LAVORO
Eccoci, buonasera, benvenuti al terzo incontro di Interregno che è uno spazio di confronto
intergenerazionale dove guarderemo le differenze, i punti in comune tra diverse generazioni,
passato, presente e con uno sguardo al futuro. Il tema di stasera è lavoro e grazie quindi
ai editori La Terza che ha creato questo spazio, grazie ai nostri ospiti di stasera che sono Tito
Boeri, economista e accademico italiano, Giulia Pastorella, EU Government Relations Director di
Zoom e Antonio Aloisi, docente del diritto del lavoro all'Università IE di Madrid. Grazie per
essere qui con noi stasera. Allora, dopo abbiamo avuto due episodi molto caldi di Interregno e
stasera parliamo, purtroppo partiamo anche dal Covid perché quest'anno abbiamo perso circa 470
mila costi di lavoro in nove mesi e per le donne il tasso di disoccupazione è doppio,
è allarme giovani, abbiamo insomma quest'anno ricevuto delle ferite molto profonde, ma non solo,
abbiamo anche cambiato proprio il modo di lavorare, il 37% dei lavoratori in Europa ha iniziato a
lavorare da casa, quindi tanto che il Parlamento Europeo in questo momento sta discutendo proprio
il diritto alla disconnessione perché è cambiato totalmente il nostro modo di lavorare. Quindi
Antonio, io volevo partire con te. Il Covid ha causato una grande polarizzazione tra gli
smart workers e quelli che sono considerati i lavoratori essenziali, quindi in qualche modo
chi ha la possibilità di stare a casa e chi invece è dovuto andare tutto l'anno a lavorare,
ma non c'è solo questa polarizzazione, no? Sì, senz'altro, come molti di noi avranno
sperimentato è evidente che la pandemia sia servita da gigantesca lente di ingrandimento,
di molte altre tendenze, per così dire, carsiche o indivenire. La polarizzazione profonda è quella
che descriveri, vale a dire tra i lavoratori le cui prestazioni potevano essere prestate appunto
da remoto, dalla più o meno comoda location che spesso è stata quella del tinello di casa in
assenza di un percorso anche organizzativo, visto che di tutta fretta si è dovuti cambiare modalità
di lavoro. Dall'altro lato invece i lavoratori che abbiamo per decreto definito essenziali,
ironizzo un po' su questa modalità appunto perché poi a questa classificazione non è
corrisposto un sistema di tutele data la maggiore esposizione al rischio di contagio. A loro volta
direi che i lavoratori essenziali, quelli che non hanno avuto scelta se non quella di recarsi sul
posto di lavoro fisico, possono essere divisi in due altre macro-categorie, quelli invisibili,
quelli dietro le quinte e quelli invece in prima linea, in frontiera, anche in questo caso le
definizioni si sono sprecate. Sottolineo anche che a fronte di questa macro-polarizzazione,
per certi versi un po' generalizzata, perché poi in un certo senso si è passati rapidamente da
una categoria all'altra, non scordiamoci che in una fase estiva di riapertura molti lavoratori
cui prestazione era comodamente esercitabile da remoto è stato chiesto o in qualche caso anche
imposto di tornare in ufficio, ma ciò su cui vorrei concentrarmi è il fatto che questa polarizzazione
porti con sé all'interno molte altre polarizzazioni o se preferiamo disparità, diseguaglianze. Basti
pensare che ad esempio i lavoratori nella fascia di reddito più alta tendenzialmente erano quelli
che appunto potevano lavorare da casa perché si trattava di professioni impiegatizie,
consulenziali, nel terziario in generale, mentre invece quelli nella fascia bassa di reddito
dovevano portarsi al lavoro in un contesto in cui anche le attività educative erano sospese,
per cui le difficoltà anche intrafamiliari aumentavano. Sono aumentate evidentemente per
tutti perché i primi dati ci dicono banalmente che anche chi ha lavorato da casa ha vissuto
un aumento delle ore di lavoro, i primi studi parlo anche di 50 minuti in più. E' chiaro che
questo va contestualizzato anche in un regime di assenza di alternative e di costrezione nel
domicilio, però è probabilmente importante provare a capire come questi due mondi molto distinti
abbiano per certi versi condiviso in alcuni momenti dei punti di contatto. Banalmente è
emersa una profonda impreparazione che non ha a che fare necessariamente o esclusivamente con
la tecnologia, ma più a che fare con la riorganizzazione e la ristrutturazione dei
flussi organizzativi aziendali. Chi si trovava a lavorare da casa in una prima fase ha sperimentato
anche un eccesso di autonomia che però poi si è tradotto in un ritorno a quella logica
classica del controllo, sebbene appunto i primi studi confermino che anche la produttività è
cresciuta, pur in un regime di assenza di controllo certosino. D'altra parte invece chi
si è portato sul lavoro ha vissuto sia un'intensificazione del lavoro che una estensione,
perché appunto le difficoltà sono aumentate, i pendolari hanno trovato meno servizi lungo le
linee di trasporto. C'è da dire che appunto i gruppi già penalizzati nel mercato del lavoro,
dunque donne, giovani, ma anche migranti, soprattutto nel contesto di quei lavori
essenziali, di quei lavoratori che dunque erano costretti a portarsi presso un luogo fisico di
lavoro, hanno vissuto tutti i rischi maggiori di questa pandemia, sperimentando appunto le
difficoltà enormi, senza che invece ci sia stato un dibattito più convinto su come,
non dico premiare perché non è questa la logica esatta, ma quantomeno ricompensare lo sforzo.
Lo smart working, il lavoro da remoto, da casa è stato sulle prime pagine di tutti,
probabilmente perché chi ne scriveva lo stava anche vivendo e su questo c'è una forma diciamo
di bias. Abbiamo parlato troppo poco invece dei lavoratori essenziali, quelli del settore
sanitario sono stati evidentemente esposti e celebrati, ma immaginiamo che dietro questo
mondo esiste una sorta di infrastruttura umana che ha tenuto aperto, produttivo e in continuità
il nostro paese e soprattutto il contesto economico. Ecco Antonio tu parlavi di impreparazione,
in qualche modo dopo un anno, ormai a un anno dalla pandemia non possiamo più essere impreparati.
Tito, secondo te come si potrà ripartire una volta che questa situazione finirà?
