V. LE NOTTI CALDE (1)
Panza piena nun crede ar diggiuno... G. G. BELLI
Il Lenzetta intanto se ne stava ad aspettare il Riccetto e Alduccio, seduto sulla polvere sotto un muretto, tutto acchittato, coi calzoni di velluto e con l'americana rossa e nera che, secondo lui, spaccava il c... a tutta la Maranella. Era fradicio di sudore, perché aveva dato due calci al pallone con dei maschi che adesso continuavano a giocare, lì sotto, in un praticello tra via dell'Acqua Bullicante e il Pigneto. Sopra il muretto, a godersi il passeggio, accucciata sul tetto di latta della sua abitazione che pareva uno stabbio per le pecore, se ne stava la Elina, con due cerchi di oro falso che le ciondolavano agli orecchi, e con in braccio il pupo più piccolo che faceva la lagna. Il Lenzetta non la filava per niente, e se ne stava anche lui in contemplazione della vita, dicendo ogni tanto i morti al Riccetto che ancora non arrivava. Ma era discretamente allegro. Cantava con la nuca piena di riccioletti appoggiato al muretto scrostato, facendo ogni tanto franare qualche tocco di cappellaccio o di polvere, perché cantando muoveva con gran passione la testa da manca a dritta e da dritta a manca, piano piano. Gli occhi li teneva mezzi chiusi, e siccome cantava a voce bassa, come se si confessasse, o volesse solo dare un piccolo saggio di quello che avrebbe saputo fare, uno che gli fosse stato a neanche quattro passi di distanza, avrebbe soltanto visto la sua bocca che si apriva e si chiudeva, e le corde del collo che gli si tiravano fino a spezzarsi intorno al gargarozzo.
Ogni momento s'interrompeva, sul più bello d'un gorgheggio, per gridare qualcosa a quelli che stavano a giocare al pallone tignosi e sfiatati; ce n'era uno, di manco una tredicina d'anni, che giocava fumandosi un mozzone, e un altro tutto allaccato che stava lungo per terra, alzando moina contro quelli che correvano.
- A morti de debbolezza! - faceva il Lenzetta senza alzar troppo la voce per non far fatica. - Ma si nun te reggi più in piedi, ma che vvòi da noi, -rispondeva il portiere, che stava disoccupato tra i pali, tendendo in avanti il corpo coi calzoncini mezzi sbottonati e sbrillentati e mettendosi a imbuto davanti alla bocca le mani con dei guanti trovati in qualche immondezzaio. Quello che se ne stava sdraiato in mezzo al campo, venne su sulla strada, mandando al fascio il pallone e quegli altri che ci si ammattivano dietro: si tirò su i calzoni sfilando del tutto la canottiera zozza e lasciandola ondeggiare sopra le chiappe, e andò incontro a un altro maschietto come lui, che veniva avanti allegro come un rondinino, con sotto il braccio la bottiglia del latte. Si misero a giocare a palline poco distanti dal Lenzetta, sotto la Elina, che, seduta sul tetto di bandone, si disegnava contro il cielo bianco come la statua della madonna in una processione. - Li mortacci sua, - disse ancora una volta infregnato il Lenzetta alla volta del Riccetto e d'Alduccio; ma con tutto ciò non riusciva a perdere il suo buon umore, disposto a fregarsene di tutto. Il ragazzetto arrivato per ultimo, che giocando cinguettava allegro anche quando s'arrabbiava con l'altro, che cercava di fare il dritto, gli era entrato in simpatia, e si mise a proteggerlo. L'altro si fece subito bono bono e cominciò a giocare leale, senza cercar di fregare il piccoletto. Si accucciavano, prendevano la mira, e zac, col palmo della mano puntato a terra, la pallina schizzava in buca. Il Lenzetta guardava paterno. Il piccoletto quando vinceva faceva una specie di danza intorno alla bottiglia del latte abbandonata per terra alla supina; e si rimetteva subito giù, con le gambette larghe e il sedere sui calcagni, a sparare in buca.
- Vinci, eh, fringuellì? - gli faceva il Lenzetta con aria di benefattore. L'altro giocatore masticava amaro: e, incarognito, cominciò a vincere lui. -Aòh, mbè? che te fai fà 'a rapina, a fringuellì? - diceva allora il Lenzetta scherzoso. Poi passò davanti a tutta callara un'auto funebre vuota, filando sotto i gran palazzoni e poi contro le siepi fangose dell'Acqua Bullicante.
