XII - L'occhio e Papiano (Seconda parte)
XII: L'occhio e Papiano (Seconda parte) Povera cara mammina! Ella si mostrò dapprincipio come tenuta tra due, tra la paura e la speranza. Non sapeva affidarsi a questa, indovinando che il dispetto mi spingeva; ma sentivo d'altra parte che la paura in lei era pur cagionata dalla speranza fino a quel momento segreta e quasi incosciente di non perdermi; e perciò, dando io ora a questa sua speranza alimento co' miei nuovi modi risoluti, non sapeva neanche cedere del tutto alla paura. Questa sua delicata perplessità, questo riserbo onesto m'impedirono intanto di trovarmi subito a tu per tu con me stesso e mi fecero impegnare sempre più nella sfida quasi sottintesa con Papiano. M'aspettavo che questi mi si piantasse di fronte fin dal primo giorno, smettendo i soliti complimenti e le solite cerimonie. Invece, no. Tolse il fratello dal posto di guardia, lì sul baule, come io volevo, e arrivò finanche a celiar su l'aria impacciata e smarrita d'Adriana in mia presenza. - La compatisca, signor Meis: è vergognosa come una monacella la mia cognatina!
Questa inattesa remissione, tanta disinvoltura m'impensierirono. Dove voleva andar a parare?
Una sera me lo vidi arrivare in casa insieme con un tale che entrò battendo forte il bastone sul pavimento, come se, tenendo i piedi entro un pajo di scarpe di panno che non facevan rumore, volesse sentire così, battendo il bastone, ch'egli camminava. - Dôva ca l'è stô me car parent? - si mise a gridare con stretto accento torinese, senza togliersi dal capo il cappelluccio dalle tese rialzate, calcato fin su gli occhi a sportello, appannati dal vino, né la pipetta dalla bocca, con cui pareva stesse a cuocersi il naso più rosso di quello della signorina Caporale. - Dôva ca l'è stô me car parent? - Eccolo, - disse Papiano, indicandomi; poi rivolto a me: - Signor Adriano, una grata sorpresa! Il signor Francesco Meis, di Torino, suo parente.
- Mio parente? - esclamai, trasecolando.
Quegli chiuse gli occhi, alzò come un orso una zampa e la tenne un tratto sospesa, aspettando che io gliela stringessi.
Lo lasciai lì, in quell'atteggiamento, per contemplarlo un pezzo; poi: - Che farsa è codesta? - domandai.
- No, scusi, perché? - fece Terenzio Papiano. - Il signor Francesco Meis mi ha proprio assicurato che è suo...
- Cusin , - appoggiò quegli, senza aprir gli occhi. - Tut i Meis i sôma parent .
- Ma io non ho il bene di conoscerla! - protestai.
- Oh ma côsta ca l'è bela! - esclamò colui. - L'è propi për lon che mi't son vnù a trôvè . - Meis? di Torino? - domandai io, fingendo di cercar nella memoria. - Ma io non son di Torino!
- Come! Scusi, - interloquì Papiano. - Non mi ha detto che fino a dieci anni lei stette a Torino?
- Ma si! - riprese quegli allora, seccato che si mettesse in dubbio una cosa per lui certissima. - Cusin, cusin! Questo signore qua... come si chiama?
- Terenzio Papiano, a servirla.
- Terenziano: a l'à dime che to pare a l'è andàit an America: cosa ch'a veul di' lon? a veul di' che ti t' ses fieul 'd barba Antoni ca l'è andàit 'ntla America. E nui sôma cusin.
- Ma se mio padre si chiamava Paolo...
- Antoni!
- Paolo, Paolo, Paolo. Vuol saperlo meglio di me?
Colui si strinse nelle spalle e stirò in sù la bocca:
- A m'smiava Antôni, - disse stropicciandosi il mento ispido d'una barba di quattro giorni almeno, quasi tutta grigia. - 'I veui nen côtradite: sarà prô Paôlo. I ricordo nen ben, perché mi' i l'hai nen conôssulo. Pover'uomo! Era in grado di saperlo meglio di me come si chiamasse quel suo zio andato in America; eppure si rimise, perché a ogni costo volle esser mio parente. Mi disse che suo padre, il quale si chiamava Francesco come lui, ed era fratello di Antonio... cioè di Paolo, mio padre, era andato via da Torino, quand'egli era ancor masnà , di sette anni, e che - povero impiegato - aveva vissuto sempre lontano dalla famiglia, un po' qua, un po' là. Sapeva poco, dunque, dei parenti, sia paterni, sia materni: tuttavia, era certo, certissimo d'esser mio cugino. Ma il nonno, almeno, il nonno, lo aveva conosciuto? Volli domandarglielo. Ebbene, sì: lo aveva conosciuto, non ricordava con precisione se a Pavia o a Piacenza.
- Ah si? proprio conosciuto? e com'era? Era... non se ne ricordava lui, franc nen .
- A son passà trant'ani ... Non pareva affatto in mala fede; pareva piuttosto uno sciagurato che avesse affogato la propria anima nel vino, per non sentir troppo il peso della noja e della miseria. Chinava il capo, con gli occhi chiusi, approvando tutto ciò ch'io dicevo per pigliarmelo a godere; son sicuro che se gli avessi detto che da bambini noi eravamo cresciuti insieme e che parecchie volte io gli avevo strappato i capelli, egli avrebbe approvato allo stesso modo. Non dovevo mettere in dubbio soltanto una cosa, che noi cioè fossimo cugini: su questo non poteva transigere: era ormai stabilito, ci s'era fissato, e dunque basta. A un certo punto, però, guardando Papiano e vedendolo gongolante, mi passò la voglia di scherzare. Licenziai quel pover'uomo mezzo ubriaco, salutandolo : - Caro parente! - e domandai a Papiano, con gli occhi fissi negli occhi, per fargli intender bene che non ero pane pè suoi denti:
- Mi dica adesso dov'è andato a scovare quel bel tomo. - Scusi tanto, signor Adriano ! - premise quell'imbroglione, a cui non posso fare a meno di riconoscere una grande genialità. - Mi accorgo di non essere stato felice...
- Ma lei è felicissimo, sempre! - esclamai io.
- No, intendo: di non averle fatto piacere. Ma creda pure che è stata una combinazione. Ecco qua: son dovuto andare questa mattina all'Agenzia delle imposte, per conto del marchese, mio principale. Mentr'ero là, ho sentito chiamar forte: « Signor Meis! Signor Meis! ». Mi volto subito, credendo che vi sia anche lei, per qualche affare, chi sa avesse, dico, bisogno di me, sempre pronto a servirla. Ma che! chiamavano a questo bel tomo, come lei ha detto giustamente; e allora, così... per curiosità, mi avvicinai e gli domandai se si chiamasse proprio Meis e di che paese fosse, poiché io avevo l'onore e il piacere d'ospitare in casa un signor Meis... Ecco com'è andata! Lui mi ha assicurato che lei doveva essere suo parente, ed è voluto venire a conoscerla...
- All'Agenzia dell'imposte? - Sissignore, è impiegato là: ajuto-agente.
Dovevo crederci? Volli accertarmene. Ed era vero, sì; ma era vero del pari che Papiano, insospettito, mentre io volevo prenderlo di fronte, là, per contrastare nel presente a' suoi segreti armeggii, mi sfuggiva, mi sfuggiva per ricercare invece nel mio passato e assaltarmi così quasi a le spalle. Conoscendolo bene, avevo pur troppo ragione di temere che egli, con quel fiuto nel naso, fosse bracco da non andare a lungo a vento: guaj se fosse riuscito ad aver sentore della minima traccia: l'avrebbe certo seguitata fino al molino della Stìa . Figurarsi dunque il mio spavento, quando, ivi a pochi giorni, mentre me ne stavo in camera a leggere, mi giunse dal corridojo, come dall'altro mondo, una voce, una voce ancor viva nella mia memoria. - Agradecio Dio, ántes che me la son levada de sobre!
Lo Spagnuolo ? quel mio spagnoletto barbuto e atticciato di Montecarlo? colui che voleva giocar con me e col quale m'ero bisticciato a Nizza?... Ah, perdio! Ecco la traccia! Era riuscito a scoprirla Papiano!
Balzai in piedi, reggendomi al tavolino per non cadere, nell'improvviso smarrimento angoscioso: stupefatto, quasi atterrito, tesi l'orecchio, con l'idea di fuggire non appena quei due - Papiano e lo Spagnuolo (era lui, non c'era dubbio: lo avevo veduto nella sua voce) - avessero attraversato il corridojo. Fuggire? E se- Papiano, entrando, aveva domandato alla serva s'io fossi in casa? Che avrebbe pensato della mia fuga? Ma d'altra parte, se già sapeva ch'io non ero Adriano Meis? Piano! Che notizia poteva aver di me quello Spagnuolo? Mi aveva veduto a Montecarlo. Gli avevo io detto, allora, che mi chiamavo Mattia Pascal? Forse! Non ricordavo...
Mi trovai, senza saperlo, davanti allo specchio, come se qualcuno mi ci avesse condotto per mano. Mi guardai. Ah quell'occhio maledetto ! Forse per esso colui mi avrebbe riconosciuto. Ma come mai, come mai Papiano era potuto arrivare fin là, fino alla mia avventura di Montecarlo? Questo più d'ogni altro mi stupiva. Che fare intanto? Niente. Aspettar lì che ciò che doveva avvenire avvenisse.
Non avvenne nulla. E pur non di meno la paura non mi passò, neppure la sera di quello stesso giorno, allorché Papiano, spiegandomi il mistero per me insolubile e terribile di quella visita, mi dimostrò ch'egli non era affatto su la traccia del mio passato, e che solo il caso, di cui da un pezzo godevo i favori, aveva voluto farmene un altro, rimettendomi tra i piedi quello Spagnuolo, che forse non si ricordava più di me né punto né poco. Secondo le notizie che Papiano mi diede di lui, io, andando a Montecarlo, non potevo non incontrarvelo, poich'egli era un giocatore di professione. Strano era che lo incontrassi ora a Roma, o piuttosto, che io, venendo a Roma, mi fossi intoppato in una casa, ove anch'egli poteva entrare. Certo, s'io non avessi avuto da temere, questo caso non mi sarebbe parso tanto strano: quante volte infatti non ci avviene d'imbatterci inaspettatamente in qualcuno che abbiamo conosciuto altrove per combinazione? Del resto, egli aveva o credeva d'avere le sue buone ragioni per venire a Roma e in casa di Papiano. Il torto era mio, o del caso che mi aveva fatto radere la barba e cangiare il nome.
Circa vent'anni addietro, il marchese Giglio d'Auletta, di cui Papiano era il segretario, aveva sposato l'unica sua figliuola a don Antonio Pantogada, addetto all'Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Poco dopo il matrimonio, il Pantogada, scoperto una notte dalla polizia in una bisca insieme con altri dell'aristocrazia romana, era stato richiamato a Madrid. Là aveva fatto il resto, e forse qualcos'altro di peggio, per cui era stato costretto a lasciar la diplomazia. D'allora in poi, il marchese d'Auletta non aveva avuto più pace, forzato continuamente a mandar danaro per pagare i debiti di giuoco del genero incorreggibile. Quattr'anni fa, la moglie del Pantogada era morta, lasciando una giovinetta di circa sedici anni, che il marchese aveva voluto prendere con sé, conoscendo pur troppo in quali mani altrimenti sarebbe rimasta. Il Pantogada non avrebbe voluto lasciarsela scappare; ma poi, costretto da una impellente necessità di denaro, aveva ceduto. Ora egli minacciava senza requie il suocero di riprendersi la figlia, e quel giorno appunto era venuto a Roma con questo intento, per scroccare cioè altro danaro al povero marchese, sapendo bene che questi non avrebbe mai e poi mai abbandonato nelle mani di lui la sua cara nipote Pepita.
Aveva parole di fuoco, lui, Papiano, per bollare questo indegno ricatto del Pantogada. Ed era veramente sincera quella sua collera generosa. E mentre egli parlava, io non potevo fare a meno di ammirare il privilegiato congegno della sua coscienza che, pur potendo indignarsi così, realmente, delle altrui nequizie, gli permetteva poi di farne delle simili o quasi, tranquillissimamente, a danno di quel buon uomo del Paleari, suo suocero.
Intanto il marchese Giglio quella volta voleva tener duro. Ne seguiva che il Pantogada sarebbe rimasto a Roma parecchio tempo e sarebbe certo venuto a trovare in casa Terenzio Papiano, col quale doveva intendersi a meraviglia. Un incontro dunque fra me e quello Spagnuolo sarebbe stato forse inevitabile, da un giorno all'altro. Che fare?
Non potendo con altri, mi consigliai di nuovo con lo specchio. In quella lastra l'immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo della gora, con quell'occhio che solamente m'era rimasto di lui, mi parlò così: « In che brutto impiccio ti sei cacciato, Adriano Meis! Tu hai paura di Papiano, confessalo! e vorresti dar la colpa a me, ancora a me, solo perché io a Nizza mi bisticciai con lo Spagnuolo. Eppure ne avevo ragione, tu lo sai. Ti pare che possa bastare per il momento il cancellarti dalla faccia l'ultima traccia di me? Ebbene, segui il consiglio della signorina Caporale e chiama il dottor Ambrosini, che ti rimetta l'occhio a posto. Poi... vedrai!