Perché prima o poi finirà. Una domanda molto difficile, in realtà noi sappiamo ancora troppo
poco di come sta evolvendo la domanda di lavoro, quindi anche le opportunità di impiego,
soprattutto in paesi come l'Italia dove normalmente i posti vacanti, i dati,
le informazioni sui posti vacanti sono scarsamente disponibili, quindi non si ha un registro che
monitori dove ci sono le assunzioni e poi noi abbiamo un istituto unico che è intervenuto
in questa crisi, c'è il blocco dei licenziamenti, il blocco dei licenziamenti ha come risvolto il
fatto che ci sia di fatto un blocco anche delle assunzioni, quindi questo ci impedisce anche di
vedere dove le imprese assumerebbero in futuro. Però forse due cose che possiamo dire che
probabilmente avverranno sono le seguenti, la prima cosa è che noi avremo probabilmente
lavoro in remoto, non lo chiamo smart working perché prima di diventare smart working devo
intervenire una serie di condizioni, lavoro in remoto che sopravviverà anche alla fase più
intensa della crisi, anche quando noi avessimo raggiunto l'immunità di greggio, per un semplice
motivo che le imprese si sono fortemente indebitate durante questa crisi e quindi la prima cosa che
cercheranno di fare è tagliare i costi fissi, gli affitti dei locali soprattutto e quindi per
risparmiare su questi costi spingeranno molti lavoratori a passare una parte del proprio tempo
a casa, quindi diciamo, non so, verranno due volte alla settimana in ufficio, in azienda,
le altre volte lavoreranno in remoto a distanza, questo pone una serie di problemi, di interrogativi,
però chiaramente questa è una richiesta che verrà in modo pressante dalle imprese e quindi
è importante che le persone siano capaci di lavorare in remoto, questo è chiaramente qualcosa
molto importante per le prospettive anche di trovare impiego e di essere sul mercato del
lavoro, è anche importante che ci sia attenzione da parte dell'operatore pubblico, una dimensione
sin qui che non veniva considerata, cioè se il luogo di lavoro è in parte anche la propria
abitazione, uno dovrebbe avere anche delle politiche abitative, essere attenti alle infrastrutture
che vengono fornite, a sostenere la trasformazione degli spazi residenziali, anche i spazi d'ufficio
o quantomeno creare delle reti abbastanza diffuse di co working dove le persone possono andare,
perché altrimenti creiamo delle disuguaglianze molto forti a questo riguardo, comunque diciamo,
una prima cosa che si può dire è che chi è in grado di lavorare in remoto avrà sicuramente
delle possibilità in più di chi non è in grado di lavorare in remoto. La seconda cosa che
probabilmente avverrà, e questo lo dico per cercare anche di dare una prospettiva alle persone
poco qualificate, veniva ricordato prima, sono quelle che hanno subito il peso maggiore della
crisi e che chiaramente sanno meno nelle condizioni di poter lavorare a distanza,
lì forse qualche opportunità di impiego si potrà creare proprio nel settore della
sanificazione degli ambienti, nei controlli sugli assembramenti, perché attenzione,
la memoria del Covid, al di là del fatto che noi debellassimo davvero questo virus,
cosa che non credo comunque avverrà del tutto, almeno per un tempo lungo, rimarrà nelle persone,
e c'è bisogno di qualche modo di tenere sotto controllo gli ambienti pubblici,
di evitare che gli assembramenti possano far esplodere rischi di contagio, quindi lì probabilmente
ci sarà una richiesta anche di lavoratori che non necessariamente devono essere particolarmente
qualificati. Il problema è che molti di questi lavoratori vengono da esperienze molto diverse,
vengono dai servizi che sono stati facidiati dalla crisi, da settori che hanno scarse prospettive
di sviluppo, perché laddove sono servizi che pongono molte relazioni con le persone,
assembramenti etc., difficilmente ripartiranno rapidamente, quindi queste persone dovranno un
po' riconvertirsi, quindi cambiando completamente settore, magari andando a lavorare in queste
occupazioni che dicevo prima che non sono altamente retribuite, quindi bisogna trovare
delle modalità per cui magari si integra il loro reddito, gli si aiuta in questi spostamenti,
ci sarà comunque un cambiamento nelle opportunità di impiego, nel profilo delle occupazioni negli
anni a venire. Ci sono quindi diverse categorie che sono state colpite anche dalla crisi in modo
molto diverso e Giulia, una delle categorie che sono state più duramente colpite sono quella delle
donne e quella dei più giovani, infatti sappiamo che a dicembre l'Istat ha valutato che su 101.000
posti persi di lavoro, 99.000 erano delle donne e i giovani sono stati veramente, si parla di
allarme, qual è dovrebbe essere secondo te il ruolo dello Stato e anche il ruolo delle aziende
nel ricominciare o quale sarebbe dovuto essere nei mesi precedenti, nei mesi passati?
Intanto si deve andare a vedere perché queste due categorie sono state così penalizzate,
perché ci sono alcuni fattori su cui si può avere poco controllo e ritengo che lo Stato debba avere
poco controllo, cioè il fatto che le donne fossero impiegate in settori più a rischio come quello
della sanità, della cura degli anziani o che invece fossero impiegati in settori che sono
stati duramente colpiti dalla crisi come il turismo, come l'ospitalità o altro, questo non è nulla a
che fare con lo Stato, quello che però lo Stato potrebbe fare sicuramente è invece guardare quali
sono gli altri fattori che hanno penalizzato le donne, che le hanno forse spinte di più o a
lasciare il lavoro o addirittura a perderlo, che è la questione di i bambini a casa in dad perché la
responsabilità è caduta più sulle spalle delle donne o altri fattori di questo genere, quindi la
prima cosa è guardare alle cause, quindi per quanto riguarda le donne sono le solite soluzioni di cui
si parla anche prima della crisi, quindi come diceva giustamente Antonio la crisi ha messo una
lente di ingrandimento su problemi che già esistevano, per me alcune delle iniziative
dovrebbero essere più sulle rivolte alla parità di opportunità più che di risultati, quindi rivedere
i congedi parentali, quindi occuparsi degli asili in idros, mettere le donne nella condizione di e
la seconda cosa è poi ampliare ancora di più l'attenzione sulle divergenze post diciamo queste
opportunità iniziali, quindi più trasparenza per quanto riguarda il gender pay gap nel lavoro con
metodologie che sono state testate in altri paesi e che funzionano, non c'è bisogno di mettere quote,
basta incentivare la trasparenza e queste portano a dei comportamenti virtuosi. Per quanto riguarda i
giovani è tutt'altra storia, i giovani hanno il problema, hanno vissuto il problema durante la
crisi di una mancanza chiaramente di ammortizzatori sociali perché non cadono in nessuna categoria
che ha diritto a questo genere di sostegno, hanno sofferto particolarmente del passaggio
tra la formazione e il lavoro che già normalmente è compresso per come sono organizzati tirocine di
stage, per il mercato informale della ricerca del lavoro, per il mismatch tra la formazione
eccetera e quindi tutto questo si è ovviamente ampliato e amplificato nel contesto covid per
cui da quel punto di vista lo Stato deve rivedere questi passaggi qua, cioè deve rivedere la
formazione, li formiamo per il mercato del lavoro, abbiamo certezze che il passaggio sia fatto in
maniera giusta, il passaggio dalla formazione al mercato del lavoro, abbiamo sufficientemente
attenzione a quella formazione tecnica per esempio che in altri paesi è molto più sviluppata e che
da noi non lo è e che ci dicono tutte le imprese che mancano profili di quel genere, quindi da una
parte la formazione, dall'altra ripensare gli ammortizzatori sociali per quella categoria,
quindi non solo pensare alla famiglia, al nucleo familiare e poi ritrovarsi in situazioni in cui
i ragazzi sono dipendenti della famiglia senza avere veramente di loro conto sostegno per questi
momenti qua e quindi io farei il focus se lo Stato dovesse intervenire, interverrei su questi
due aspetti e da ultimo come dicevo prima forse una riforma di quello che sono gli
gli step intermedi tra la formazione e il lavoro, quindi tirocini apprendistati che in questo momento
sono portati all'infinito, sono pagati una miseria e molto spesso non aiutano nell'inserimento,
non è questione di investire più soldi, basterebbe forse cambiare la normativa per
renderlo più adatto a un vero inserimento, magari con incentivi per carità, le aziende che
dovessero trasformare in contratti a tempo indeterminato, ma agirei su quel frontelino.
