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Memorie di Adriano - Yourcenar, 2. VARIUS MULTIPLEX MULTIFORMIS (4)

2. VARIUS MULTIPLEX MULTIFORMIS (4)

In questo frattempo morì Licinio Sura. Tra i consiglieri privati dell'imperatore era il più moderato. La sua morte fu per noi una battaglia perduta. Per me, Sura aveva mostrato sempre una sollecitudine paterna; da qualche anno ormai, le deboli forze che gli lasciava il male non gli consentivano più la diuturna fatica dell'ambizione personale, ma gli furono sempre sufficienti a servire un uomo di cui condivideva le opinioni. La conquista dell'Arabia era stata intrapresa contro i suoi consigli; lui solo, se avesse vissuto, avrebbe potuto evitare allo Stato le tribolazioni e gli sperperi immani della campagna contro i Parti. Divorato già dalla febbre, dedicava le sue ore insonni a discutere con me progetti che lo sfibravano, ma il cui esito gli stava a cuore più che qualche briciola ancora di vita. Al suo capezzale ho vissuto in anticipo, sino al più minuto particolare amministrativo, alcune delle fasi future del mio regno. Le critiche di quell'agonizzante risparmiavano l'imperatore, ma egli sentiva che quel po' di saggezza che restava al regime moriva con lui. Se avesse vissuto due o tre anni di più, forse mi sarebbero state evitate certe vie traverse di cui fu improntata la mia scalata al potere; sarebbe riuscito a persuadere l'imperatore a compiere l'adozione più presto, allo scoperto. Ma le parole estreme di quell'uomo di Stato, che mi lasciava in eredità il suo compito arduo, sono state per me un'investitura imperiale.

Se aumentava il gruppo dei miei sostenitori, altrettanto accadeva a quello dei miei nemici. Il più pericoloso dei miei avversari era Lusio Quieto, nelle cui vene scorreva sangue romano e arabo; i suoi squadroni numidi avevano avuto una parte considerevole nella seconda campagna dacica; era un fautore esagitato della guerra in Asia. Tutto mi era detestabile in quell'individuo: il lusso esotico, gli svolazzi pretensiosi dei suoi veli bianchi orlati d'un cordone d'oro, quei suoi occhi sfuggenti e insieme arroganti, la sua crudeltà indicibile verso i Popoli vinti e assoggettati. Quei capi del partito militare si decimavano tra loro nelle lotte intestine, ma coloro che restavano non facevano che cementare sempre più il loro potere, e io ero esposto sempre più alla diffidenza di Palma e all'odio di Celso. La mia posizione personale, per fortuna, era quasi inespugnabile. L'amministrazione civile era sempre più nelle mie mani, da quando l'imperatore attendeva esclusivamente ai suoi progetti di guerra. I miei amici, i quali soltanto avrebbero potuto soppiantarmi per la loro capacità e la conoscenza degli affari, dimostravano una modestia nobilissima preferendomi a se stessi. Nerazio Prisco, nel quale l'imperatore aveva una grande fiducia, si limitava ogni giorno di più, deliberatamente, alla sua attività legale. Attiano organizzava la sua esistenza nella finalità di servirmi; avevo la cauta approvazione di Plotina. Un anno prima della guerra, fui promosso alla carica di governatore della Siria, alla quale in seguito si aggiunse quella di legato presso l'esercito. Incaricato di controllare e di organizzare le nostre basi, divenni così una delle leve di comando di un'impresa che giudicavo insensata. Esitai qualche tempo, poi accettai: rifiutare significava precludersi la strada maestra per il potere proprio in un momento in cui il potere mi stava a cuore più che mai. E significava altresì privarsi dell'unica possibilità di rappresentare la mia parte di moderatore.

