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Pasolini - Ragazzi di Vita, III. NOTTATA A VILLA BORGHESE (2) (NO AUDIO)

III. NOTTATA A VILLA BORGHESE (2) (NO AUDIO)

Il Calabrese prese la penna e la guardò alla luce. - A chi l'hai fregata? -chiese il Riccetto, osservandola.

- A un regazzo su 'a circolare, - masticò il Picchio.

- Ma quale regazzo, - disse il Cappellone, - ma si c'hai detto ch'era n'americano.

Il Picchio non gli dava retta.

- E che ce fai? - disse il Riccetto alzando le spalle.

- Ammazzete, - fece il Calabrese, - che nun 'o rimedi mezzo corpo?

- See! - fece il Riccetto.

- A coso, - disse il Calabrese, - quanto ce vòi caricà?

- Ma nun me fa ride, e lèvate, - ribatté il Riccetto.

- Annamo a fasse un tubbo, - gridò tutt'a un botto il Picchio, risvegliandosi, e zompando in piedi, secco che se s'alzava un po' di vento volava.

- Sta ingranato, - fece il Calabrese.

- Ma quale ingranato, - disse masticando e soffiando il Picchio, - tengo tre piotte!

Il Riccetto e il Caciotta se ne stavano seduti a aspettare come si mettevano le cose.

- Namo, - fece rauco, accennando traballante verso Porta Pinciana il Picchio. - E namoce, - fece il Cappellone, seguendolo col Calabrese. Il Riccetto e il Caciotta non si muovevano. - Namo, a moretti, - disse loro il Cappellone.

Come furono sotto gli archi di Porta Pinciana, trovarono il Negro e un altro riccio, piccolo, con una faccetta gonfia, da delinquente e due occhi di porcellana, ch'era uno dell'Acqua Bullicante, di nome Lenzetta, che già gli altri conoscevano. - Aòh, - fece il Cappellone, - due de Tibburtino, uno dell'Acqua Bullicante, due de Primavalle, uno sbandato, e er Picchio qqua de Valle dell'Inferno: potemo fà la Lega degli avvizziati de 'e Borgate de Roma!

Andarono tutti e sette in una pizzeria a farsi un litro con la grana del Picchio, dalle parti della stazione Termini; poi tornarono su per via Veneto, con le camicie che gli sventolavano fuori dai calzoni, o in canottiera, con le magliette intorcinate intorno al collo, gridando, cantando e prendendo di petto i ricchi che ancora a quell'ora passeggiavano tutti acchittati, con l'Alfa che li aspettava. Villa Borghese era ormai quasi vuota. Si sentivano appena i violini dalla Casina delle Rose. Come furono davanti al galoppatoio, il Picchio si risvegliò un'altra volta e ricominciò a gridare con quanto fiato aveva nei polmoni: - A paragule! - Scavalcò il recinto, scese giù per la scarpata e appena che fu sull'erba della radura, cadde giù con la bocca sulla polvere, e s'addormentò.

- Me so' ingrifato, mannaggia, - disse il Riccetto, - co' tutte quelle belle fardone toste de via Veneto.

- Annamo ggiù a vede si ce stanno ancora 'e scaje, - fece il Caciotta.

- See, - fece il Calabrese, - quelle vonno li sordi! 'a grana!

- Che, nun li tenemo li sordi? - disse trionfante il Caciotta. Gli altri drizzarono gli orecchi.

- Namoce allora, - disse il Negro ghignando sotto la lana che gli cadeva riccia sulle orecchie, - e che stamo a aspettà?

Attraversarono tutta la radura, sotto la luna, giunsero al maneggio e cercarono: ma le mignotte se n'erano già andate.

- Sarà passato er carozzone, - fece astuto il Calabrese.

- A va bbè, - disse il Caciotta, - staseraaa... - e proseguì il discorso scuotendo la mano con l'indice e il pollice tesi.

Il Lenzetta scherzoso gli paccò una natica.

- An vedi, - disse, - che ber cu...tto!

- Che ber ca....tto! - corresse il Caciotta.

- Che te c'ariva de dietro? - chiese quello dell'Acqua Bullicante, il Lenzetta.

- Come, no, - fece il Caciotta abbozzando, - e ce n'avanza un pezzo pe'r tuo.

- T'ha fregato, - concluse il Negro come dicesse «amen». Salirono su per l'altro versante della radura e rimboccarono sul viale dove s'erano incontrati. Ma era troppo frequentato per dormirci. Andarono in mezzo ai giardinetti verso la Casina Valadier, ognuno s'allungò in una panchina e s'appennicò.

La notte fece presto a passare: non avevano ancora cominciato a camminare le circolari sotto il Muro Torto, e tutta Roma era ancora immersa nel sonno, che già il sole batteva sui prati e i boschetti di Villa Borghese, con una luce bianca bianca che s'incollava sui muri e sui piccoli busti lungo l'aiuole.

Il Riccetto fu svegliato da una specie di strano freschetto ai piedi. Si rivoltò un poco sulla panchina, cercò di riappennicarsi, ma poi risollevò la capoccia per guardare che cosa cavolo succedeva alle sue fette. Un raggio di sole, fresco fresco e abbagliante, che cadeva di sbieco tra il frascame, gl'illuminava i pedalini bucati.

- Che, me so' levate 'e zcarpe ieri a ssera? - si chiese forte il Riccetto balzando a sedere.

- No, nun me le so' levate, - si rispose, guardando sotto la panchina, sull'erba, tra le fratte. - A Caciotta, a Caciotta, - si mise a strillare scuotendo il Caciotta che ancora dormiva, - m'hanno rubbato 'e zcarpe!

- Ch'hai fatto? - disse il Caciotta ciocco di sonno.

- M'hanno rubbato 'e zcarpe, - ristrillò il Riccetto. - E pure li sordi! -disse, cacciando le mani dentro le saccocce. Benché ancora dormisse, pure il Caciotta si guardò in saccoccia: non c'era più manco una zaccagna, e gli occhiali erano scomparsi. - Li mortacci sua! - gridava disperato il Riccetto. Pure gli altri s'erano svegliati, e se ne stavano là a guardare da lontano.

- Io nun tenevo 'na lira, - disse quello dell'Acqua Bullicante, il Lenzetta, seduto sulla sua panchina. Il Calabrese invece guardava zitto con la sua faccia gonfia, scuotendo la testa, con gli occhi pieni dell'espressione di chi sa come stanno le cose, ma non vuol parlare. Il Riccetto e il Caciotta se ne andarono senza dir niente e senza nemmeno guardare gli altri, che facevano i tonti, dando un'aria preoccupata e innocente alle loro facce losche, che tanto, nessuno poteva azzardarsi a dir niente di loro. In tutta Villa Borghese, sbiancata dal sole già caldo, non si vedeva un'anima. Scesero giù nella prateria del galoppatoio e l'attraversarono. In fondo, dall'altra parte, a pancia in basso, dormiva ancora il Picchio. Teneva un paio di scarpe di pezza blu e bianche, tutte sfilacciate e con la suola bucata.

Il Riccetto piano gliele sfilò, e se le mise, benché gli andassero un po' strette; poi spesarono giù per Porta Pinciana.

Quel giorno andarono a mangiare dai frati. Per forza, perché con tutto che avevano girato l'intera mattinata per piazza Vittorio, non avevano rimediato una lira.

Bianchi per la fame, passarono locchi locchi sotto le impalcature della stazione, e arrivarono a via Marsala, dove al numero duecentodieci c'era un portoncino con sopra scritto «Refettorio», del Sacro Cuore o della Beata Vergine, uno di quei nomi lì. Misero dentro prima il naso, poi la capoccia, facendo un passo avanti e mezzo dietro, acchittati com'erano, e solo il Riccetto con le scarpe di pezza: e si trovarono dentro un corridoietto che dava in un cortile di terra battuta, pieno di tanti penitenti come loro due, che giocavano a pallacanestro, e si vedeva benissimo che lo facevano tanto per far contenti i frati. Il Riccetto e il Caciotta si diedero un'occhiata, per squadrare uno coll'altro che faccia avevano, e per poco non se la sbroccolarono vedendo quanto facevano pena. Invece si misero a ridacchiare, e facendo a spallate, con due facce gioconde da impuniti, imboccarono.

Un budellone d'un frate gli venne incontro tutto sudato e sciammannato, e quelli un pochetto sbandarono, pensando tra di sé: «Mo che vole questo?» Ma il frate fece a gran voce: - Volete mangiare ragazzi? - Il Riccetto si voltò da quell'altra parte per non farsi vedere che gli scappava da ridere, mentre che il Caciotta, che c'era già stato un'altra volta, fece: -Sì, padre -. Alla parola «padre» il Riccetto non si resse più e cominciò a gorgogliare, tanto che dovette far finta d'allacciarsi una di quelle scarpacce zozze che c'aveva per nascondersi la faccia. Il frate fece: - Venite avanti, -e se li portò dentro un ingresso, dall'altra parte del cortile, dove c'era un tavolinetto con un registro e un blocchetto di tagliandi. Tirandosi su le sottane che quasi gli si vedeva il panzone, il frate gli chiese che gli dicessero le generalità. - Le che? - fece il Riccetto, sorpreso ma tutto servizievole, mettendosi a sua piena disposizione. Quando seppero che cavolo erano queste «generalità», le diedero false, e, in compenso, presero rispettosamente dalle mani del frate il tagliando.

Il Riccetto era tutto ben disposto nel vedere come le cose andavano liscie, e quasi quasi un poco commosso, nel suo insolito imbarazzo. - Mo quanno se magna? - chiese, pieno di aspettativa. - Boh, fra poco, - rispose il Caciotta. Intanto gli altri sbandati continuavano a giocare a quella pippa di gioco, tutti allaccati. - Aòh, giocamo pure noi, - fece il Riccetto, deciso, con tutte le intenzioni di far valere i propri diritti. Andarono in mezzo al cortile, litigarono un po' cogli altri, peggio in arnese di loro, e si misero a giocare senza conoscere per niente la pallacanestro, ch'era un gioco che non avevano sentito mai. Per tutta la mezzora che giocarono, il Riccetto non fece altro che stare attento a non gridare «vaffan...».

Poi i frati li chiamarono battendo le mani, li fecero entrare in uno stanzone in fondo all'ingressetto dei tagliandi, dove c'erano dei tavoli di dieci metri l'uno con intorno delle panche: gli diedero due sfilatini asciutti per uno e due scodelle di pasta e fagioli, gli fecero dire: In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e li fecero mangiare.

