; ora le aveva congedate insieme a lui. La canzonetta triestina:

Fazzo l'amor xe vero Cossa ghe xe de mal Volè che a sedes'ani Stio là come un cocal...

è una specie di racconto o di confessione. Gli occhi di Carla brillavano di malizia e confessavano anche più delle parole. Non c'era paura di sentirsi leso il timpano ed io m'avvicinai a lei, sorpreso e incantato. Sedetti accanto a lei ed essa allora raccontò la canzonetta proprio a me, socchiudendo gli occhi per dirmi con la nota più lieve e più pura che quei sedici anni volevano la libertà e l'amore.

Per la prima volta vidi esattamente la faccina di Carla: un ovale purissimo interrotto dalla profonda e arcuata incavatura degli occhi e degli zigomi tenui, reso anche più puro da un biancore niveo, ora ch'essa teneva la faccia rivolta a me e alla luce, e perciò non offuscata da alcun'ombra. E quelle linee dolci in quella carne che pareva trasparente, e celava tanto bene il sangue e le vene forse troppo deboli per poter apparire, domandavano affetto e protezione.

Ora ero pronto di accordarle tanto affetto e protezione, incondizionatamente, ed anche nel momento in cui mi sarei sentito tanto disposto di ritornare ad Augusta, perché essa in quel momento non domandava che un affetto paterno che potevo concedere senza tradire. Quale soddisfazione! Restavo là con Carla, le accordavo quello che la sua faccina ovale domandava e non mi allontanavo da Augusta! Il mio affetto per Carla si ingentilì. Da allora, quando sentivo il bisogno di onestà e purezza, non occorse più abbandonarla, ma potei restare con lei e cambiare discorso.

Questa nuova dolcezza era dovuta alla sua faccina ovale ch'io allora avevo scoperto o al suo talento musicale? Innegabile il talento! La strana canzonetta triestina finisce con una strofe in cui la stessa giovinetta proclama di essere vecchia e malandata e che oramai non ha più bisogno di altra libertà che di morire. Carla continuava a profondere malizia e lietezza nel verso povero. Era tuttavia la giovinezza che si fingeva vecchia per proclamare meglio da quel nuovo punto di vista il suo diritto.

Quando terminò e mi trovò in piena ammirazione, anch'essa per la prima volta oltre che amarmi mi volle veramente bene. Sapeva che a me quella canzonetta sarebbe piaciuta di più del canto che le insegnava il suo maestro:

— Peccato - aggiunse con tristezza, - che se non si vuole andare pei cafés chantants, non si possa trarre da ciò il necessario per vivere.

La convinsi facilmente che le cose non stavano così. V'erano a questo mondo molte grandi artiste che dicevano e non cantavano.

Essa si fece dire dei nomi. Era beata di apprendere quanto importante avrebbe potuto divenire la sua arte.

— Io so - aggiunse ingenuamente, - che questo canto è ben più difficile dell'altro per il quale basta gridare a perdifiato.

Io sorrisi e non discussi. La sua arte era anch'essa certamente difficile ed essa lo sapeva perché era quella la sola arte che conoscesse. Quella canzonetta le era costata uno studio lunghissimo. L'aveva detta e ridetta correggendo l'intonazione di ogni parola, di ogni nota. Adesso ne studiava un'altra, ma l'avrebbe saputa soltanto di lì a qualche settimana. Prima non voleva farla sentire.

Seguirono dei momenti deliziosi in quella stanza ove fino ad allora non s'erano svolte che delle scene di brutalità. Ecco che a Carla s'apriva anche una carriera. La carriera che m'avrebbe liberato di lei. Molto simile a quella che per lei aveva sognato il Copler! Le proposi di trovarle un maestro. Essa dapprima si spaventò della parola, ma poi si lasciò convincere facilmente quando le dichiarai che si poteva provare, e ch'essa sarebbe rimasta libera di congedarlo quando le fosse sembrato noioso o poco utile.

Anche con Augusta mi trovai quel giorno molto bene. Avevo l'animo tranquillo come se fossi ritornato da una passeggiata e non dalla casa di Carla o come avrebbe dovuto averlo il povero Copler quando abbandonava quella casa nei giorni in cui non gli avevano dato motivo ad arrabbiarsi. Ne godetti come se fossi giunto a un'oasi. Per me e per la mia salute sarebbe stato gravissimo se tutta la mia lunga relazione con Carla si fosse svolta in un'eterna agitazione. Da quel giorno, come risultato della bellezza estetica, le cose si svolsero più calme con le lievi interruzioni necessarie a rianimare tanto il mio amore per Carla, quanto quello per Augusta. Ogni mia visita a Carla significava bensì un tradimento per Augusta, ma tutto era presto dimenticato in un bagno di salute e di buoni propositi. Ed il buon proposito non era brutale ed eccitante come quando avevo nella strozza il desiderio di dichiarare a Carla che non l'avrei rivista mai più. Ero dolce e paterno: ecco che di nuovo io pensavo alla sua carriera. Abbandonare ogni giorno una donna per correrle dietro il giorno appresso, sarebbe stata una fatica a cui il mio povero cuore non avrebbe saputo reggere. Così, invece, Carla restava sempre in mio potere ed io l'avviavo ora in una direzione ed ora in un'altra.