Vedo Antonio Annuivi, sei muto.
Annuivo sulla parte conclusiva scusate perché mi sembra chiaro che evidentemente c'è un tema
di regole ovviamente ma c'è anche e soprattutto un tema di rispetto delle regole e di applicazione
delle stesse, per cui riconosco che i giovani esordienti sul mercato del lavoro stiano vivendo
una fase terribilmente complicata per evidentemente l'assenza di opportunità a fronte anche di
disponibilità convinta in un contesto in cui le stesse istituzioni educative stanno vivendo
una fase di incertezza perché è entrato in crisi un modello di confronto, di dialogo. Non è una
scelta semplice, è cosa decidere di fare da grande soprattutto in questo momento,
però mi sembra che si possano a tutti gli effetti rivendicare delle regole,
provare a scommettere anche su vecchiernesi del diritto del lavoro se posso perché le
storie più recenti ci raccontano di episodi ai limiti del caricaturale che intervengono
sugli elementi di criticità che descriveva Giulia ma lo fanno spesso in una maniera un po'
furbesca. Spesso sui titoli dei giornali si legge che l'imprenditore disperato non riesce
a trovare lavoratori perché preferiscono il reddito di cittadinanza. Credo che ormai questo
sia un filone narrativo quasi, si potrebbero raccogliere i capitoli, si va da settore a
settore. C'è però un tema in questo caso, evidentemente mancano le buone opportunità,
è evidente che in questo caso sebbene le competenze siano in certi casi anche robuste,
dal lato dell'offerta si pecca molto in qualità e questo credo che sia uno dei drammi e dei
dilemma strutturali del nostro Paese. La scarsa produttività ma anche la scarsa inclinazione
ad essere competitivi deriva probabilmente da decenni in cui si è scommesso di guadagnare
un vantaggio competitivo fondato semplicemente sull'abbattimento dei costi, nei modi più
arrembanti e estemporali possibili. Poco invece, se non pochissimo, si è investito in ricerca e
sviluppo, in capacità di produrre innovazione, cosa che sarebbe stata senz'altro positiva.
Immaginiamo un Paese che si salda alle catene globali del valore, scommettendo in digitalizzazione
e anche in infrastrutture. Tutto questo spesso non è accaduto, per cui l'analisi del mercato
del lavoro che spesso ci viene fornita principalmente da un punto di vista quantitativo, non che sia un
male, ma le trimestrali che con una certa ciclicità vengono pubblicate, credo che nel
lungo periodo siano anche quelle state interrotte, ma in generale ci fanno gioire o disperare a
seconda delle cifre dei salti su una sorta di pallottoliere dei numeri occupati e disoccupati.
Questo è sostanzialmente importante per valutare l'andamento complessivo, credo che però il salto
di qualità dovrebbe essere proprio un salto di mentalità, guardare alla qualità dei lavori
generati. Cosa si intende per qualità? La qualità è un concetto molto ampio, molto complesso,
che viene insieme sia il contenuto astratto dell'attività, della mansione, che le condizioni
contrattuali, quindi anche quelle economiche. Ci dobbiamo dire che le regole che sovrintendono
il nostro mercato del lavoro nel tempo sono state anche flessibilizzate, trasformate,
si sono fatti passi per aderire ad una trasformazione del mercato del lavoro. Tutto
ovviamente è migliorabile, tutto è adattabile, poco però è stato fatto per fare in modo che si
generassero opportunità positive. Nel testo che ho avuto la possibilità di scrivere assieme a
Valerio e Stefano, il loro capo è un algoritmo, facciamo una riflessione proprio su questo. Le
regole non vanno intese come un ostacolo all'innovazione, alla competitività, non sono
il classico lacci e lacciuoli che ci è stato indicato nel tempo. Al contrario, delle democrazie
solide in cui le istituzioni sociali sono molto robuste, certi direbbero addirittura rigide come
la Germania, dimostrano che usare strumenti classici, i contratti di lavoro, ma anche la
contrattazione collettiva se non addirittura la co-determinazione, la partecipazione dei
lavoratori alle scelte aziendali, può avere degli impatti positivi in termini di produttività,
che è il tema su cui tutti noi dovremmo fare passi in avanti. Quindi tu parli proprio di mancanza di
opportunità, ma in qualche modo c'è anche una mancanza di tutele e oggi siamo a praticamente
50 anni, 51 anni dall'approvazione dello statuto dei lavoratori e Tito tu stasera sei qui in veste
di senior e quindi volevo chiedere a te che cosa si è fatto di sbagliato in passato e che cosa si
sbaglia ancora oggi nella tutela del lavoratore, non soltanto in tempi di Covid, ma in generale?