Per una decina di giorni il Riccetto e il Caciotta andarono lì. Il mezzogiorno solo però, perché alla sera i frati chiudevano bottega. Così tante volte i due mangiavano un turno solo al giorno. La sera s'arrangicchiavano. O coi soldi che rimediavano di mattina alla stazione o al mercato di piazza Vittorio, o fregando qualcosa per le bancarelle. Finalmente una sera la fortuna gli sorrise, e mandarono i frati affan... Fu sopra una circolare, dov'era salita una signora con una borsa con dentro un borsellino: quel borsellino, attraverso la vetrina del pizzicarolo di via Merulana dove la signora poco prima era entrata, s'era mostrato gonfio in maniera promettente, e la signora, uscendo, l'aveva messo dentro la borsa ch'era piena fino all'orlo e chiudeva male. Fatalità, il Riccetto e il Caciotta avevano in saccoccia giusto trenta lire. Se le divisero quindici peruno alla scappa via, rincorsero la circolare già in moto e ci saltarono dentro in corsa. Ognuno entrò per conto suo e andarono a mettersi appresso alla signora. Quella se ne stava attaccata al mancorrente, guardando con odio i vicini. Il Riccetto le si mise più accosto, perché era lui che se la doveva lavorare, e il Caciotta gli stette dietro per nascondergli i movimenti, mentre che il Riccetto, aperta piano piano la borsa, levava il borsellino con la mano destra, e se lo faceva scorrere contro il costato sotto il braccio sinistro, fino a stringerselo sotto l'ascella. Poi, sempre riparato alle spalle dal Caciotta, si fece largo in mezzo alla gente, e scesero alla prima fermata tagliando giù per i giardini di Piazza Vittorio, e un amen non saria potuto dirsi tosto così com'ei furo spariti.

Sparirono giù verso San Lorenzo, imboccando l'arco di Santa Bibiana. E già ch'erano da quelle parti, pensarono d'andarsi a fare una visitina a Tiburtino, per vedere come s'erano messe le cose dopo la loro fuga con le poltrone del tappezziere di via dei Volsci...

Era la prima sera, e un bel freschetto rendeva allegra l'atmosfera nell'ora che gli operai tornano dal lavoro e le circolari passano piene come scatole d'acciughe, e bisogna aspettare tre ore sotto le pensiline per potercisi appendere ai predellini. Da San Lorenzo, al Verano, fino al Portonaccio c'era tutta una festa, una caciara, un coricori. Il Riccetto cantava:

Quanto sei bella Roma

quanto sei bella Roma a prima sera,

a squarciagola, completamente riconciliato con la vita, tutto pieno di bei programmi per il prossimo futuro, e palpandosi in tasca la grana: la grana, che è la fonte di ogni piacere e ogni soddisfazione in questo zozzo mondo.

Il Caciotta gli veniva dietro, alle costole, tranquillo e beato. Se ne arrivarono al Portonaccio e si misero ad aspettare cantando con le mani in saccoccia, in mezzo al grande spiazzo sotto il cavalcavia, l'autobus di Tiburtino. Uno era appena partito, e avevi voglia a aspettarne un altro; quando quest'altro arrivò, s'era già radunata tanta gente a aspettarlo che chi glielo faceva fare lo sforzo di prenderlo. Ne aspettarono un terzo, e fu uguale. Vennero su da San Pietro, portati da un vento un po' fresco e un po' tiepido, tre o quattro nuvoloni, tuonò fece un po' di pioggia. Il Riccetto e il Caciotta lasciarono perdere gli autobus, che per un pezzo a quell'ora era uno strazio prenderli, e s'andarono a fare una passeggiatina, insieme a delle file di bersaglieri, dietro alla stazione Tiburtina, in fondo, tra magazzini, sterri e cantieri, per certi prati già tutti fradici, a vedere se c'era qualche zoccola. Quando se ne tornarono su al capolinea, sotto il cavalcavia, i lumicini del Verano erano già accesi e palpitavano rossicci in file e in cerchi sopra i muraglioni. L'autobus era pronto: ma anche la solita folla che lo prendeva d'assalto. - Ch'ora sarà, a Caciò? - fece il Riccetto.

- Boh, saranno l'otto, otto e un quarto, - fece il Caciotta; invece ormai dovevano essere almeno le dieci. - E tardi, - disse il Riccetto, senza per questo perdere il suo buon umore; - salimo.

Buttarono quasi a terra due o tre vecchie e due o tre vecchi, fecero i malandri col fattorino, pestarono qualche callo e diedero spallate a destra e a sinistra, andandosi infine a mettere dietro il conducente, nell'angoletto. Ci s'appoggiarono contro e osservarono ironicamente le scenette che succedevano dentro l'autobus. Poi, finalmente, cominciarono a filare dei loro compagni che, appena erano arrivati lì, li avevano allegramente salutati.

- Mbè? - fece con aria protettrice e sicura il Caciotta stringendogli a uno a uno la mano, - che famo de bello?

- Che, nun lo vedi, - fece uno, con aria abbacchiata, e i panni che puzzavano d'officina, - che tornamo dallo sgobbo?

- 'O vedo, 'o vedo, - disse il Caciotta.

L'altro continuò amaro: - Mo se n'annamo a casa, magnamo, e annamo a dormì, e domattina n'antra vorta ar risgobbo!

Il Caciotta fece: - Sì, sì! - e li sogguardò beatamente.

- E tu come te 'a passi, a Caciò? - chiese un biondo, Ernestino, notando quell'aria speciale che aveva il Caciotta.

Il Caciotta lo guardò ancora un momento, con gli occhi appannati; poi senza dir niente, coi gesti impediti dalla calca, s'infilò una mano in saccoccia, ci smucinò un pochetto, con tutta calma, guardando fisso negli occhi, ironicamente, e con aria distaccata, Ernestino e gli altri due o tre pivelli, che lo guardavano pure loro divertiti.

Poi piano piano cacciò il portafoglio, lo aprì meticolosarnente, e con delicatezza levò da uno dei reparti un pacchetto di biglietti da cento. Fatto questo, con un gesto inaspettato, colpì, ciac ciac, due o tre volte da una parte e dall'altra della faccia, Ernestino col pacchetto dei soldi. Dopo di che, rimise tutto nel portafoglio che ricacciò in saccoccia con aria stanca, tutto soddisfatto.