Per lungo tempo i propositi buoni non furono tanto forti da indurmi a correre per la città in cerca del maestro che avrebbe fatto per Carla. Mi baloccavo col proposito buono, restando sempre seduto. Poi un bel giorno Augusta mi confidò che si sentiva madre ed allora il mio proposito per un istante ingigantì e Carla ebbe il suo maestro.

Avevo esitato tanto anche perché era evidente che, anche senza maestro, Carla aveva saputo avviarsi ad un lavoro veramente serio nella sua nuova arte. Ogni settimana essa sapeva dirmi una canzonetta nuova, analizzata accuratamente nell'atteggiamento e nella parola. Certe note avrebbero abbisognato di essere levigate un poco, ma forse avrebbero finito con l'affinarsi da sé. Una prova decisiva che Carla era una vera artista, io l'avevo nel modo com'essa perfezionava continuamente le sue canzonette senza mai rinunziare alle cose migliori ch'essa aveva saputo far sue di prim'acchito. La indussi spesso a ridirmi il suo primo lavoro e vi trovavo aggiunto ogni volta qualche accento nuovo ed efficace. Data la sua ignoranza, era meraviglioso che nel grande sforzo di scoprire una forte espressione, non le fosse mai capitato di cacciare nella canzonetta dei suoni falsi o esagerati. Da vera artista, essa aggiungeva ogni giorno una pietruccia al piccolo edificio, e tutto il resto restava intatto. Non la canzonetta era stereotipata, ma il sentimento che la dettava. Carla, prima di cantare, si passava sempre la mano sulla faccia e dietro quella mano si creava un istante di raccoglimento che bastava a piombarla nella commediola ch'essa doveva costruire. Una commedia non sempre puerile. Il mentore ironico di

Rosina te xe nata in un casoto

minacciava, ma non troppo seriamente. Pareva che la cantante avvertisse di sapere ch'era la storia di ogni giorno. Il pensiero di Carla era un altro, ma finiva con l'arrivare allo stesso risultato:

— La mia simpatia è per Rosina perché altrimenti la canzonetta non meriterebbe di essere cantata, - essa diceva.

Avvenne qualche volta che Carla inconsapevolmente riaccendesse il mio amore per Augusta e il mio rimorso. Infatti ciò si avverò ogni qualvolta ella si permise dei movimenti offensivi contro la posizione tanto solidamente occupata da mia moglie. Era sempre vivo il suo desiderio di avermi tutto suo per una notte intera; mi confidò che le pareva che, per non avere mai dormito uno accanto all'altro, fossimo meno intimi. Volendo abituarmi ad essere più dolce con lei, non mi rifiutai risolutamente di compiacerla, ma quasi sempre pensai che non sarebbe stato possibile di fare una cosa simile a meno che non mi fossi rassegnato di trovare alla mattina Augusta ad una finestra donde m'avesse aspettato la notte intera. Eppoi, non sarebbe stato questo un nuovo tradimento a mia moglie? Talvolta, cioè quando correvo a Carla pieno di desiderio, mi sentivo propenso di accontentarla, ma subito dopo ne vedevo l'impossibilità e la sconvenienza. Ma così non si arrivò per lungo tempo né ad eliminare la prospettiva della cosa né a realizzarla. Apparentemente si era d'accordo: prima o poi avremmo passata una notte intera insieme.

Intanto ora ce n'era la possibilità perché io avevo indotto le Gerco di congedare quegl'inquilini che tagliavano la loro casa in due parti, e Carla aveva finalmente la sua camera da letto.

Ora avvenne che poco dopo le nozze di Guido, mio suocero fu colto da quella crisi che doveva ucciderlo ed io ebbi l'imprudenza di raccontare a Carla che mia moglie doveva passare una notte al capezzale di suo padre per concedere un riposo a mia suocera. Non ci fu più il caso di esimermi: Carla pretese che passassi con lei quella stessa notte ch'era tanto dolorosa per mia moglie. Non ebbi il coraggio di ribellarmi a tale capriccio e mi vi acconciai col cuore pesante.

Mi preparai a quel sacrificio. Non andai da Carla alla mattina e così corsi da lei alla sera con pieno desiderio dicendomi anche ch'era infantile di credere di tradire più gravemente Augusta perché la tradivo in un momento in cui essa per altre cause soffriva. Perciò arrivai persino a spazientirmi perché la povera Augusta mi tratteneva per spiegarmi come avessi dovuto movermi per avere pronte le cose di cui potevo aver bisogno a cena, per la notte ed anche per il caffè della mattina dopo.