Beh, non c'è dubbio che c'è un problema di protezione asimmetrica nel mercato del lavoro,
noi abbiamo dei regimi molto diversi a seconda del tipo di lavoratore ed è una scelta che è
stata fatta consapevolmente dalla metà degli anni 90, non solo in Italia, ma anche in altri
paesi, noi abbiamo mantenuto delle forti protezioni per i lavoratori che avevano dei
contratti a tempo indeterminato e abbiamo lasciato tutti gli altri lavoratori che sono
lavoratori giovani, soprattutto perché qui l'incidenza è altissima tra i giovani e donne,
invece con dei contratti che sono molto meno tutelati e questo dualismo contrattuale ha creato
proprio una polarizzazione del rischio su questa seconda categoria, noi vediamo che ad ogni
recessione quello che succede è che sono i lavoratori temporanei, quelli che chiaramente
pagano maggiormente lo scotto e in cui cresce la disoccupazione, ci sono molti flussi verso la
disoccupazione e verso l'inattività, le recessioni vengono poco percepite, a meno che siano delle
recessioni molto lunghe, dal 2008, 2009, 2011, 2012 abbiamo avuto quasi in Italia 5 anni di
recessione quasi di fila, allora a quel punto anche i lavoratori con dei contratti a tempo
indeterminato hanno pagato lo scotto, ma nelle recessioni più brevi e questa del Covid è
sicuramente stata sin qui almeno così, sono i lavoratori temporanei che pagano lo scotto e che
hanno subito le forti perdite, di quei 500 mila lavori in meno che ci sono, sono quasi
tutti i lavoratori temporanei, intanto questo spiega anche, è una delle ragioni in più
per cui c'è questa fortissima incidenza della disoccupazione tra le donne, perché
questa volta è stata una crisi che ha colpito i servizi e nei servizi le donne non sono
la maggioranza, ma sono la maggioranza tra i lavoratori temporanei dei servizi, quindi
se prendiamo specificamente questo sotto insieme troviamo che le donne sono, quindi
questo spiega cosa è successo e devo dire che non mi sembra che nel modo con cui abbiamo
affrontato la pandemia si sia tenuto in debito conto questo problema, questa concentrazione
del rischio sui lavoratori temporanei, i provvedimenti adottati sono dei provvedimenti
che guardano quasi sempre esclusivamente ai lavoratori con contratti a tempo indeterminato,
la cassa integrazione, anche i lavoratori con contratti a tempo determinato possono
accedere alla cassa integrazione a misura in cui il loro contratto è in vigore, però
quando finisce la durata del contratto a tempo determinato i lavoratori non possono più
essere in cassa integrazione e quindi questo gli espone il rischio di disoccupazione, la
Naspi che è il sussidio a disoccupazione ha delle durate brevi per i lavoratori con
dei contratti a tempo determinato, per fruire per la massima durata della Naspi c'è due
anni e bisogna di avere 4 anni di contributi continuativi, moltissimi lavoratori temporanei
hanno delle interruzioni di carriera, tra un lavoro e l'altro c'è qualche buco contributivo,
quindi non possono fruire della Naspi. Il blocco dei licenziamenti anche qui è un provvedimento
che va bene per i lavoratori che hanno dei contratti a tempo indeterminato, ma per i
lavoratori che hanno dei contratti a tempo determinato è una tragedia, perché vuol
dire che i loro contratti a tempo determinato non verranno mai convertiti in contratti a
tempo indeterminato alla scadenza, quindi anche qui bisogna stare molto attenti, c'è
molta ipocrisia tra chi si lamenta del fatto che le donne sono sovrarrappresentate e quelli
che al tempo stesso magari dice che bisogna andare avanti ad oltranza col blocco dei licenziamenti
indiscriminato, una delle conseguenze del blocco dei licenziamenti è che si creano
queste realtà. Poi c'è tutto il nodo del lavoro autonomo,
il lavoro autonomo è stato molto colpito da questa crisi, perché il lavoro autonomo
è proprio una tipologia di lavoro che richiede molti contatti con le persone, quindi è stato
esposto a rischio di contagio maggiormente che in passato e anche qui si tratta di lavorazioni
che non sono tanto esposte dalla concorrenza internazionale, quindi c'è meno manifatturiero,
più servizi, più lavoro autonomo in piccola scala etc., per i lavoratori autonomi è molto
difficile stabilire delle tutele, soprattutto di fronte a degli shock così forti, perché
normalmente i sussidi di disoccupazione in tutti i paesi sono forniti soltanto ai lavoratori
alle dipendenze, c'è un problema di rischio di abuso se tu dessi un sussidio di disoccupazione
a tutti i lavoratori autonomi, sono persone che sono in qualche modo i boss di se stessi,
quindi se tu gli dai il sussidio di disoccupazione è evidente che c'è un po' un rischio che
se lo dia anche in condizioni in cui magari non ne avrebbe bisogno, allora bisogna trovare
delle modalità diverse, qui si sta sperimentando un problema non solo italiano, anche nel Regno
Unito ci sono delle difficoltà molto forti in questa direzione, leggevo recentemente
in Francia e in Spagna, credo che la combinazione deve essere quella di dare dei sostegni al
lavoro autonomo che guardano al fatturato dei lavoratori autonomi e anche ai costi fissi,
perché il problema più serio è che loro non hanno entrate, i costi del lavoro è loro,
quindi risparmiano se vogliamo su quello, però non risparmiano sui costi fissi, se
tu hai un affitto dei locali, quegli affitti li devi pagare, se non hai un modo, qualcuno
che interviene e ti aiuti c'è poco da fare, quindi credo che le cose fondamentali da fare
sono tappare questi ulteriori buchi del nostro sistema di protezione sociale che sono legati
ai lavoratori temporanei, ai lavoratori autonomi e poi lo menzionavo anche prima Antonio,
gli immigrati, gli immigrati dove esistono delle reti di protezione sociale di ultima
istanza come il reddito di cittadinanza, spesso queste reti escludono gli immigrati, in Italia
hai un requisito di 10 anni di residenza in Italia prima di poter ricevere il reddito
di cittadinanza, due anni, gli ultimi due continuativi, questo esclude tantissime persone
che sono in condizioni di povertà e questa è chiaramente una restrizione odiosa che
va tolta perché ci impedisce di raggiungere moltissime persone che sono in condizioni
di indigenza e di povertà, tra l'altro penso che c'è più consapevolezza tra l'opinione
pubblica del fatto che la povertà è un problema di tutti noi, se non altro perché la pandemia
ci ha messo di fronte al fatto che se lasciamo le persone in queste condizioni non riusciremo
mai a debellare il virus, perché le persone che finiscono nell'illegalità, nell'emergenza
sono sommerse, non lo riusciremo a raggiungere neanche con le campagne di vaccinazione, quindi
forse c'è maggiore sostegno anche pubblico, tra l'altro, per provvedimenti che in qualche
modo diano un sostegno di contrasto alla povertà anche tra gli immigrati nei diversi paesi.