Ernestino aveva gli occhi che gli ridevano, divertito d'aver fatto la parte della vittima in quella sparata del Caciotta: - E che ce fai, - gli disse allegro, - so' quattro piotte so'!

- See, e quelli che c'avemo niscosti, - fece storcendo la bocca e appannando ancor di più l'occhi il Caciotta.

Il Riccetto se ne stava zitto, un po' abbioccato, anche se dandosi un po' d'arie, perché Ernestino e quegli altri lì li conosceva poco. Erano vecchi amici del Caciotta, ch'era nato e cresciuto a Tiburtino.

Con Ernesto e un certo Franco, ch'era pure lì, chiamato il Penna Bianca, si conoscevano ch'erano creature e quando Tiburtino e Pietralata erano ancora in mezzo alla campagna proprio, coi lotti nuovi e il Forte appena costruito. Di tanto in tanto, non avevano nemmeno ott'anni, se ne andavano di casa, e se ne stavano fuori per qualche settimana, digiunando o mangiandosi qualche cipolla o qualche persica fregata ai mercatini, oppure un po' di cotiche sfilate dalla borsa di qualche comare. Scappavano di casa, così, per nessuna ragione, perché gli piaceva di divertirsela. Alla caserma dei bersaglieri rimediavano da fumare. E per dormire, per esempio, s'arrangiavano sotto il tendone del cocomeraro, lì davanti, sopra i cocomeri.

Il buon umore e la condizione di gratitudine verso la vita in cui si trovava il Caciotta, per via della grana che aveva in saccoccia, lo rendevano sentimentale e disposto alle rievocazioni.

- Aòh, Ernestì, - fece quasi con dolcezza, - te ricordi de que'a vorta der cocommeraro?

- Come, nun me ricordo, - fece Ernestino, che, non avendo grana in saccoccia, restava indifferente.

- A Riccetto, - fece il Caciotta tirandolo per una manica, - sta a sentì sto pezzo... - Te ricordi, a Ernestì, - disse ridendo, - che tremarella 'a notte, da 'e parti de Bagni de Tivoli, là, che dormissimo co na mazza sotto 'a capoccia? - Ernestino rise. - Sto cocommeraro, - spiegò il Caciotta al Riccetto, - c'aveva un maiale a Bagni de Tivoli, i' una baracca in mezzo ai campi... Mo siccome che je facessimo bona guardia a li cocomeri, pensò de mannacce a fa' a guardia a sto maiale. E c'aveva pure un conijo, là in quer posto. Na sera ariva 'a madre der cocommeraro e dice: «Annate a Bagni, - dice, - a comprà mezzo chilo de pane». Capirai, due chilometri annà e due ritornà... Già era buio... Alora 'a madre der cocommeraro, mentre che noi eramio pe' strada, prende sto conijo, l'ammazza, lo coce e se lo magna. Poi prende l'ossa, scava na buchetta, e ce le mette dentro... Sta disgrazziata! Alora arivamo tutt'e ddue, e annamo subito a vedè er conijo e er conijo nun c'era più. Poi ariva er cocommeraro, er principale, e dice: «Er conijo?» Alora io e Ernestino qqua je avemo detto: «Boh, semo iti a comprà er pane e quanno semo rivenuti er conijo non c'era più». Alora er principale: «Nun ce poteva annà uno solo?» Noi je avemo risposto: «Eh, annacce uno solo, c'avevamo paura, e alora ce semo iti tutt'e ddue». Alora er principale tutto incazzato ha cacciato dalla saccoccia cinquecento lire: «Alora siete licenziati tutt'e ddue, e nun ve fate più vede davanti a li piedi mia, se no ve pijo a carci!»

- Ma che ce fregava a nnoi, - continuò tutto contento, - se ne semo riiti a Pietralata, a fà a botte co l'artri regazzini de 'a borgata, pe esse presi a lavorà ar circo... te la ricordi Ernestì?... co li leoni... 'e tigri... E que'a vorta ch'è scappata Rondella, 'a cavalla maremmana, che je semo corsi dietro tutta 'a notte, pe li prati dietro Pietralata e l'avemo acchiappata che se stava a fa' er bagno su l'Aniene! - Il Riccetto lo stava ad ascoltare allegramente, condividendo del tutto i punti di vista del Caciotta e dei suoi vecchi amici. Pure gli altri assentivano, ridendo, sentendo tutti i loro istinti di fiji de na mignotta che gli rinverdivano in fondo all'anima: tra gli altri di Tiburtino, ad ascoltare con aria scoglionata, c'era uno di Pietralata, nero di faccia e di chioma come una serpe, un cristone che gli altri gli arrivavano tutti sotto le ascelle: s'era messo lì accanto a loro, con una mano sul mancorrente, fiacco e concentrato, ad ascoltarli con un'espressione carezzevole nella sua faccia losca. Era un certo Amerigo, che il Caciotta conosceva poco più che di vista. L'autobus correva a scossoni pei sampietrini della Tiburtina, facendo ballare il suo carico di cristiani così ammucchiati che in mezzo un ago non ci sarebbe passato, e la ghenghetta di Tiburtino era sempre più allegra. - An vedi che bei riccetti che je so' venuti, - diceva Ernestino in un ritaglio della conversazione, guardando la testa del Riccetto. - Che, nun ce lo sai, - intervenne brillante il Caciotta, - che pe fasse venì li ricci quello se fa scureggià in faccia? - Mentre gli altri ridevano, Amerigo, senza troppo spostarsi da come si trovava, sfiorò col gomito il Caciotta: -Aaa coso, come te chiami, - gli fece dolcemente con voce quasi afona, - te devo da dì na parola!

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III. NOTTATA A VILLA BORGHESE (2) (NO AUDIO) III. NIGHT AT VILLA BORGHESE (2) (NO AUDIO) III. NOCHE EN VILLA BORGHESE (2) (SIN AUDIO) III. NOITE NA VILLA BORGHESE (2) (SEM ÁUDIO)

Il Calabrese prese la penna e la guardò alla luce. - A chi l'hai fregata? -chiese il Riccetto, osservandola.

- A un regazzo su 'a circolare, - masticò il Picchio.

- Ma quale regazzo, - disse il Cappellone, - ma si c'hai detto ch'era n'americano.

Il Picchio non gli dava retta.

- E che ce fai? - disse il Riccetto alzando le spalle.

- Ammazzete, - fece il Calabrese, - che nun 'o rimedi mezzo corpo?

- See! - fece il Riccetto.

- A coso, - disse il Calabrese, - quanto ce vòi caricà?

- Ma nun me fa ride, e lèvate, - ribatté il Riccetto.

- Annamo a fasse un tubbo, - gridò tutt'a un botto il Picchio, risvegliandosi, e zompando in piedi, secco che se s'alzava un po' di vento volava.

- Sta ingranato, - fece il Calabrese.

- Ma quale ingranato, - disse masticando e soffiando il Picchio, - tengo tre piotte!

Il Riccetto e il Caciotta se ne stavano seduti a aspettare come si mettevano le cose.

- Namo, - fece rauco, accennando traballante verso Porta Pinciana il Picchio. - E namoce, - fece il Cappellone, seguendolo col Calabrese. Il Riccetto e il Caciotta non si muovevano. - Namo, a moretti, - disse loro il Cappellone.

Come furono sotto gli archi di Porta Pinciana, trovarono il Negro e un altro riccio, piccolo, con una faccetta gonfia, da delinquente e due occhi di porcellana, ch'era uno dell'Acqua Bullicante, di nome Lenzetta, che già gli altri conoscevano. - Aòh, - fece il Cappellone, - due de Tibburtino, uno dell'Acqua Bullicante, due de Primavalle, uno sbandato, e er Picchio qqua de Valle dell'Inferno: potemo fà la Lega degli avvizziati de 'e Borgate de Roma!

Andarono tutti e sette in una pizzeria a farsi un litro con la grana del Picchio, dalle parti della stazione Termini; poi tornarono su per via Veneto, con le camicie che gli sventolavano fuori dai calzoni, o in canottiera, con le magliette intorcinate intorno al collo, gridando, cantando e prendendo di petto i ricchi che ancora a quell'ora passeggiavano tutti acchittati, con l'Alfa che li aspettava. Villa Borghese era ormai quasi vuota. Si sentivano appena i violini dalla Casina delle Rose. Come furono davanti al galoppatoio, il Picchio si risvegliò un'altra volta e ricominciò a gridare con quanto fiato aveva nei polmoni: - A paragule! - Scavalcò il recinto, scese giù per la scarpata e appena che fu sull'erba della radura, cadde giù con la bocca sulla polvere, e s'addormentò.

- Me so' ingrifato, mannaggia, - disse il Riccetto, - co' tutte quelle belle fardone toste de via Veneto.

- Annamo ggiù a vede si ce stanno ancora 'e scaje, - fece il Caciotta.

- See, - fece il Calabrese, - quelle vonno li sordi! 'a grana!

- Che, nun li tenemo li sordi? - disse trionfante il Caciotta. Gli altri drizzarono gli orecchi.

- Namoce allora, - disse il Negro ghignando sotto la lana che gli cadeva riccia sulle orecchie, - e che stamo a aspettà?

Attraversarono tutta la radura, sotto la luna, giunsero al maneggio e cercarono: ma le mignotte se n'erano già andate.

- Sarà passato er carozzone, - fece astuto il Calabrese.

- A va bbè, - disse il Caciotta, - staseraaa... - e proseguì il discorso scuotendo la mano con l'indice e il pollice tesi.

Il Lenzetta scherzoso gli paccò una natica.

- An vedi, - disse, - che ber cu...tto!

- Che ber ca....tto! - corresse il Caciotta.

- Che te c'ariva de dietro? - chiese quello dell'Acqua Bullicante, il Lenzetta.

- Come, no, - fece il Caciotta abbozzando, - e ce n'avanza un pezzo pe'r tuo.

- T'ha fregato, - concluse il Negro come dicesse «amen». Salirono su per l'altro versante della radura e rimboccarono sul viale dove s'erano incontrati. Ma era troppo frequentato per dormirci. Andarono in mezzo ai giardinetti verso la Casina Valadier, ognuno s'allungò in una panchina e s'appennicò.

La notte fece presto a passare: non avevano ancora cominciato a camminare le circolari sotto il Muro Torto, e tutta Roma era ancora immersa nel sonno, che già il sole batteva sui prati e i boschetti di Villa Borghese, con una luce bianca bianca che s'incollava sui muri e sui piccoli busti lungo l'aiuole.

Il Riccetto fu svegliato da una specie di strano freschetto ai piedi. Si rivoltò un poco sulla panchina, cercò di riappennicarsi, ma poi risollevò la capoccia per guardare che cosa cavolo succedeva alle sue fette. Un raggio di sole, fresco fresco e abbagliante, che cadeva di sbieco tra il frascame, gl'illuminava i pedalini bucati.

- Che, me so' levate 'e zcarpe ieri a ssera? - si chiese forte il Riccetto balzando a sedere.

- No, nun me le so' levate, - si rispose, guardando sotto la panchina, sull'erba, tra le fratte. - A Caciotta, a Caciotta, - si mise a strillare scuotendo il Caciotta che ancora dormiva, - m'hanno rubbato 'e zcarpe!

- Ch'hai fatto? - disse il Caciotta ciocco di sonno.