Carla m'accolse nello studio. Poco dopo colei ch'era sua madre e serva ci servì una cenetta squisita a cui io aggiunsi i dolci che avevo portati con me. La vecchia ritornò poi per sparecchiare ed io veramente avrei voluto coricarmi subito, ma era veramente ancora troppo di buon'ora e Carla m'indusse di starla a sentir cantare. Essa passò tutto il suo repertorio e fu quella certamente la parte migliore di quelle ore, perché l'ansietà con cui aspettavo la mia amante, andava ad aumentare il piacere che sempre m'aveva data la canzonetta di Carla.

— Un pubblico ti coprirebbe di fiori e d'applausi - le dichiarai ad un certo momento dimenticando che sarebbe stato impossibile di mettere tutto un pubblico nello stato d'animo in cui mi trovavo io.

Ci coricammo infine nello stesso letto in una stanzuccia piccola e del tutto disadorna. Pareva un corridoio stroncato da una parete. Non avevo ancora sonno e mi disperavo al pensiero che, se ne avessi avuto, non avrei potuto dormire con tanta poca aria a mia disposizione.

Carla fu chiamata dalla voce timida di sua madre. Essa, per rispondere, andò all'uscio e lo socchiuse. La sentii come con voce concitata domandava alla vecchia che cosa volesse. Timidamente l'altra disse delle parole di cui non percepii il senso e allora Carla urlò prima di sbattere l'uscio in faccia alla madre:

— Lasciami in pace. T'ho già detto che per questa notte dormo di qua!

Così appresi che Carla, tormentata di notte dalla paura, dormiva sempre nella sua antica stanza da letto con la madre, ove aveva un altro letto, mentre quello sul quale dovevamo dormire insieme restava vuoto. Era certamente per paura ch'essa m'aveva indotto di fare quella partaccia ad Augusta. Confessò con una maliziosa allegria cui non partecipai, che con me si sentiva più sicura che con sua madre. Mi diede da pensare quel letto in prossimità di quella stanza da studio solitaria. Non l'avevo mai visto prima. Ero geloso! Poco dopo fui sprezzante anche per il contegno che Carla aveva avuto con quella sua povera madre. Era fatta un po' differentemente di Augusta che aveva rinunziato alla mia compagnia pur di assistere i suoi genitori. Io sono specialmente sensibile a mancanze di riguardo verso i proprii genitori, io, che avevo sopportato con tanta rassegnazione le bizze del mio povero padre.

Carla non poté accorgersi né della mia gelosia né del mio disprezzo. Soppressi le manifestazioni di gelosia ricordando come non avessi alcun diritto ad essere geloso visto che passavo buona parte delle mie giornate augurandomi che qualcuno mi portasse via la mia amante. Non v'era neppure alcuno scopo di far vedere il mio disprezzo alla povera giovinetta ormai che già mi baloccavo di nuovo col desiderio di abbandonarla definitivamente, e quantunque il mio sdegno fosse ora ingrandito anche dalle ragioni che poco prima avrebbero provocata la mia gelosia. Quello che occorreva era di allontanarsi al più presto da quella piccola stanzuccia non contenente di più di un metro cubo di aria, per soprappiù caldissima.

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4.7 La Moglie e l'Amante 4.7 Die Ehefrau und der Liebhaber 4.7 Η σύζυγος και ο εραστής 4.7 The Wife and the Lover 4.7 La femme et l'amant 4.7 A mulher e o amante 4.7 Hustrun och älskaren

Augusta m'interruppe una seconda volta per mettere le cose a posto e raccontò come essa avesse dovuto evitare i musei per il pericolo che, per causa mia, correvano i capolavori. Non s'accorgeva che così rivelava non la falsità di quel particolare soltanto! Se ci fosse stato a quel tavolo un osservatore, avrebbe presto fatto a scoprire di quale natura fosse quell'amore ch'io prospettavo in un ambiente ove non aveva potuto svolgersi.

Ripresi il lungo, slavato discorso raccontando l'arrivo in casa nostra e come ambedue ci fossimo messi a perfezionarla facendo questo e quello e fra altro anche una lavanderia.

Sempre ridendo, Augusta m'interruppe di nuovo:

— Questa non è mica una festa data in nostro onore, ma in onore di Ada e Guido! Parla di loro!

Tutti annuirono rumorosamente. Risi anch'io accorgendomi che per opera mia si era arrivati ad una vera lietezza rumorosa quale è di prammatica in simili occasioni. Ma non trovai più nulla da dire. Mi pareva di aver parlato per ore. Ingoiai vari altri bicchieri di vino uno dopo l'altro:

— Questo per Ada! - Mi rizzai per un momento per vedere se essa avesse fatte le corna sotto la tovaglia.

— Questo per Guido! - e aggiunsi, dopo aver tracannato il vino:

— Di tutto cuore! - obliando che al primo bicchiere non era stata aggiunta tale dichiarazione.

— Questo per il vostro figliolo maggiore!

E ne avrei bevuti parecchi di quei bicchieri per i loro figliuoli, se non ne fossi stato finalmente impedito. Per quei poveri innocenti io avrei bevuto tutto il vino che si trovava su quel tavolo.