Ecco Tito, volevo proporti due domande che sono arrivate dal pubblico brevemente, una
di Pietro che dice di chi è la responsabilità, cioè se bisogna dare la responsabilità soltanto
alla politica o anche alle imprese, alle associazioni di rappresentanza, ai sindacati etc., e invece
una domanda interessante di Aniello che chiede, il conflitto va riferito anche a coloro che
vanno in pensione e continuano a lavorare spesso con contratti a tempo determinato,
impedendo di fatto ai giovani di entrare nel mercato del lavoro, sono due temi diversi,
ma abbiamo toccato a entrambi. Quando si creano delle situazioni durature,
da 25 anni che di fatto il nostro è un mercato del lavoro duale, le responsabilità sono
un po' di tutti, ci sono delle responsabilità solo da una parte, sicuramente la politica
ha delle sue responsabilità quando ha concepito questo dualismo contrattuale, il sindacato
perché ha trovato come una via d'uscita quella di rappresentare soltanto un tipo di
lavoratori e di dimenticare gli altri, le associazioni dattoriali di categoria chiaramente
che chiedevano margine di flessibilità e si sono accontentate di creare questa forma
di segregazione, quindi a tanti livelli c'è una situazione di questo tipo, credo che non
è da oggi che questa situazione viene denunciata e è palese a tutti, quindi a tanti livelli
c'è questa realtà e bisognerebbe cercare in qualche modo di affrontarla, poi c'è
anche errori di concezione, errori sia da parte, non nego che anche gli economisti magari
hanno fatto degli errori di valutazione, i giuristi moltissimo, pensando che delle protezioni
sulla carta non avessero poi il rischio di creare questo dualismo, quindi ci sono tante
responsabilità che vanno valutate, comunque guardando in avanti ci sono dei rimedi che
possono essere presi, che devono essere nella direzione chiaramente in questo momento di
dare particolare attenzione a queste categorie di lavoratori colpite e di non mettere in
piedi delle restrizioni come il blocco dei licenziamenti che mettono i lavoratori tebrani
in condizioni di estrema difficoltà. Per quanto riguarda la seconda domanda che
mi veniva posta, i pensionati, no, non sono i pensionati che lavorano il problema dei
giovani, assolutamente no, se guardiamo tra paesi vediamo che i paesi in cui ci sono più
lavoratori cosiddetti anziani, mi annovero anch'io tra questi ovviamente perché quelli
sopra i 55 anni ci ricado in pieno, sono i paesi in cui la disoccupazione giovanile
è più bassa, l'idea secondo cui c'è un numero fisso di posti di lavoro, il mercato
del lavoro è come un autobus nell'ora di punta, per cui per entrare devi far scendere
qualcun altro è un'idea fondamentalmente sbagliata, c'è posto per tutti se chiaramente
noi abbiamo una situazione in cui non c'è troppo peso, per esempio fiscale, se noi mandiamo
la gente in pensione prima e alla fine sono i giovani che devono pagare queste pensioni,
quello distrugge tantissimi posti di lavoro, quindi non è questo il problema, credo che
il problema dell'entrata nel mercato del lavoro dei giovani sia legato a quelle questioni
che dicevo prima, dualismo contrattuale, problemi nella transizione da scuola ai lavoro che
va sicuramente migliorata, orientamento che va fatto, capacità di valorizzare maggiormente
il capitale umano, su questo anche qui ci sono responsabilità diffuse, problemi legati
al modo con cui si svolge la contrattazione collettiva, ci sono tanti aspetti che vanno
affrontati, non solo uno, per questo è un problema complicato da risolvere, ma bisogna
agire in quella direzione per affrontare il nodo della disoccupazione giovanile, mandare
in pensione prima le persone come è fatto con quota 100, come si è visto non è servito
assolutamente nulla, abbiamo un esperimento recente, la disoccupazione giovanile è solo
aumentata dopo quota 100 e per di più quota 100 ci ha messo invece in grande difficoltà
durante la pandemia, se non altro perché avevamo gli ospedali senza infermieri, senza
un'ambulanza, non c'è più l'ambulanza, io ho fatto delle ricerche proprio su questo,
c'è moltissima complementarietà tra i lavoratori giovani e i lavoratori anziani,
molta di più che tra i lavoratori anziani e i lavoratori di età intermedia, i giovani
hanno bisogno dei lavoratori anziani perché hanno bisogno della loro esperienza e del
loro trasferimento di conoscenze, i giovani hanno bisogno della loro freschezza, del loro
contributo, della loro vitalità, trovano anche più stimolante l'ambiente di lavoro
in presenza di giovani, quindi proprio non è vero che c'è questa sostituzione, se
mai abbiamo bisogno di tutti e due e se non abbiamo abbastanza lavoratori anziani sarà
più difficile avere lavoro per giovani e viceversa.