- Addio, mia bella addio! - gridò il Lenzetta, per tutto commento, alla volta del cadavere che quella andava a raccogliere in qualche parte, e subito gli rivenne in mente il Riccetto, che pure lui era andato a un funerale. - Sto stronzo, - fece, arrossendo di collera.
Il Lenzetta se n'era andato di casa per paura del fratello più grosso: e non c'aveva mica torto d'averla, perché ne aveva combinata una che a pensarci non ci si capacitava nemmeno lui e si sarebbe sputato in un occhio. Mica s'era comportato male, secondo lui, in senso morale... Sì! morale! Che c... gliene fregava a lui e al fratello della morale! Era stata una quistione d'onore, e, per dire la sincera verità, mica una stupidaggine da niente. Che cavolo s'era messo nella capoccia quella notte il Lenzetta... Boh, si vede ch'era rimasto un po' sonato per le botte che gli avevano dato prima in camera di sicurezza e poi a bottega... Come era stato portato a bottega - a Regina Coeli, non a Porta Portese, perché con tutto che pareva ancora pischelletto, era già entrato in diciott'anni - grattandosi la capoccia tutta riccia, fece: - Mo qua so' c... mia! - E non s'era sbagliato, perché una delle prime parole che si sentì dire appena dentro, da un tizio che pareva Lazzaro appena sortito dalla cassa da morto, fu: - Che ber culetto che t'aritrovi, a morè -. Ma per fortuna sua, il fratello, il Lenzetta numero I, era uno dei ladri più autorevoli a Regina Coeli: e per rispetto del fratello fu rispettato pure lui, carinello com'era. Dopo qualche settimana se ne sortì con la condizionale, e tornò a Torpignattara. La prima cosa che sua madre gli disse, fu: - Chi nun lavora nun magna, sa'! - E famme riposà un pochetto, no! - fece lui congiungendo le mani a scodella sotto il mento, -so' appena sortito de bottega, so'! - E quella sera s'andò a divertire con gli amici al «Bar del Tappeto Verde» chiamato anche il «Bar della Pugnalata» dove avevano ritrovo quelli che si chiamavano da sé gli avviziati della Maranella, giovincelli sui sedic'anni che avevano appena cominciato a frequentare i locali e a giocare al biliardo. Fece un po' di moina con loro, si dette delle arie perché era stato a Regina Coeli e ormai per questo gli si doveva una certa considerazione; si bevvero un mezzo bicchiere di vino ciascuno, e se ne andarono così a dormire ubbriachi fracichi.
Il Lenzetta dormiva con suo fratello più grande, in un camerino senza finestre, uno in un letto vecchio come una gondola, l'altro s'una branda. Quando fu verso la mezzanotte, il Lenzetta che non riusciva a prendere sonno, e era arrazzato per il vino, buttò per aria le vecchie lenzuola rattoppate, e si mise a cantare. Il fratello dormiva come una cucuzza, con la bocca mezza aperta e le lenzuola intorcinate tra le gambe, ma dopo un po' cominciò a dare segni di fastidio: e si rivoltò di colpo, portandosi tutte le lenzuola sotto la pancia. Il Lenzetta, ubbriaco fracico, continuò a cantare a tutto gasse. L'altro allora si svegliò di botto e fece: - Aòh? - Vaffan... -rispose il Lenzetta alzandosi in piedi. Il fratello si rese conto di ciò che succedeva, lo guardò, gli diede una spinta che lo spiccicò contro il muro e si riappennicò. Il mattino dopo il Lenzetta scendendo in strada vide il fratello che lo stava a aspettare con la lambretta. - Sali, - gli fece. Il Lenzetta locco locco obbedì e l'altro a tutta callara attraversò in mezzo al traffico del mattino presto la Maranella, tagliò pei vicoletti di Torpignattara, che in mezzo a quell'ora non ci si passava perché c'era il mercato, si lanciò a settanta all'ora verso il Mandrione, lo passò, e come uno scellerato arrivò all'Acqua Santa. Mica scese o rallentò su per i viottoli coperti di quattro palmi di polvere, si spinse dentro in quarta, e come furono in mezzo alle praterie e alle caverne, sotto una torraccia, spense il motore, scese e disse al Lenzetta: - Mèttete 'n guardia -. Si pestarono per mezzora, e finalmente il Lenzetta, tutto sderenato, era riuscito a tagliare.