Poi tutto divenne anche più oscuro. Chiaramente ricordo una cosa sola: la mia principale preoccupazione era di non apparire ubriaco. Mi tenevo eretto e parlavo poco. Diffidavo di me stesso, sentivo il bisogno di analizzare ogni parola prima di dirla. Mentre il discorso generale si svolgeva, io dovevo rinunziare a prendervi parte perché non mi si lasciava il tempo di chiarire il mio torbido pensiero. Volli iniziare un discorso io stesso e dissi a mio suocero:

— Hai sentito che l'Extérieur è caduto di due punti?

Avevo detto una cosa che non mi concerneva affatto e che avevo sentita dire in Borsa; volevo solo parlare di affari, roba seria di cui un ubbriaco di solito non si ricorda. Ma pare che per mio suocero la cosa fosse meno indifferente e mi diede del corvo dalle male nuove. Con lui non ne indovinavo una.

Allora mi occupai della mia vicina, Alberta. Si parlò di amore. A lei interessava in teoria e a me, per il momento, non interessava affatto in pratica. Perciò era bello parlarne. Mi domandò delle idee ed io ne scopersi subito una che mi parve risultare evidente dalla mia esperienza della giornata stessa. Una donna era un oggetto che variava di prezzo ben più di qualunque valore di Borsa. Alberta mi fraintese e credette che io volessi dire una cosa saputa da tutti, cioè che una donna di una certa età aveva tutt'altro valore che ad un'altra. Mi spiegai più chiaramente: una donna poteva avere un alto valore ad una certa ora della mattina, nessunissimo a mezzodì, per valere nel pomeriggio il doppio che alla mattina e finire alla sera con un valore addirittura negativo. Spiegai il concetto di valore negativo: una donna aveva tale valore quando un uomo calcolava quale somma sarebbe pronto di pagare per mandarla molto ma molto lontano da lui.

Tuttavia la povera commediografa non vedeva la giustezza della mia scoperta mentre io, ricordando il movimento di valore che quel giorno stesso avevano subito Carla e Augusta, ne ero sicuro. Intervenne il vino quando volli spiegarmi meglio e deviai assolutamente:

— Vedi, - le dissi - supponendo che tu ora abbia il valore di X e mi permetta di premere il tuo piedino col mio, tu aumenti immediatamente almeno di un altro X.

Accompagnai subito alle parole l'atto.

Rossa, rossa ella sottrasse il piede e, volendo apparire spiritosa, disse:

— Ma questa è pratica e non più teoria. Me ne appellerò ad Augusta.

Devo confessare che anch'io sentivo quel piedino ben altrimenti che un'arida teoria, ma protestai gridando con l'aria più candida del mondo:

— È pura teoria, purissima, ed è male da parte tua di sentirla altrimenti.

Le fantasie del vino sono veri avvenimenti.

Per lungo tempo io ed Alberta non dimenticammo che io avevo toccato una parte del suo corpo avvisandola che lo facevo per goderne. La parola aveva rilevato l'atto e l'atto la parola. Finché essa non si sposò ebbe per me un sorriso e un rossore, poi, invece, rossore ed ira. Le donne son fatte così. Ogni giorno che sorge porta loro una nuova interpretazione del passato. Dev'essere una vita poco monotona la loro. Da me, invece, l'interpretazione di quel mio atto fu sempre la stessa: il furto di piccolo oggetto dal sapore intenso e fu colpa di Alberta se in certa epoca cercai di far ricordare quell'atto mentre invece più tardi avrei pagato qualche cosa perché fosse dimenticato del tutto.

Ricordo anche che prima di lasciare quella casa avvenne un'altra cosa e ben più grave. Restai, per un istante, solo con Ada. Giovanni si era coricato da tempo e gli altri prendevano congedo dal signor Francesco che andava all'albergo accompagnato da Guido. Io guardai Ada lungamente vestita tutta di pizzi bianchi, le spalle e le braccia nude. Restai lungamente muto benché sentissi il bisogno di dirle qualche cosa; ma, dopo analizzata, sopprimevo qualunque frase che mi venisse alle labbra. Ricordo che analizzai anche se mi fosse stato permesso di dirle: «Come mi fa piacere che finalmente ti sposi e sposi il mio grande amico Guido. Ora appena sarà tutto finito fra di noi.». Volevo dire una bugia perché tutti sapevano che fra di noi tutto era finito da varii mesi, ma mi pareva che quella bugia fosse un bellissimo complimento ed è certo che una donna, vestita così, domanda complimenti e se ne compiace. Però dopo lunga riflessione non ne feci nulla. Soppressi quelle parole perché nel mare di vino in cui nuotavo, trovai una tavola che mi salvò. Pensai che avevo torto di rischiare l'affetto di Augusta per fare un piacere ad Ada che non mi voleva bene. Ma, nel dubbio che per qualche istante mi turbò la mente, eppoi anche quando con uno sforzo da quelle parole mi staccai, diedi ad Ada una tale occhiata ch'essa si alzò e uscì dopo di essersi voltata a sorvegliarmi con spavento, pronta forse di mettersi a correre.

Anche una propria occhiata si ricorda quanto e forse meglio di una parola; è più importante di una parola perché non v'è in tutto il vocabolario una parola che sappia spogliare una donna. Io so ora che quella mia occhiata falsò le parole che avevo ideate, semplificandole. Essa per gli occhi di Ada, aveva tentato di penetrare al di là dei vestiti e anche della sua epidermide. E aveva certamente significato: «Vuoi venire intanto subito a letto con me?». Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità. Tutt'altro che la verità anzi: rivela dell'individuo specialmente la storia passata e dimenticata e non la sua attuale volontà; getta capricciosamente alla luce anche tutte le ideuccie con le quali in epoca più o meno recente ci si baloccò e che si è dimenticate; trascura le cancellature e legge tutto quello ch'è ancora percettibile nel nostro cuore. E si sa che non v'è modo di cancellarvi niente tanto radicalmente, come si fa di un giro errato su di una cambiale. Tutta la nostra storia vi è sempre leggibile e il vino la grida, trascurando quello che poi la vita vi aggiunse.

Per andare a casa, Augusta ed io prendemmo una vettura. Nell'oscurità mi parve fosse mio dovere di baciare e abbracciare mia moglie perché in simili incontri molte volte avevo usato così e temevo che, se non l'avessi fatto, essa avrebbe potuto pensare che fra di noi ci fosse qualche cosa di mutato. Non v'era nulla di cambiato fra di noi: il vino gridava anche questo! Ella aveva sposato Zeno Cosini che, immutato, le stava accanto. Che cosa importava se quel giorno io avevo possedute delle altre donne di cui il vino, per rendermi più lieto, aumentava il numero ponendo fra di esse non so più se Ada o Alberta?

Ricordo che, addormentandomi, rividi per un istante la faccia marmorea del Copler sul letto di morte. Pareva domandasse giustizia, cioè le lacrime ch'io gli avevo promesse. Ma non le ebbe neppure allora perché il sonno mi abbracciò annientandomi. Prima però mi scusai col fantasma: «Aspetta ancora per poco. Sono subito con te!». Con lui non fui più, giammai, perché non assistetti neppure al suo funerale. Avevamo tanto da fare in casa ed io anche fuori, che non ci fu tempo per lui. Se ne parlò talvolta, ma solo per ridere ricordando che il mio vino l'aveva tante volte ammazzato e fatto risuscitare. Anzi egli restò proverbiale in famiglia e quando i giornali, come avviene spesso, annunziano e smentiscono la morte di qualcuno, noi diciamo: «Come il povero Copler».

La mattina dopo mi levai con un po' di male di testa. Mi affannò un poco il mio dolore al fianco, probabilmente perché, finché era durato l'effetto del vino, non lo avevo sentito affatto e subito ne avevo perduta l'abitudine. Ma in fondo non ero triste. Augusta contribuì alla mia serenità dicendomi che sarebbe stato male se io non fossi andato a quella cena di nozze, perché prima del mio arrivo le era sembrato di assistere ad un mortorio. Non avevo dunque da aver rimorso del mio contegno. Poi sentii che una cosa sola non mi era stata perdonata: l'occhiataccia ad Ada!

Quando c'incontrammo nel pomeriggio, Ada mi porse la mano con un'ansietà che aumentò la mia. Forse però le pesava sulla coscienza quella sua fuga ch'era stata tutt'altro che gentile. Ma anche la mia occhiata era stata una gran brutta azione. Ricordavo esattamente il movimento del mio occhio e capivo come non sapesse dimenticare chi ne era stato trafitto. Bisognava riparare con un contegno accuratamente fraterno.

Si dice che quando si soffre per aver bevuto troppo, non ci sia miglior cura che di berne dell'altro. Io, quella mattina, andai a rianimarmi da Carla. Andai da lei proprio col desiderio di vivere più intensamente ed è quello che riconduce all'alcool, ma camminando verso di lei, avrei desiderato ch'essa m'avesse fornita tutt'altra intensità di vita del giorno prima. Mi accompagnavano dei propositi poco precisi ma tutti onesti. Sapevo di non poter abbandonarla subito, ma potevo avviarmi a quell'atto tanto morale pian pianino. Intanto avrei continuato a parlarle di mia moglie. Senza sorprendersene, un bel giorno essa avrebbe saputo com'io amassi mia moglie. Avevo nella mia giubba un'altra busta con del denaro per essere pronto ad ogni evenienza.

Arrivai da Carla, e un quarto d'ora dopo essa mi rimproverò con una parola che per la sua giustezza lungamente mi risonò all'orecchio: «Come sei rude, tu, in amore!». Non sono conscio di essere stato rude proprio allora. Avevo cominciato a parlarle di mia moglie, e le lodi tributate ad Augusta erano risonate all'orecchio di Carla come tanti rimproveri rivolti a lei.

Poi fu Carla che mi ferì. Per passare il tempo, le avevo raccontato come mi fossi seccato al banchetto, specie per un brindisi che avevo detto e ch'era stato assolutamente spropositato. Carla osservò:

— Se tu amassi tua moglie non sbaglieresti i brindisi al tavolo di suo padre.

E mi diede anche un bacio per rimeritarmi del poco amore che portavo a mia moglie.

Intanto lo stesso desiderio d'intensificare la mia vita, che m'aveva tratto da Carla, m'avrebbe riportato subito da Augusta, ch'era la sola con cui avrei potuto parlare del mio amore per lei. Il vino preso come cura era già di troppo o volevo oramai tutt'altro vino. Ma quel giorno la mia relazione con Carla doveva ingentilirsi, coronarsi finalmente di quella simpatia che - come seppi più tardi - la povera giovinetta meritava. Essa più volte m'aveva offerto di cantarmi una canzonetta, desiderosa di avere il mio giudizio. Ma io non avevo voluto saperne di quel canto di cui non m'importava nemmeno più l'ingenuità. Le dicevo che giacché essa rifiutava di studiare, non valeva la pena di cantare più.

La mia era proprio una grave offesa ed essa ne sofferse. Seduta accanto a me, per non farmi vedere le sue lacrime essa guardava immota le mani che teneva intrecciate in grembo. Ripeté il suo rimprovero:

— Come devi essere rude con chi non ami, se lo sei tanto con me!

Buon diavolo come sono, mi lasciai intenerire da quelle lacrime e pregai Carla di squarciarmi le orecchie con la sua grande voce nel piccolo ambiente. Essa ora se ne schermiva e dovetti persino minacciare di andarmene se non fossi stato compiaciuto. Devo riconoscere che mi sembrò per un istante anche di aver trovato un pretesto per riconquistare almeno temporaneamente la mia libertà, ma, alla minaccia, la mia umile serva si recò con gli occhi bassi a sedere al pianoforte. Dedicò poi un istante breve breve al raccoglimento e si passò la mano sul viso quasi a scacciarne ogni nube. Vi riuscì con una prontezza che mi sorprese e la sua faccia, quando fu scoperta da quella mano, non ricordava affatto il dolore di prima.

Ebbi subito una grande sorpresa. Carla diceva la sua canzonetta, la raccontava, non la gridava. Le grida - come essa poi mi disse - le erano state imposte dal suo maestro; ora le aveva congedate insieme a lui. La canzonetta triestina:

Fazzo l'amor xe vero  Cossa ghe xe de mal  Volè che a sedes'ani  Stio là come un cocal...

è una specie di racconto o di confessione. Gli occhi di Carla brillavano di malizia e confessavano anche più delle parole. Non c'era paura di sentirsi leso il timpano ed io m'avvicinai a lei, sorpreso e incantato. Sedetti accanto a lei ed essa allora raccontò la canzonetta proprio a me, socchiudendo gli occhi per dirmi con la nota più lieve e più pura che quei sedici anni volevano la libertà e l'amore.

Per la prima volta vidi esattamente la faccina di Carla: un ovale purissimo interrotto dalla profonda e arcuata incavatura degli occhi e degli zigomi tenui, reso anche più puro da un biancore niveo, ora ch'essa teneva la faccia rivolta a me e alla luce, e perciò non offuscata da alcun'ombra. E quelle linee dolci in quella carne che pareva trasparente, e celava tanto bene il sangue e le vene forse troppo deboli per poter apparire, domandavano affetto e protezione.

Ora ero pronto di accordarle tanto affetto e protezione, incondizionatamente, ed anche nel momento in cui mi sarei sentito tanto disposto di ritornare ad Augusta, perché essa in quel momento non domandava che un affetto paterno che potevo concedere senza tradire. Quale soddisfazione! Restavo là con Carla, le accordavo quello che la sua faccina ovale domandava e non mi allontanavo da Augusta! Il mio affetto per Carla si ingentilì. Da allora, quando sentivo il bisogno di onestà e purezza, non occorse più abbandonarla, ma potei restare con lei e cambiare discorso.

Questa nuova dolcezza era dovuta alla sua faccina ovale ch'io allora avevo scoperto o al suo talento musicale? Innegabile il talento! La strana canzonetta triestina finisce con una strofe in cui la stessa giovinetta proclama di essere vecchia e malandata e che oramai non ha più bisogno di altra libertà che di morire. Carla continuava a profondere malizia e lietezza nel verso povero. Era tuttavia la giovinezza che si fingeva vecchia per proclamare meglio da quel nuovo punto di vista il suo diritto.

Quando terminò e mi trovò in piena ammirazione, anch'essa per la prima volta oltre che amarmi mi volle veramente bene. Sapeva che a me quella canzonetta sarebbe piaciuta di più del canto che le insegnava il suo maestro:

— Peccato - aggiunse con tristezza, - che se non si vuole andare pei cafés chantants, non si possa trarre da ciò il necessario per vivere.

La convinsi facilmente che le cose non stavano così. V'erano a questo mondo molte grandi artiste che dicevano e non cantavano.

Essa si fece dire dei nomi. Era beata di apprendere quanto importante avrebbe potuto divenire la sua arte.

— Io so - aggiunse ingenuamente, - che questo canto è ben più difficile dell'altro per il quale basta gridare a perdifiato.

Io sorrisi e non discussi. La sua arte era anch'essa certamente difficile ed essa lo sapeva perché era quella la sola arte che conoscesse. Quella canzonetta le era costata uno studio lunghissimo. L'aveva detta e ridetta correggendo l'intonazione di ogni parola, di ogni nota. Adesso ne studiava un'altra, ma l'avrebbe saputa soltanto di lì a qualche settimana. Prima non voleva farla sentire.

Seguirono dei momenti deliziosi in quella stanza ove fino ad allora non s'erano svolte che delle scene di brutalità. Ecco che a Carla s'apriva anche una carriera. La carriera che m'avrebbe liberato di lei. Molto simile a quella che per lei aveva sognato il Copler! Le proposi di trovarle un maestro. Essa dapprima si spaventò della parola, ma poi si lasciò convincere facilmente quando le dichiarai che si poteva provare, e ch'essa sarebbe rimasta libera di congedarlo quando le fosse sembrato noioso o poco utile.

Anche con Augusta mi trovai quel giorno molto bene. Avevo l'animo tranquillo come se fossi ritornato da una passeggiata e non dalla casa di Carla o come avrebbe dovuto averlo il povero Copler quando abbandonava quella casa nei giorni in cui non gli avevano dato motivo ad arrabbiarsi. Ne godetti come se fossi giunto a un'oasi. Per me e per la mia salute sarebbe stato gravissimo se tutta la mia lunga relazione con Carla si fosse svolta in un'eterna agitazione. Da quel giorno, come risultato della bellezza estetica, le cose si svolsero più calme con le lievi interruzioni necessarie a rianimare tanto il mio amore per Carla, quanto quello per Augusta. Ogni mia visita a Carla significava bensì un tradimento per Augusta, ma tutto era presto dimenticato in un bagno di salute e di buoni propositi. Ed il buon proposito non era brutale ed eccitante come quando avevo nella strozza il desiderio di dichiarare a Carla che non l'avrei rivista mai più. Ero dolce e paterno: ecco che di nuovo io pensavo alla sua carriera. Abbandonare ogni giorno una donna per correrle dietro il giorno appresso, sarebbe stata una fatica a cui il mio povero cuore non avrebbe saputo reggere. Così, invece, Carla restava sempre in mio potere ed io l'avviavo ora in una direzione ed ora in un'altra.

Per lungo tempo i propositi buoni non furono tanto forti da indurmi a correre per la città in cerca del maestro che avrebbe fatto per Carla. Mi baloccavo col proposito buono, restando sempre seduto. Poi un bel giorno Augusta mi confidò che si sentiva madre ed allora il mio proposito per un istante ingigantì e Carla ebbe il suo maestro.

Avevo esitato tanto anche perché era evidente che, anche senza maestro, Carla aveva saputo avviarsi ad un lavoro veramente serio nella sua nuova arte. Ogni settimana essa sapeva dirmi una canzonetta nuova, analizzata accuratamente nell'atteggiamento e nella parola. Certe note avrebbero abbisognato di essere levigate un poco, ma forse avrebbero finito con l'affinarsi da sé. Una prova decisiva che Carla era una vera artista, io l'avevo nel modo com'essa perfezionava continuamente le sue canzonette senza mai rinunziare alle cose migliori ch'essa aveva saputo far sue di prim'acchito. La indussi spesso a ridirmi il suo primo lavoro e vi trovavo aggiunto ogni volta qualche accento nuovo ed efficace. Data la sua ignoranza, era meraviglioso che nel grande sforzo di scoprire una forte espressione, non le fosse mai capitato di cacciare nella canzonetta dei suoni falsi o esagerati. Da vera artista, essa aggiungeva ogni giorno una pietruccia al piccolo edificio, e tutto il resto restava intatto. Non la canzonetta era stereotipata, ma il sentimento che la dettava. Carla, prima di cantare, si passava sempre la mano sulla faccia e dietro quella mano si creava un istante di raccoglimento che bastava a piombarla nella commediola ch'essa doveva costruire. Una commedia non sempre puerile. Il mentore ironico di

Rosina te xe nata in un casoto

minacciava, ma non troppo seriamente. Pareva che la cantante avvertisse di sapere ch'era la storia di ogni giorno. Il pensiero di Carla era un altro, ma finiva con l'arrivare allo stesso risultato:

— La mia simpatia è per Rosina perché altrimenti la canzonetta non meriterebbe di essere cantata, - essa diceva.

Avvenne qualche volta che Carla inconsapevolmente riaccendesse il mio amore per Augusta e il mio rimorso. Infatti ciò si avverò ogni qualvolta ella si permise dei movimenti offensivi contro la posizione tanto solidamente occupata da mia moglie. Era sempre vivo il suo desiderio di avermi tutto suo per una notte intera; mi confidò che le pareva che, per non avere mai dormito uno accanto all'altro, fossimo meno intimi. Volendo abituarmi ad essere più dolce con lei, non mi rifiutai risolutamente di compiacerla, ma quasi sempre pensai che non sarebbe stato possibile di fare una cosa simile a meno che non mi fossi rassegnato di trovare alla mattina Augusta ad una finestra donde m'avesse aspettato la notte intera. Eppoi, non sarebbe stato questo un nuovo tradimento a mia moglie? Talvolta, cioè quando correvo a Carla pieno di desiderio, mi sentivo propenso di accontentarla, ma subito dopo ne vedevo l'impossibilità e la sconvenienza. Ma così non si arrivò per lungo tempo né ad eliminare la prospettiva della cosa né a realizzarla. Apparentemente si era d'accordo: prima o poi avremmo passata una notte intera insieme.

Intanto ora ce n'era la possibilità perché io avevo indotto le Gerco di congedare quegl'inquilini che tagliavano la loro casa in due parti, e Carla aveva finalmente la sua camera da letto.

Ora avvenne che poco dopo le nozze di Guido, mio suocero fu colto da quella crisi che doveva ucciderlo ed io ebbi l'imprudenza di raccontare a Carla che mia moglie doveva passare una notte al capezzale di suo padre per concedere un riposo a mia suocera. Non ci fu più il caso di esimermi: Carla pretese che passassi con lei quella stessa notte ch'era tanto dolorosa per mia moglie. Non ebbi il coraggio di ribellarmi a tale capriccio e mi vi acconciai col cuore pesante.

Mi preparai a quel sacrificio. Non andai da Carla alla mattina e così corsi da lei alla sera con pieno desiderio dicendomi anche ch'era infantile di credere di tradire più gravemente Augusta perché la tradivo in un momento in cui essa per altre cause soffriva. Perciò arrivai persino a spazientirmi perché la povera Augusta mi tratteneva per spiegarmi come avessi dovuto movermi per avere pronte le cose di cui potevo aver bisogno a cena, per la notte ed anche per il caffè della mattina dopo.

Carla m'accolse nello studio. Poco dopo colei ch'era sua madre e serva ci servì una cenetta squisita a cui io aggiunsi i dolci che avevo portati con me. La vecchia ritornò poi per sparecchiare ed io veramente avrei voluto coricarmi subito, ma era veramente ancora troppo di buon'ora e Carla m'indusse di starla a sentir cantare. Essa passò tutto il suo repertorio e fu quella certamente la parte migliore di quelle ore, perché l'ansietà con cui aspettavo la mia amante, andava ad aumentare il piacere che sempre m'aveva data la canzonetta di Carla.

— Un pubblico ti coprirebbe di fiori e d'applausi - le dichiarai ad un certo momento dimenticando che sarebbe stato impossibile di mettere tutto un pubblico nello stato d'animo in cui mi trovavo io.

Ci coricammo infine nello stesso letto in una stanzuccia piccola e del tutto disadorna. Pareva un corridoio stroncato da una parete. Non avevo ancora sonno e mi disperavo al pensiero che, se ne avessi avuto, non avrei potuto dormire con tanta poca aria a mia disposizione.

Carla fu chiamata dalla voce timida di sua madre. Essa, per rispondere, andò all'uscio e lo socchiuse. La sentii come con voce concitata domandava alla vecchia che cosa volesse. Timidamente l'altra disse delle parole di cui non percepii il senso e allora Carla urlò prima di sbattere l'uscio in faccia alla madre:

— Lasciami in pace. T'ho già detto che per questa notte dormo di qua!

Così appresi che Carla, tormentata di notte dalla paura, dormiva sempre nella sua antica stanza da letto con la madre, ove aveva un altro letto, mentre quello sul quale dovevamo dormire insieme restava vuoto. Era certamente per paura ch'essa m'aveva indotto di fare quella partaccia ad Augusta. Confessò con una maliziosa allegria cui non partecipai, che con me si sentiva più sicura che con sua madre. Mi diede da pensare quel letto in prossimità di quella stanza da studio solitaria. Non l'avevo mai visto prima. Ero geloso! Poco dopo fui sprezzante anche per il contegno che Carla aveva avuto con quella sua povera madre. Era fatta un po' differentemente di Augusta che aveva rinunziato alla mia compagnia pur di assistere i suoi genitori. Io sono specialmente sensibile a mancanze di riguardo verso i proprii genitori, io, che avevo sopportato con tanta rassegnazione le bizze del mio povero padre.

Carla non poté accorgersi né della mia gelosia né del mio disprezzo. Soppressi le manifestazioni di gelosia ricordando come non avessi alcun diritto ad essere geloso visto che passavo buona parte delle mie giornate augurandomi che qualcuno mi portasse via la mia amante. Non v'era neppure alcuno scopo di far vedere il mio disprezzo alla povera giovinetta ormai che già mi baloccavo di nuovo col desiderio di abbandonarla definitivamente, e quantunque il mio sdegno fosse ora ingrandito anche dalle ragioni che poco prima avrebbero provocata la mia gelosia. Quello che occorreva era di allontanarsi al più presto da quella piccola stanzuccia non contenente di più di un metro cubo di aria, per soprappiù caldissima.