Durante quei pochi anni che precedettero la grande crisi, avevo preso una decisione che mi fece giudicare definitivamente frivolo dai miei nemici, e che in parte aveva proprio lo scopo di suscitare tale giudizio e parare così ogni attacco: ero andato a passar qualche mese in Grecia. La politica, almeno in apparenza, non entrava per nulla in questo viaggio. Fu un'escursione di piacere e di studi: ne riportai qualche coppa incisa, e alcuni libri che divisi con Plotina. Laggiù ricevetti, tra tutti i miei onori ufficiali, quello che accettai con gioia più viva: fui nominato arconte di Atene. Mi concessi qualche mese di operosità e di svaghi facili, di passeggiate, in primavera, sulle colline disseminate di anemoni, di contatti amichevoli col marmo nudo. A Cheronea, dove ero andato a commuovermi sulle antiche coppie di amici del Battaglione Sacro, fui per due giorni ospite di Plutarco. Il mio Battaglione Sacro l'avevo avuto anch'io, ma, come mi accade spesso, la mia vita privata mi commoveva meno della storia. Andai a caccia nell'Arcadia; pregai a Delfi. A Sparta, sulle rive dell'Eurota, i pastori m'insegnarono un'antichissima aria sul flauto, un singolare canto di uccello. Nei pressi di Megara, c'era una festa di nozze tra contadini che durò tutta la notte; i miei compagni e io ci avventurammo nelle danze, il che ci sarebbe stato vietato dai rigidi costumi di Roma.

Erano dappertutto visibili le tracce dei nostri crimini: le mura di Corinto demolite da Memnio, e, nel fondo dei santuari, le nicchie rimaste vuote in seguito alla rapina di statue organizzata durante lo scandaloso viaggio di Nerone. La Grecia menava una vita grama, in un'atmosfera di grazia pensosa, di sottile lucidità, di saggia voluttà. Nulla era mutato dall'epoca in cui l'allievo del retore Iseo aveva respirato per la prima volta quell'odore di miele tiepido, di sale e di resina: nulla, insomma, era mutato da secoli. La sabbia delle palestre era sempre bionda come l'antica; non le frequentavano più Fidia e Socrate, ma i giovinetti che vi si esercitavano somigliavano ancora al delizioso Carmide. A volte, mi sembrava che lo spirito greco non avesse spinto sino alle sue conclusioni estreme le premesse del proprio genio: restavano da cogliersi i frutti; le spighe maturate al sole e già recise rappresentavano poca cosa accanto alla promessa eleusina del grano celato in quella bella terra. Persino presso i miei selvaggi nemici, i Sarmati, avevo trovato qualche vaso dalla linea pura, uno specchio adorno d'una immagine d'Apollo: barlumi di Grecia, simili a un pallido sole sulla neve. Intravvedevo la possibilità di ellenizzare i barbari, di atticizzare Roma, di imporre pian piano al mondo la sola cultura che un giorno si sia affrancata dal mostruoso, dall'informe, dall'inerte, che abbia inventato una definizione del metodo, una teoria della politica e del bello. Il sottile disdegno dei Greci, che non ho mai cessato di avvertire anche dietro i loro omaggi più fervidi, non mi offendeva affatto; lo trovavo naturale; quali che fossero le virtù che mi distinguevano da loro, sapevo che sarei stato sempre meno sagace d'un marinaio di Egina, meno saggio d'un'erbivendola dell'Agorà. Accettavo senza irritarmi la compiacenza un po' altera di quella razza fiera; accordavo a tutto un popolo i privilegi che ho sempre così facilmente concesso alle persone amate. Ma per lasciare ai Greci il tempo di continuare l'opera loro, di portarla a compimento, era indispensabile qualche secolo di pace, e gli ozi indisturbati, le libertà moderate che la pace consente. La Grecia contava su di noi affinché le facessimo da guardiani, dato che in fin dei conti pretendiamo d'essere i suoi padroni. Promisi a me stesso di vegliare sul dio disarmato.

Occupavo da un anno la carica di governatore in Siria, quando Traiano mi raggiunse ad Antiochia. Veniva a ispezionare gli ultimi preparativi della spedizione d'Armenia che, nei suoi disegni, preludeva all'attacco contro i Parti. L'accompagnavano come sempre Plotina e la nipote Matidia, la mia indulgente suocera, che da anni lo seguiva al campo in qualità d'intendente. Celso, Palma, Nigrino, i miei vecchi nemici, sedevano ancora nel Consiglio e dominavano lo Stato maggiore. Tutti costoro si accomodarono alla meglio nel palazzo, in attesa che la campagna avesse inizio; e ripresero, con rinnovato vigore, gli intrighi di corte. Ciascuno faceva il suo gioco, in attesa che la guerra gettasse i suoi dadi.