- M'hanno rubbato 'e zcarpe, - ristrillò il Riccetto. - E pure li sordi! -disse, cacciando le mani dentro le saccocce. Benché ancora dormisse, pure il Caciotta si guardò in saccoccia: non c'era più manco una zaccagna, e gli occhiali erano scomparsi. - Li mortacci sua! - gridava disperato il Riccetto. Pure gli altri s'erano svegliati, e se ne stavano là a guardare da lontano.

- Io nun tenevo 'na lira, - disse quello dell'Acqua Bullicante, il Lenzetta, seduto sulla sua panchina. Il Calabrese invece guardava zitto con la sua faccia gonfia, scuotendo la testa, con gli occhi pieni dell'espressione di chi sa come stanno le cose, ma non vuol parlare. Il Riccetto e il Caciotta se ne andarono senza dir niente e senza nemmeno guardare gli altri, che facevano i tonti, dando un'aria preoccupata e innocente alle loro facce losche, che tanto, nessuno poteva azzardarsi a dir niente di loro. In tutta Villa Borghese, sbiancata dal sole già caldo, non si vedeva un'anima. Scesero giù nella prateria del galoppatoio e l'attraversarono. In fondo, dall'altra parte, a pancia in basso, dormiva ancora il Picchio. Teneva un paio di scarpe di pezza blu e bianche, tutte sfilacciate e con la suola bucata.

Il Riccetto piano gliele sfilò, e se le mise, benché gli andassero un po' strette; poi spesarono giù per Porta Pinciana.

Quel giorno andarono a mangiare dai frati. Per forza, perché con tutto che avevano girato l'intera mattinata per piazza Vittorio, non avevano rimediato una lira.

Bianchi per la fame, passarono locchi locchi sotto le impalcature della stazione, e arrivarono a via Marsala, dove al numero duecentodieci c'era un portoncino con sopra scritto «Refettorio», del Sacro Cuore o della Beata Vergine, uno di quei nomi lì. Misero dentro prima il naso, poi la capoccia, facendo un passo avanti e mezzo dietro, acchittati com'erano, e solo il Riccetto con le scarpe di pezza: e si trovarono dentro un corridoietto che dava in un cortile di terra battuta, pieno di tanti penitenti come loro due, che giocavano a pallacanestro, e si vedeva benissimo che lo facevano tanto per far contenti i frati. Il Riccetto e il Caciotta si diedero un'occhiata, per squadrare uno coll'altro che faccia avevano, e per poco non se la sbroccolarono vedendo quanto facevano pena. Invece si misero a ridacchiare, e facendo a spallate, con due facce gioconde da impuniti, imboccarono.

Un budellone d'un frate gli venne incontro tutto sudato e sciammannato, e quelli un pochetto sbandarono, pensando tra di sé: «Mo che vole questo?» Ma il frate fece a gran voce: - Volete mangiare ragazzi? - Il Riccetto si voltò da quell'altra parte per non farsi vedere che gli scappava da ridere, mentre che il Caciotta, che c'era già stato un'altra volta, fece: -Sì, padre -. Alla parola «padre» il Riccetto non si resse più e cominciò a gorgogliare, tanto che dovette far finta d'allacciarsi una di quelle scarpacce zozze che c'aveva per nascondersi la faccia. Il frate fece: - Venite avanti, -e se li portò dentro un ingresso, dall'altra parte del cortile, dove c'era un tavolinetto con un registro e un blocchetto di tagliandi. Tirandosi su le sottane che quasi gli si vedeva il panzone, il frate gli chiese che gli dicessero le generalità. - Le che? - fece il Riccetto, sorpreso ma tutto servizievole, mettendosi a sua piena disposizione. Quando seppero che cavolo erano queste «generalità», le diedero false, e, in compenso, presero rispettosamente dalle mani del frate il tagliando.

Il Riccetto era tutto ben disposto nel vedere come le cose andavano liscie, e quasi quasi un poco commosso, nel suo insolito imbarazzo. - Mo quanno se magna? - chiese, pieno di aspettativa. - Boh, fra poco, - rispose il Caciotta. Intanto gli altri sbandati continuavano a giocare a quella pippa di gioco, tutti allaccati. - Aòh, giocamo pure noi, - fece il Riccetto, deciso, con tutte le intenzioni di far valere i propri diritti. Andarono in mezzo al cortile, litigarono un po' cogli altri, peggio in arnese di loro, e si misero a giocare senza conoscere per niente la pallacanestro, ch'era un gioco che non avevano sentito mai. Per tutta la mezzora che giocarono, il Riccetto non fece altro che stare attento a non gridare «vaffan...».

Poi i frati li chiamarono battendo le mani, li fecero entrare in uno stanzone in fondo all'ingressetto dei tagliandi, dove c'erano dei tavoli di dieci metri l'uno con intorno delle panche: gli diedero due sfilatini asciutti per uno e due scodelle di pasta e fagioli, gli fecero dire: In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e li fecero mangiare.

Per una decina di giorni il Riccetto e il Caciotta andarono lì. Il mezzogiorno solo però, perché alla sera i frati chiudevano bottega. Così tante volte i due mangiavano un turno solo al giorno. La sera s'arrangicchiavano. O coi soldi che rimediavano di mattina alla stazione o al mercato di piazza Vittorio, o fregando qualcosa per le bancarelle. Finalmente una sera la fortuna gli sorrise, e mandarono i frati affan... Fu sopra una circolare, dov'era salita una signora con una borsa con dentro un borsellino: quel borsellino, attraverso la vetrina del pizzicarolo di via Merulana dove la signora poco prima era entrata, s'era mostrato gonfio in maniera promettente, e la signora, uscendo, l'aveva messo dentro la borsa ch'era piena fino all'orlo e chiudeva male. Fatalità, il Riccetto e il Caciotta avevano in saccoccia giusto trenta lire. Se le divisero quindici peruno alla scappa via, rincorsero la circolare già in moto e ci saltarono dentro in corsa. Ognuno entrò per conto suo e andarono a mettersi appresso alla signora. Quella se ne stava attaccata al mancorrente, guardando con odio i vicini. Il Riccetto le si mise più accosto, perché era lui che se la doveva lavorare, e il Caciotta gli stette dietro per nascondergli i movimenti, mentre che il Riccetto, aperta piano piano la borsa, levava il borsellino con la mano destra, e se lo faceva scorrere contro il costato sotto il braccio sinistro, fino a stringerselo sotto l'ascella. Poi, sempre riparato alle spalle dal Caciotta, si fece largo in mezzo alla gente, e scesero alla prima fermata tagliando giù per i giardini di Piazza Vittorio, e un amen non saria potuto dirsi tosto così com'ei furo spariti.

Sparirono giù verso San Lorenzo, imboccando l'arco di Santa Bibiana. E già ch'erano da quelle parti, pensarono d'andarsi a fare una visitina a Tiburtino, per vedere come s'erano messe le cose dopo la loro fuga con le poltrone del tappezziere di via dei Volsci...

Era la prima sera, e un bel freschetto rendeva allegra l'atmosfera nell'ora che gli operai tornano dal lavoro e le circolari passano piene come scatole d'acciughe, e bisogna aspettare tre ore sotto le pensiline per potercisi appendere ai predellini. Da San Lorenzo, al Verano, fino al Portonaccio c'era tutta una festa, una caciara, un coricori. Il Riccetto cantava:

Quanto sei bella Roma

quanto sei bella Roma a prima sera,

a squarciagola, completamente riconciliato con la vita, tutto pieno di bei programmi per il prossimo futuro, e palpandosi in tasca la grana: la grana, che è la fonte di ogni piacere e ogni soddisfazione in questo zozzo mondo.

Il Caciotta gli veniva dietro, alle costole, tranquillo e beato. Se ne arrivarono al Portonaccio e si misero ad aspettare cantando con le mani in saccoccia, in mezzo al grande spiazzo sotto il cavalcavia, l'autobus di Tiburtino. Uno era appena partito, e avevi voglia a aspettarne un altro; quando quest'altro arrivò, s'era già radunata tanta gente a aspettarlo che chi glielo faceva fare lo sforzo di prenderlo. Ne aspettarono un terzo, e fu uguale. Vennero su da San Pietro, portati da un vento un po' fresco e un po' tiepido, tre o quattro nuvoloni, tuonò fece un po' di pioggia. Il Riccetto e il Caciotta lasciarono perdere gli autobus, che per un pezzo a quell'ora era uno strazio prenderli, e s'andarono a fare una passeggiatina, insieme a delle file di bersaglieri, dietro alla stazione Tiburtina, in fondo, tra magazzini, sterri e cantieri, per certi prati già tutti fradici, a vedere se c'era qualche zoccola. Quando se ne tornarono su al capolinea, sotto il cavalcavia, i lumicini del Verano erano già accesi e palpitavano rossicci in file e in cerchi sopra i muraglioni. L'autobus era pronto: ma anche la solita folla che lo prendeva d'assalto. - Ch'ora sarà, a Caciò? - fece il Riccetto.

- Boh, saranno l'otto, otto e un quarto, - fece il Caciotta; invece ormai dovevano essere almeno le dieci. - E tardi, - disse il Riccetto, senza per questo perdere il suo buon umore; - salimo.

Buttarono quasi a terra due o tre vecchie e due o tre vecchi, fecero i malandri col fattorino, pestarono qualche callo e diedero spallate a destra e a sinistra, andandosi infine a mettere dietro il conducente, nell'angoletto. Ci s'appoggiarono contro e osservarono ironicamente le scenette che succedevano dentro l'autobus. Poi, finalmente, cominciarono a filare dei loro compagni che, appena erano arrivati lì, li avevano allegramente salutati.

- Mbè? - fece con aria protettrice e sicura il Caciotta stringendogli a uno a uno la mano, - che famo de bello?

- Che, nun lo vedi, - fece uno, con aria abbacchiata, e i panni che puzzavano d'officina, - che tornamo dallo sgobbo?

- 'O vedo, 'o vedo, - disse il Caciotta.

L'altro continuò amaro: - Mo se n'annamo a casa, magnamo, e annamo a dormì, e domattina n'antra vorta ar risgobbo!

Il Caciotta fece: - Sì, sì! - e li sogguardò beatamente.

- E tu come te 'a passi, a Caciò? - chiese un biondo, Ernestino, notando quell'aria speciale che aveva il Caciotta.

Il Caciotta lo guardò ancora un momento, con gli occhi appannati; poi senza dir niente, coi gesti impediti dalla calca, s'infilò una mano in saccoccia, ci smucinò un pochetto, con tutta calma, guardando fisso negli occhi, ironicamente, e con aria distaccata, Ernestino e gli altri due o tre pivelli, che lo guardavano pure loro divertiti.

Poi piano piano cacciò il portafoglio, lo aprì meticolosarnente, e con delicatezza levò da uno dei reparti un pacchetto di biglietti da cento. Fatto questo, con un gesto inaspettato, colpì, ciac ciac, due o tre volte da una parte e dall'altra della faccia, Ernestino col pacchetto dei soldi. Dopo di che, rimise tutto nel portafoglio che ricacciò in saccoccia con aria stanca, tutto soddisfatto.