Su questo Giulia c'è un ascoltatore che dice che il dialogo intergenerazionale è
fondamentale anche in ambito lavorativo, appena la fuga dei cervelli, tu ti sei occupata
molto tra le varie cose, anche dei cosiddetti cervelli in fuga, infatti stai attualmente
scrivendo un libro proprio con la terza, qual è il problema dei giovani, che cosa li spinge
ad andare all'estero? In realtà ha elincato neanche a farla apposta
le motivazioni, Tito poco fa ha detto la valorizzazione del capitale umano, meglio la non valorizzazione
del capitale umano, quindi il fatto che un investimento per esempio in un titolo di studio
rapporta meno in Italia rispetto a quello che rapporta in termini di salario, di differenza
salariale che in altri paesi, c'è la questione dei contratti, che tipo di contratto si può
ottenere come primo o secondo contratto quando si è giovani e tendenzialmente sono appunto
a tempo determinato, sono sicuramente meno ben retribuiti che in altri paesi, quindi
c'è una parte lavorativa, una parte lavorativa che si mischia anche a una parte più psicologica
e di rapporti nell'azienda, si parlava di rapporto tra il lavoratore anziano e il lavoratore
giovane, nelle mie ricerche è venuto fuori che un problema però è anche che siamo in
una sorta di gerontocrazia nel lavoro per cui va bene imparare dal lavoratore anziano,
ma il fatto che si valorizzi solo per anzianità e non per altri meriti molto spesso nelle
aziende crea problemi ai lavoratori giovani, se poi ci aggiungiamo lavoratori giovani e
donne torniamo a quello che dicevamo prima sulla questione della donna lavoratrice in
Italia e quindi benché non ci sia una maggioranza di cervelli in fuga donne, questo no, però
sicuramente i due fattori spingono, spinge anche poi molto spesso una migrazione a due
tempi, quindi dal sud al nord e poi dal nord all'estero, la cosa interessante però è
vedere quanto in realtà queste dinamiche possano essere cambiate, sembrano al momento essere
cambiate dalla situazione Covid, un po' perché la possibilità di spostamento è inferiore,
quindi ho sentito tanti ragazzi che si lamentavano del fatto che il loro stage o il loro tirocini
erano stati semplicemente annullati perché non si poteva fare a distanza e non era più possibile
viaggiare, che poi fosse come si diceva prima una scusa dell'azienda per comunque cambiare idea,
questo non è dato saperlo ma è comunque le dinamiche cominciano ad essere diverse. La
seconda cosa però si stiamo a un ritorno paradossalmente, si parla del fenomeno del
South Working per cui i ragazzi torna addirittura nel sud Italia per ristabilirsi a lavorare,
io sono un po' scettico sul fatto che questo possa essere un fenomeno duraturo per il motivo che le
condizioni soggiacenti che hanno fatto partire i cervelli dall'Italia non sono cambiate,
il Covid è come se avesse sospeso un po' tutto, se avesse reso anche magari meno attrattivi
altri strati di lavoro internazionali ma non ha migliorato la situazione in Italia,
quindi mi aspetterei, mi aspetto che quando la situazione tornerà ad essere normale o si
verificheranno fenomeni di Remote Working che però non è un ritorno dei cervelli perché i
cervelli continuano ad essere impiegati altrove, semplicemente lavorano in maniera più flessibile
oppure banalmente si ricomincerà il flusso, flusso che da notare non è appannaggio solo
dell'Italia, altri paesi tra cui i nostri due più vicini, insomma la Francia e la Germania,
hanno flussi che in proporzione alla loro popolazione sono anche maggiori rispetto all'Italia,
quello che è problematico dell'Italia ovviamente è che è un flusso monodirezionale, non bidirezionale,
quindi fatichiamo molto ad attirare cervelli, cervelli non italiani, io sono contraria al dire
che bisogna assolutamente farli rientrare tutti, è una questione di circolazione dei cervelli,
noi non siamo molto bravi. La seconda cosa è che non siamo capaci di valorizzare neanche poi la
diaspora di tutti quelli che stanno all'estero con meccanismi che invece altri paesi hanno
identificato molto bene e quindi ci sono vari motivi per cui per noi non è una questione
tanto di numeri che pure vengono sempre messi sui giornali come una catastrofe,
abbiamo perso una generazione, anche altri paesi hanno perso una generazione ma non è persa,
non la considerano soprattutto come persa, ma la considerano come un investimento perché
prima o poi torneranno e ci saranno altre maniere di approfittarne, quindi la fuga dei cervelli che
adesso, che in Italia viene spesso vista come un gioco a somma zero, quindi noi ci perdiamo,
un altro paese ci guadagna, in realtà è un fenomeno molto più complesso e quindi se si
aggiunge a questo fenomeno complesso le dinamiche del Covid che rendono meno fluido quello che una
volta era un mercato di lavoro se non altro europeo abbastanza integrato con le sue barriere,
perché non è che il mercato europeo sia ancora assolutamente un mercato unico per quanto riguarda
il lavoro, ancora le qualifiche non sono riconosciute dappertutto, ci sono ancora tante
barriere, però diciamo era un mercato che cominciava almeno per i lavoratori qualificati
ad essere più un mercato unico, adesso vedremo cosa succederà dopo la situazione Covid,
sono molto curiosa di vedere quale sarà l'impatto della pandemia su questo fenomeno,
non solo per l'Italia, ma ripeto un fenomeno che esiste tantissimo in altri paesi e che non
sta forse aumentando alla stessa rapidità con cui aumenta a noi, ma non siamo particolari,
ecco solo per dire per una volta non siamo unici, è solo che noi non siamo bravi poi ad attrarne.
Ecco la questione diciamo del post Covid è una questione a cui continuiamo a riflettere e
continuiamo a guardare proprio perché si pensa che comunque con la vaccinazione bisognerà
riniziare, bisognerà riprendere e in qualche modo ci siamo più o meno vicini, poi adesso è tutto da
vedere. Tito tu hai scritto un capitolo in un libro appunto sempre di la terza,
il mondo dopo la fine del mondo, in cui parli proprio del futuro del lavoro post Covid.
Che cosa ci puoi dire? Un po' di cose le ho già dette prima in verità, credo che si andrà avanti
a lavorare in parte in remoto più per una scelta delle imprese che magari del lavoratore, quindi
bisogna fare in tutti i modi per rendere questa invece una scelta da cui il lavoratore tra i
dei vantaggi, perché dovermente ci possono essere anche dei vantaggi nel lavorare in remoto, però
non sarà un remoto totale, sarà un remoto parziale perché è inevitabile che quelli
diciamo vantaggi, le economie di agglomerazione di cui si parla, che sono poi la fonte di sviluppo
e di successo, richiedono anche un contatto fisico, lo dico chiaramente per il lavoro
intellettuale. Io vantaggio che da tanti anni che faccio questo mestiere, quindi ho delle reti di
contatti molto diffusi, se ho bisogno di sapere qualcosa so chi rivolgermi, ho una facilità di
contatto e di relazioni con molte persone, quindi posso stabilire relazioni molto simili
facilmente con tantissime persone. Le persone che invece finiscono adesso hanno un dottorato,
lo ricordavo anche prima Giulia, il problema dei giovani, io sono veramente molto preoccupato per
i dottorandi in questo momento, perché è fondamentale il contatto fisico, la relazione
personale, crearsi delle reti di contatti, in questo momento non possono, perché non possono
viaggiare, per loro è davvero un problema molto serio. Poi chiaramente c'è il fatto che c'è anche
l'episodicità, l'estemporaneità di certe cose, delle idee brillanti, ti vengono magari andando
a prendere il caffè col tuo vicino, quello che sta di fronte a te nell'ufficio, magari non hai
preventivato, devi fare una riunione, prima devi decidere quando farla, gira doodle, poi decidi la
data, poi fai questa roba qui, questo può bloccare anche la creatività, quindi alla fine credo
torneremo verso una situazione in cui comunque dovremo avere compresenze nei posti di lavoro,
questa sarà una scelta inevitabile, però ho una parte anche di lavoro in remoto e quella parte di
lavoro in remoto è una dimensione che non abbiamo sin qui minimamente affrontato, la casa come posto
di lavoro è una questione importante, si è diffusa su ampi numeri, quindi su quello bisogna cercare
di fare qualcosa. Per quanto riguarda i profili, non è facile dirlo con i metodi che disponiamo,
sto provando proprio a guardare i dati di Burning Glass, dei posti vacanti nei paesi in cui danno
copertura maggiore, sembrerebbe che ci sia lontani dai lavori a rischio di contagio,
sembrerebbe che ci sia più lavoro nella salute, nella filiera della sanità, queste sono delle
indicazioni che sembrano emergere in modo abbastanza univoco un po' dappertutto, altre
cose però è un po' presto dirlo, non mi piace sparare e dire delle cose non precise,
penso che dobbiamo aspettare ancora un po' di tempo per avere qualche informazione in più.
Quindi tutto il tema del South working che improvvisamente era saltato fuori durante
l'estate e tutti che volevano andare a vivere…
Come anche l'abbandono delle città, credo che sia un po' una cosa transitoria,
sicuramente forse questa cosa ci ha permesso di stabilire maggiormente rapporti di lavoro
in questo modo e quindi forse le persone che lavorano al Sud, che lavoravano già al Sud,
adesso avranno più possibilità di contatto, questo può ridurre anche un po' il brain drain
di cui parlava prima Giulia, nel senso che se le persone se ne vanno le idee possono comunque
trasferirsi, rimanere, viaggiare anche senza che ci siano le persone, però non credo che
le persone potranno abbandonare le città, andare a vivere in campagna, nelle zone rurali
e lavorare da lì come se niente fosse, il rapporto personale, fisico, il fatto di andare
sul posto di lavoro in modo meno intenso che prima, meno frequente, ma ci sarà sempre.
Oltre agli spostamenti dei lavoratori c'è anche un altro aspetto che è quello dell'automazione,
che in qualche modo durante anche questo periodo ci ha molto aiutato in alcune occasioni,
purtroppo non era stato fatto abbastanza in anticipo. Antonio, l'automazione viene spesso
vista come un problema con paura, si ha paura che in qualche modo le macchine prendano il
posto degli uomini, quanto invece è vero il contrario? Quanto l'automazione può aiutarci
ad aumentare i posti di lavoro? Forse anche in questo caso è interessante
ripercorrere la storia e le narrazioni che hanno plasmato la considerazione del ruolo
dell'automazione. Ora, risposta rapida, è vero che tendenzialmente l'automazione cancella
posti di lavoro, se però consideriamo la tecnologia con uno spettro più ampio è anche
in grado di crearne di nuovi e quindi c'è anche un effetto sostituzione. Un tema però
interessante, anche durante il primo picco della pandemia qualcuno si è affrettato a
dire che ci sarà un boom di automazione perché i robot non si ammalano. Evidentemente questa
è una considerazione un po' ingenua del ruolo dell'automazione, su questo anche gli
studiosi hanno delle colpe perché si è sempre descritto il robot come un figuro che avrebbe
scacciato via il lavoratore, che si fosse trattato di una tuta blu o di un colletto
bianco. Ora, i dati più aggiornati, ma anche le teorie più raffinate ci confermano che
siamo al cospetto di una trasformazione che avviene lungo due direttrici. Da un lato l'automazione
o in generale la tecnologia ha un impatto sulle mansioni e non sui mestieri, per cui
è possibile che cancelli alcune mansioni, non complessivamente le occupazioni. Le organizzazioni
internazionali, gli economisti ci dicono che invece di sicuro la tecnologia modifica le
mansioni, per questo è importante sviluppare anche nuove abilità, nuove capacità quasi
per stipulare una sorta di assicurazione contro l'obsolescenza causata dall'automazione.
C'è un altro elemento che è legato a questo, che è quello della cosiddetta routine biased
trasformazione, dunque le attività più ripetitive, che siano manuali o cognitive, possono essere
facilmente sostituite. E fin qui, meglio così, nel senso che le attività pericolose, quelle
a scarsissimo valore aggiunto, quelle anche dure, faticose, è un bene che la tecnologia
venga a sostituirle, per questo c'è anche bisogno di ripensare le mansioni e i flussi
organizzativi. E' un bene invece aumentare quella che gli anglosassoni definiscono agency,
cioè la capacità di essere autonomi su un posto di lavoro, di scegliere come comportarsi.
Il feticcio dell'automazione come irreversibile e inevitabile, c'è sempre questa considerazione
che è stata poi nel tempo smettita. L'automazione o in generale i profondi cambiamenti che interessano
il mercato del lavoro non avvengono in uno spazio vuoto, sono invece dei percorsi umani,
sono delle scelte aziendali di ristrutturazione. Per questo banalmente ogni volta che si valuta
l'adozione di un robot più generale, di un sistema algoritmico, di un'intelligenza artificiale,
si vanno a guardare in generale tre fattori principali. Il primo, la prestanza del candidato
robot. E' in grado di fare un certo mestiere? Il secondo, il costo di investimento, che
spesso è abbastanza corposo, ma anche il ritorno di un tale investimento e in generale
la convenienza delle alternative. Abbiamo un problema con questo terzo fattore, molto
spesso non si innova, ma non si robotizza, perché le alternative sono molto più convenienti.
Il lavoro maltrattato, malpagato, malcontattualizzato è una sorta di limite umano all'automazione.
Accanto a questo non vorrei che passasse il messaggio che anche gli esempi più roboanti
di automazione totale non hanno bisogno di tutta un'infrastruttura umana, che sovrintende
la riparazione degli errori, la manutenzione delle stringhe di codice di un linguaggio
algoritmico. Esistono anche degli esperimenti che alcuni definiscono di automazione disfunzionale,
in cui si rende qualcosa sulla superficie automatizzato, scintillantemente automatizzato,
ma si trascura invece un esercito di lavori e di lavoratori visibili che sono in grado
di tenere in piedi quella che sembra essere questa infrastruttura automatizzata. L'ultimo
elemento che ricordo è che da un lato è un bene che si rifletta sul ruolo dell'automazione,
ho però l'impressione che si sia adottata questa idolatria nei confronti delle macchine
a cui è corrisposta una missione quasi apocalittica. Forse ci siamo un po' distratti. Per resistere
alle macchine c'è bisogno di garantire una sorta di sovranità umana sulla trasformazione,
che significa sovranità politica e sociale.
A proposito dell'intelligenza artificiale, ma comunque anche del modo in cui è cambiato
completamente il nostro lavoro durante questi ultimi mesi, Giulia tu lavori in un'azienda
che in questi mesi ha visto in un certo senso un'esclusione della sua attività. Zoom
ad aprile registrava, se non sbaglio, 300 milioni di utenti attivi al giorno, quindi
parliamo di cifre veramente astronomiche. Secondo te, dal tuo punto di vista, quindi
da un punto di vista interno di un'azienda di questo tipo, come cambierà il mondo del
lavoro post-covid?