L'esercito mosse quasi subito verso il Nord. E io vidi allontanarsi con esso la fitta calca di alti funzionari, di ambiziosi, e di inutili. L'imperatore e il suo seguito fecero a Commagena una sosta di pochi giorni, in occasione di feste già trionfali; i piccoli re d'Oriente, riuniti a Satala, fecero a gara per protestargli una lealtà sulla quale, al posto di Traiano, non avrei fatto troppo affidamento per l'avvenire. Lusio Quieto, il mio rivale più pericoloso, alla testa degli avamposti, nel corso d'una vasta incursione militare, occupò le sponde del lago di Van; la parte settentrionale della Mesopotamia, evacuata dai Parti, fu annessa senza difficoltà; Abgar, il re d'Osroene, fece atto di sottomissione a Edessa. L'imperatore tornò ad Antiochia a occupare i suoi quartieri d'inverno, rinviando a primavera l'invasione vera e propria dell'impero partico, ma già deciso a non accettare alcuna proposta di pace. Tutto si era svolto secondo i suoi piani. La gioia di tuffarsi finalmente in quell'avventura, differita per tanto tempo, restituiva quasi una nuova giovinezza a quell'uomo di sessantaquattro anni.

Le mie previsioni, però, restavano cupe. L'elemento ebreo e quello arabo erano sempre più ostili alla guerra; i grandi proprietari delle province si irritavano di dover indennizzare le spese provocate dal passaggio delle truppe; le città mal tolleravano l'imposizione di nuovi tributi. Sin dal ritorno dell'imperatore, si verificò una prima sciagura, preludio di tutte le altre; un terremoto, nel cuore d'una notte di dicembre, distrusse in pochi istanti quasi una metà di Antiochia. Traiano, contuso per la caduta d'un trave, continuò eroicamente a occuparsi dei feriti, e tra le persone più intime attorno a lui vi furono dei morti. La plebaglia siriana subito andò a caccia dei responsabili del sinistro: l'imperatore, derogando per una volta dai suoi principi di tolleranza, commise l'errore di lasciar massacrare un gruppo di cristiani. Personalmente ho pochissima simpatia verso quella setta, ma lo spettacolo di quei vecchi frustati con le verghe e dei bambini torturati contribuì all'inasprimento degli spiriti e rese ancor più tetro quel sinistro inverno. Mancava il danaro per sanare immediatamente gli effetti della sciagura: la notte, s'accampavano sulle piazze migliaia di persone senza tetto. I miei giri d'ispezione mi rivelavano l'esistenza d'un sordo malcontento, d'un odio segreto e insospettato dagli alti dignitari che ingombravano il palazzo. E tra quelle rovine, l'imperatore proseguiva i preparativi per la campagna imminente; fu adoperata una foresta intera per la costruzione di ponti mobili e di pontoni per traversare il Tigri. L'imperatore aveva ricevuto con gioia tutta una serie di titoli nuovi decretati dal Senato; non vedeva l'ora di finirla con l'Oriente per tornare a Roma da trionfatore. Il minimo indugio scatenava in lui furori che lo squassavano come attacchi.

L'uomo che percorreva a gran passi con impazienza le vaste sale di quel palazzo già costruito dai Seleucidi - io stesso (che noia! ) l'avevo decorato in suo onore di iscrizioni laudatorie e di panoplie daciche - non era più quello che m'aveva accolto al campo di Colonia quasi vent'anni prima. Persino le sue qualità erano invecchiate. Quella giovialità un po' goffa che, in altri tempi, mascherava una autentica bontà, ormai non era più che un vezzo triviale; la sua fermezza s'era mutata in ostinazione; le sue attitudini per le decisioni immediate e pratiche, in un totale rifiuto di pensare. Il tenero rispetto verso l'imperatrice e l'affetto burbero che dimostrava alla nipote Matidia s'erano trasformati in una sudditanza senile verso quelle donne, ai consigli delle quali, tuttavia, opponeva sempre maggior resistenza. Le sue crisi di fegato allarmavano il suo medico, Crito; ma egli non se ne dava pensiero. I suoi piaceri avevano sempre mancato d'eleganza; con l'età, il loro livello era sceso ancora più in basso. Poco importava che l'imperatore, compiuta la sua giornata, si abbandonasse a bagordi da caserma, in compagnia di giovinetti nei quali trovava qualche attrattiva o avvenenza; ma era piuttosto grave che tollerasse male il vino, di cui abusava, e che quella corte di subalterni sempre più mediocri, scelti e manovrati da loschi liberti, fosse in condizioni di assistere a tutte le mie conversazioni con lui e di riferirle ai miei avversari. