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Il Principe (capitoli scelti) - Nicolò Machiavelli, Capitolo 7

Capitolo 7

DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR.

[Dè principati nuovi che s'acquistano con le arme e fortuna di altri] Coloro e quali solamente per fortuna diventano, di privati principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengano; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando sono posti. E questi tali sono, quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia, nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua securtà e gloria; come erano fatti ancora quelli imperatori che, di privati, per corruzione dè soldati, pervenivano allo imperio.

Questi stanno semplicemente in sulla voluntà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime et instabili; e non sanno e non possono tenere quel grado: non sanno, perché, se non è uomo di grande ingégno e virtù, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possono, perché non hanno forze che li possino essere amiche e fedeli. Di poi, li stati che vengano subito, come tutte l'altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro in modo, che 'l primo tempo avverso le spenge; se già quelli tali, come è detto, che sí de repente sono diventati principi, non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha messo loro in grembo, è sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che li altri hanno fatto avanti che diventino principi, li faccino poi. Io voglio all'uno e all'altro di questi modi detti, circa el diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati nè dí della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con una grande virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall'altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé; non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare, per mettere le barbe sua in quelli stati che l'arme e fortuna di altri li aveva concessi. Perché, come di sopra si disse, chi non fa e fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio. Se adunque, si considerrà tutti e progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti gran fondamenti alla futura potenzia; li quali non iudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua: e se li ordini sua non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna.

Aveva Alessandro sesto, nel volere fare grande el duca suo figliuolo, assai difficultà presenti e future. Prima, è non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa; e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva che el duca di Milano e Viniziani non gnene consentirebbano; perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione dè Viniziani. Vedeva, oltre di questo, l'arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi possuto servire, essere in le mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa; e però non se ne poteva fidare, sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro còmplici. Era adunque necessario che si turbassino quelli ordini, e disordinare li stati di coloro, per potersi insignorire securamente di parte di quelli. Il che li fu facile; perché trovò e Viniziani che, mossi da altre cagioni, si eron vòlti a fare ripassare e Franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse, ma lo fè più facile con la resoluzione del matrimonio antiquo del re Luigi.

Passò, adunque, il re in Italia con lo aiuto dè Viniziani e consenso di Alessandro; né prima fu in Milano, che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna; la quale li fu consentita per la reputazione del re. Acquistata, adunque el duca la Romagna, e sbattuti è Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l'una, l'arme sua che non li parevano fedeli, l'altra, la voluntà di Francia: ciòè che l'arme Orsine, delle quali s'era valuto, li mancassino sotto, e non solamente li impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acquistato, e che il re ancora non li facessi el simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, ché li vidde andare freddi in quello assalto; e circa el re, conobbe l'animo suo quando, preso el ducato di Urbino, assaltò la Toscana: dalla quale impresa el re lo fece desistere. Onde che il duca deliberò non dependere più dalle arme e fortuna d'altri. E, la prima cosa, indebolí le parti Orsine e Colonnese in Roma; perché tutti li aderenti loro che fussino gentili uomini, se li guadagnò, faccendoli sua gentili uomini e dando loro grandi provvisioni; e onorolli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi: in modo che in pochi mesi nelli animi loro l'affezione delle parti si spense, e tutta si volse nel duca. Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere e capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui la usò meglio; perché, avvedutisi li Orsini, tardi, che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione, nel Perugino. Da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca, li quali tutti superò con lo aiuto dè Franzesi. E, ritornatogli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l'animo suo, che li Orsini, mediante el signor Paulo, si riconciliorono seco; con il quale el duca non mancò d'ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigaglia nelle sua mani. Spenti adunque, questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendoli, massime, aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a gustare el bene essere loro.

E, perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio

lasciare indrieto. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da

signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato è loro sudditi che corretti, e dato

loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di

latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla

ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi prepose messer

Remirro de Orco uomo crudele ed espedito, al quale dette pienissima potestà. Costui in

poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò el duca

non essere necessario sí eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e

preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo,

dove ogni città vi aveva lo avvocato suo.

E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguíta, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr' a questo occasione, lo fece, a Cesena, mettere , una mattina, in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.

Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che, trovandosi el duca assai potente e in parte assicurato dè presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, volendo procedere con lo acquisto, el respetto del re di Francia; perché conosceva come dal re, il quale tardi si era accorto dello errore suo, non li sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove, e vacillare con Francia, nella venuta che feciono Franzesi verso el regno di Napoli contro alli Spagnuoli che assediavono Gaeta. E l'animo suo era assicurarsi di loro; il che li sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva. E questi furono e governi sua quanto alle cose presenti. Ma, quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che uno nuovo successore alla Chiesa non li fussi amico e cercassi tòrli quello che Alessandro gli aveva dato. Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere el papa in freno; terzo, ridurre el Collegio più suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre; la quarta aveva quasi per condotta: perché dè signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere, e pochissimi si salvarono; e gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte; e, quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E, come non avessi avuto ad avere respetto a Francia (ché non gnene aveva ad avere più, per essere di già e Franzesi spogliati del Regno dalli Spagnoli, di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l'amicizia sua), è saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia dè Fiorentini, parte per paura; e Fiorentini non avevano remedio: il che se li fussi riuscito (ché gli riusciva l'anno medesimo che Alessandro morí), si acquistava tante forze e tanta reputazione, che per sé stesso si sarebbe retto, e non sarebbe più dependuto dalla fortuna e forze di altri, ma dalla potenzia e virtù sua. Ma Alessandro morí dopo cinque anni che elli aveva cominciato a trarre fuora la spada. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti li altri in aria, intra dua potentissimi eserciti inimici, e malato a morte. Ed era nel duca tanta ferocità e tanta virtù e sí bene conosceva come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e fondamenti che in sí poco tempo si aveva fatti, che, se lui non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà. E ch'e fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna lo aspettò più d'uno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro; e benché Baglioni, Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui: possé fare, se non chi è volle papa, almeno che non fussi chi non voleva. Ma, se nella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa gli era facile. E lui mi disse, nè dí che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere, morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire.

Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l'arme d'altri sono ascesi allo imperio. Perché lui avendo l'animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi, adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi dè nimici, guadagnarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da' populi, seguire e reverire da' soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere le amicizie dè re e dè principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e più freschi esempli che le azioni di costui. Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontéfice, nella quale lui ebbe mala elezione; perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, è poteva tenere che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati papi, avessino ad avere paura di lui. Perché li uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che lui aveva offesi erano, infra li altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti li altri, divenuti papi, aveano a temerlo, eccetto Roano e li Spagnoli: questi per coniunzione et obligo; quello per potenzia, avendo coniunto seco el regno di Francia. Per tanto el duca, innanzi a ogni cosa, doveva creare papa uno spagnolo, e, non potendo, doveva consentire che fussi Roano e non San Piero ad Vincula. E chi crede che nè personaggi grandi e benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s'inganna. Errò, adunque, el duca in questa elezione; e fu cagione dell'ultima ruina sua.

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Capitolo 7 Kapitel 7 Chapter 7 Capítulo 7 Chapitre 7 Capítulo 7

DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR. |principalities|new||foreign|arms|and|fortune|are acquired

[Dè principati nuovi che s'acquistano con le arme e fortuna di altri] Coloro e quali solamente per fortuna diventano, di privati principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengano; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando sono posti. E questi tali sono, quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia, nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua securtà e gloria; come erano fatti ancora quelli imperatori che, di privati, per corruzione dè soldati, pervenivano allo imperio.

Questi stanno semplicemente in sulla voluntà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime et instabili; e non sanno e non possono tenere quel grado: non sanno, perché, se non è uomo di grande ingégno e virtù, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possono, perché non hanno forze che li possino essere amiche e fedeli. Di poi, li stati che vengano subito, come tutte l'altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro in modo, che 'l primo tempo avverso le spenge; se già quelli tali, come è detto, che sí de repente sono diventati principi, non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha messo loro in grembo, è sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che li altri hanno fatto avanti che diventino principi, li faccino poi. Io voglio all'uno e all'altro di questi modi detti, circa el diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati nè dí della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con una grande virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall'altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé; non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare, per mettere le barbe sua in quelli stati che l'arme e fortuna di altri li aveva concessi. Perché, come di sopra si disse, chi non fa e fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio. Se adunque, si considerrà tutti e progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti gran fondamenti alla futura potenzia; li quali non iudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua: e se li ordini sua non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna.

Aveva Alessandro sesto, nel volere fare grande el duca suo figliuolo, assai difficultà presenti e future. Prima, è non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa; e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva che el duca di Milano e Viniziani non gnene consentirebbano; perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione dè Viniziani. Vedeva, oltre di questo, l'arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi possuto servire, essere in le mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa; e però non se ne poteva fidare, sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro còmplici. Era adunque necessario che si turbassino quelli ordini, e disordinare li stati di coloro, per potersi insignorire securamente di parte di quelli. Il che li fu facile; perché trovò e Viniziani che, mossi da altre cagioni, si eron vòlti a fare ripassare e Franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse, ma lo fè più facile con la resoluzione del matrimonio antiquo del re Luigi.

Passò, adunque, il re in Italia con lo aiuto dè Viniziani e consenso di Alessandro; né prima fu in Milano, che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna; la quale li fu consentita per la reputazione del re. Acquistata, adunque el duca la Romagna, e sbattuti è Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l'una, l'arme sua che non li parevano fedeli, l'altra, la voluntà di Francia: ciòè che l'arme Orsine, delle quali s'era valuto, li mancassino sotto, e non solamente li impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acquistato, e che il re ancora non li facessi el simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, ché li vidde andare freddi in quello assalto; e circa el re, conobbe l'animo suo quando, preso el ducato di Urbino, assaltò la Toscana: dalla quale impresa el re lo fece desistere. Onde che il duca deliberò non dependere più dalle arme e fortuna d'altri. E, la prima cosa, indebolí le parti Orsine e Colonnese in Roma; perché tutti li aderenti loro che fussino gentili uomini, se li guadagnò, faccendoli sua gentili uomini e dando loro grandi provvisioni; e onorolli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi: in modo che in pochi mesi nelli animi loro l'affezione delle parti si spense, e tutta si volse nel duca. Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere e capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui la usò meglio; perché, avvedutisi li Orsini, tardi, che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione, nel Perugino. Da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca, li quali tutti superò con lo aiuto dè Franzesi. E, ritornatogli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l'animo suo, che li Orsini, mediante el signor Paulo, si riconciliorono seco; con il quale el duca non mancò d'ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigaglia nelle sua mani. Spenti adunque, questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendoli, massime, aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a gustare el bene essere loro.

E, perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio

lasciare indrieto. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da

signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato è loro sudditi che corretti, e dato

loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di

latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla

ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi prepose messer

Remirro de Orco uomo crudele ed espedito, al quale dette pienissima potestà. Costui in

poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò el duca

non essere necessario sí eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e

preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo,

dove ogni città vi aveva lo avvocato suo.

E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguíta, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr' a questo occasione, lo fece, a Cesena, mettere , una mattina, in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.

Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che, trovandosi el duca assai potente e in parte assicurato dè presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, volendo procedere con lo acquisto, el respetto del re di Francia; perché conosceva come dal re, il quale tardi si era accorto dello errore suo, non li sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove, e vacillare con Francia, nella venuta che feciono Franzesi verso el regno di Napoli contro alli Spagnuoli che assediavono Gaeta. E l'animo suo era assicurarsi di loro; il che li sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva. E questi furono e governi sua quanto alle cose presenti. Ma, quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che uno nuovo successore alla Chiesa non li fussi amico e cercassi tòrli quello che Alessandro gli aveva dato. Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere el papa in freno; terzo, ridurre el Collegio più suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre; la quarta aveva quasi per condotta: perché dè signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere, e pochissimi si salvarono; e gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte; e, quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E, come non avessi avuto ad avere respetto a Francia (ché non gnene aveva ad avere più, per essere di già e Franzesi spogliati del Regno dalli Spagnoli, di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l'amicizia sua), è saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia dè Fiorentini, parte per paura; e Fiorentini non avevano remedio: il che se li fussi riuscito (ché gli riusciva l'anno medesimo che Alessandro morí), si acquistava tante forze e tanta reputazione, che per sé stesso si sarebbe retto, e non sarebbe più dependuto dalla fortuna e forze di altri, ma dalla potenzia e virtù sua. Ma Alessandro morí dopo cinque anni che elli aveva cominciato a trarre fuora la spada. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti li altri in aria, intra dua potentissimi eserciti inimici, e malato a morte. Ed era nel duca tanta ferocità e tanta virtù e sí bene conosceva come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e fondamenti che in sí poco tempo si aveva fatti, che, se lui non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà. E ch'e fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna lo aspettò più d'uno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro; e benché Baglioni, Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui: possé fare, se non chi è volle papa, almeno che non fussi chi non voleva. Ma, se nella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa gli era facile. E lui mi disse, nè dí che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere, morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire.

Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l'arme d'altri sono ascesi allo imperio. Perché lui avendo l'animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi, adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi dè nimici, guadagnarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da' populi, seguire e reverire da' soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere le amicizie dè re e dè principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e più freschi esempli che le azioni di costui. Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontéfice, nella quale lui ebbe mala elezione; perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, è poteva tenere che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati papi, avessino ad avere paura di lui. Perché li uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che lui aveva offesi erano, infra li altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti li altri, divenuti papi, aveano a temerlo, eccetto Roano e li Spagnoli: questi per coniunzione et obligo; quello per potenzia, avendo coniunto seco el regno di Francia. Per tanto el duca, innanzi a ogni cosa, doveva creare papa uno spagnolo, e, non potendo, doveva consentire che fussi Roano e non San Piero ad Vincula. E chi crede che nè personaggi grandi e benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s'inganna. Errò, adunque, el duca in questa elezione; e fu cagione dell'ultima ruina sua.