In parte se ne è già parlato perché sono abbastanza d'accordo e siamo d'accordo
in azienda, avendo fatto degli studi per ovvi motivi di previsione anche di business e
di crescita, in effetti il mondo del futuro sarà un mondo ibrido per quanto lo prevediamo
noi, che non è necessariamente una cosa cattiva perché come si diceva prima il rapporto umano
resterà, anzi tornerà ad essere importante, ma secondo me sarà molto più volontario,
non so come dire, prima era by default, adesso ci sarà un atteggiamento di cercarlo per
un motivo specifico, quindi se ha senso che ci vediamo di persona per fare una riunione
bene, se non ha senso non è necessario che io come facevo un tempo voli negli Stati Uniti
per una riunione di un giorno per tornare indietro con un'impronta a carbone che lasciamo
stare, quindi l'idea è che ci sarà un'intenzionalità sia nell'online che nell'offline e che quindi
sarà una scelta consapevole. Riguardo a quello che si diceva prima che sono le aziende che
vorranno mantenere questo modello ibrido per questione di costi, non solo, secondo i sondaggi
dei lavoratori, ovviamente parliamo di lavoratori di un certo tipo, non di quelli di cui si parlava
prima che non hanno accesso e non possono fare remote working o smart working, anche
secondo questi sondaggi i lavoratori stessi cercheranno una certa parte di remote working
o come lo vogliamo chiamare, non del tutto, quindi c'è credo da parte di entrambi, sia
la parte dell'azienda e la parte dei lavoratori una consapevolezza che si deve trovare un
giusto mezzo, un giusto mezzo che può prevedere soluzioni, credo si sia menzionato prima,
di idea del co-working, io lo chiamerei più l'idea del near working, cioè l'idea di centri
vicino alla propria abitazione, quindi che riducano tutte le problematiche precedenti
della mobilità, del pendolarismo e quant'altro che permettano quella flessibilità che però
è fisica, cioè una flessibilità che non è di restare a casa. Per quelli che restano
a casa si pongono invece tante domande a livello addirittura fiscale, avete visto le
discussioni di se il lavoratore torna a vivere in uno stato in cui il costo della vita è
molto minore è giusto che l'azienda lo paghi secondo la media salariale della zona di residenza
dell'azienda dove forse c'erano altri standard di vita, quindi non mi aspetto un completamento
online ma mi aspetto che l'essere ibrido, il nuovo mondo ibrido possa però portare a
tante domande, menzionavi tu all'inizio in effetti la risoluzione del Parlamento europeo
sul diritto alla disconnessione che adesso sta in commissione, nel senso che la commissione
ha promesso che farà un'iniziativa a questo riguardo, è molto interessante perché significa
che si prevede che ci sarà in effetti questa connessione costante, quindi anche nel mondo
legislativo, non solo nel mondo delle aziende, si sta pensando a come assicurare che l'equilibrio
non sia lasciato semplicemente a un accordo tra la vostra, ma sia proprio regolamentato
a livello, in questo caso a livello europeo, come è stata la direttiva sul numero di ore
che si possono lavorare e altri step e adesso manco a farla apposta per tornare a quello
che si diceva prima, c'è anche in corso la discussione sulla direttiva sui lavoratori
e le informe, quindi c'è tutto un adattamento del mondo regolatorio, oltre che del mercato
del lavoro, su queste nuove modalità e sono d'accordissimo con il discorso di Antonio
prima sull'automazione, sulla finta automazione e sul fatto che molto spesso siamo noi stessi
che evitiamo l'automazione perché ci sono altre maniere informali che ci costano molto
credo che spero, forse mi auguro, che il Covid ci abbia insegnato che cosa vuol dire per davvero
il passaggio al digitale, che non è semplicemente digitalizzare i processi ma è ripensarli
in un'altra chiave e che quindi non è vero, non ne usciremo tutti migliori per carità
ma può essere che queste dinamiche verranno integrate in maniera più intelligente, in maniera
più smart per davvero dentro ai processi aziendali e non solo perché fa figo dire
che ho digitalizzato il processo di fatture ma mantenendolo alla fine uguale solo che in PDF
invece che essere in fotocopia.
Ecco, questo lo speriamo tutti. Un'altra cosa che speriamo è che il Covid in qualche modo
porti via una serie di altre dinamiche che erano presenti anche prima, come cita Silvano
i rapporti di tipo clientelare, cioè col fattore umano purtroppo c'era anche un fattore tutto italiano.
Non che gli algoritmi siano necessariamente migliori.
Ecco, non che gli algoritmi siano necessariamente migliori. Volevo vedere la vostra opinione,
non so chi di voi vuole rispondere proprio in un minuto perché abbiamo finito su questo tema.
Io guardo rapidamente, giustifico, diciamo questa presa di posizione però è chiaro che anche
in questo caso la speranza è che la tecnologia sia in grado di ridurre le disparità, di generare
coesione non solo tra geografie ma anche tra generazioni, visto che stasera ne parliamo.
C'è però un tema importante. Di fatto viviamo forse una seconda età della tecnologia in cui
è aumentata la consapevolezza. Per dirla in breve, è vero che spesso nell'umano ci sono degli abusi,
delle angherie, delle frodi, però sperimentiamo in molti casi, non solo sul posto di lavoro
ma anche in alcuni servizi pubblici. Non passa il giorno che non ci siano degli scandali rispetto ai settori
come la sanità, le assicurazioni o in generale i media in cui appunto i pregiudizi, le parzialità,
anche le disparità umane siano state invece trasferite poi in sistemi di allocazione delle risorse
che hanno alla base un'infrastruttura tecnologica. Per cui il rischio è quello di perdersi il meglio
dell'innovazione o della tecnologia e su questo bisognerebbe fare molti passi in avanti per evitare
che appunto la tecnologia sia una sorta di protesi umana che si porta dentro tutti gli errori,
i bias e le disparità di cui faremo evidentemente a meno, tanto nel mondo fisico quanto in quello digitale.
Quindi sì tecnologia ma sì fattore umano per il buono che c'è.
Governiamola.
Governiamola, esatto. Grazie Antonio, Tito e Giulia per essere stati con noi stasera
in questo bibastito intergenerazionale. Il prossimo, ve lo dico già, sarà il 17 marzo
e parleremo di femminismo. Grazie a tutti, grazie di aver partecipato.
Buonasera.
Grazie.
Grazie.