Ernestino aveva gli occhi che gli ridevano, divertito d'aver fatto la parte della vittima in quella sparata del Caciotta: - E che ce fai, - gli disse allegro, - so' quattro piotte so'!

- See, e quelli che c'avemo niscosti, - fece storcendo la bocca e appannando ancor di più l'occhi il Caciotta.

Il Riccetto se ne stava zitto, un po' abbioccato, anche se dandosi un po' d'arie, perché Ernestino e quegli altri lì li conosceva poco. Erano vecchi amici del Caciotta, ch'era nato e cresciuto a Tiburtino.

Con Ernesto e un certo Franco, ch'era pure lì, chiamato il Penna Bianca, si conoscevano ch'erano creature e quando Tiburtino e Pietralata erano ancora in mezzo alla campagna proprio, coi lotti nuovi e il Forte appena costruito. Di tanto in tanto, non avevano nemmeno ott'anni, se ne andavano di casa, e se ne stavano fuori per qualche settimana, digiunando o mangiandosi qualche cipolla o qualche persica fregata ai mercatini, oppure un po' di cotiche sfilate dalla borsa di qualche comare. Scappavano di casa, così, per nessuna ragione, perché gli piaceva di divertirsela. Alla caserma dei bersaglieri rimediavano da fumare. E per dormire, per esempio, s'arrangiavano sotto il tendone del cocomeraro, lì davanti, sopra i cocomeri.

Il buon umore e la condizione di gratitudine verso la vita in cui si trovava il Caciotta, per via della grana che aveva in saccoccia, lo rendevano sentimentale e disposto alle rievocazioni.

- Aòh, Ernestì, - fece quasi con dolcezza, - te ricordi de que'a vorta der cocommeraro?

- Come, nun me ricordo, - fece Ernestino, che, non avendo grana in saccoccia, restava indifferente.

- A Riccetto, - fece il Caciotta tirandolo per una manica, - sta a sentì sto pezzo... - Te ricordi, a Ernestì, - disse ridendo, - che tremarella 'a notte, da 'e parti de Bagni de Tivoli, là, che dormissimo co na mazza sotto 'a capoccia? - Ernestino rise. - Sto cocommeraro, - spiegò il Caciotta al Riccetto, - c'aveva un maiale a Bagni de Tivoli, i' una baracca in mezzo ai campi... Mo siccome che je facessimo bona guardia a li cocomeri, pensò de mannacce a fa' a guardia a sto maiale. E c'aveva pure un conijo, là in quer posto. Na sera ariva 'a madre der cocommeraro e dice: «Annate a Bagni, - dice, - a comprà mezzo chilo de pane». Capirai, due chilometri annà e due ritornà... Già era buio... Alora 'a madre der cocommeraro, mentre che noi eramio pe' strada, prende sto conijo, l'ammazza, lo coce e se lo magna. Poi prende l'ossa, scava na buchetta, e ce le mette dentro... Sta disgrazziata! Alora arivamo tutt'e ddue, e annamo subito a vedè er conijo e er conijo nun c'era più. Poi ariva er cocommeraro, er principale, e dice: «Er conijo?» Alora io e Ernestino qqua je avemo detto: «Boh, semo iti a comprà er pane e quanno semo rivenuti er conijo non c'era più». Alora er principale: «Nun ce poteva annà uno solo?» Noi je avemo risposto: «Eh, annacce uno solo, c'avevamo paura, e alora ce semo iti tutt'e ddue». Alora er principale tutto incazzato ha cacciato dalla saccoccia cinquecento lire: «Alora siete licenziati tutt'e ddue, e nun ve fate più vede davanti a li piedi mia, se no ve pijo a carci!»

- Ma che ce fregava a nnoi, - continuò tutto contento, - se ne semo riiti a Pietralata, a fà a botte co l'artri regazzini de 'a borgata, pe esse presi a lavorà ar circo... te la ricordi Ernestì?... co li leoni... 'e tigri... E que'a vorta ch'è scappata Rondella, 'a cavalla maremmana, che je semo corsi dietro tutta 'a notte, pe li prati dietro Pietralata e l'avemo acchiappata che se stava a fa' er bagno su l'Aniene! - Il Riccetto lo stava ad ascoltare allegramente, condividendo del tutto i punti di vista del Caciotta e dei suoi vecchi amici. Pure gli altri assentivano, ridendo, sentendo tutti i loro istinti di fiji de na mignotta che gli rinverdivano in fondo all'anima: tra gli altri di Tiburtino, ad ascoltare con aria scoglionata, c'era uno di Pietralata, nero di faccia e di chioma come una serpe, un cristone che gli altri gli arrivavano tutti sotto le ascelle: s'era messo lì accanto a loro, con una mano sul mancorrente, fiacco e concentrato, ad ascoltarli con un'espressione carezzevole nella sua faccia losca. Era un certo Amerigo, che il Caciotta conosceva poco più che di vista. L'autobus correva a scossoni pei sampietrini della Tiburtina, facendo ballare il suo carico di cristiani così ammucchiati che in mezzo un ago non ci sarebbe passato, e la ghenghetta di Tiburtino era sempre più allegra. - An vedi che bei riccetti che je so' venuti, - diceva Ernestino in un ritaglio della conversazione, guardando la testa del Riccetto. - Che, nun ce lo sai, - intervenne brillante il Caciotta, - che pe fasse venì li ricci quello se fa scureggià in faccia? |||||interveio|||||||||||||soltar pum pum|| - Mentre gli altri ridevano, Amerigo, senza troppo spostarsi da come si trovava, sfiorò col gomito il Caciotta: -Aaa coso, come te chiami, - gli fece dolcemente con voce quasi afona, - te devo da dì na parola! ||||||||||||tocou levemente|||||Ah|||||||||||sem som||||||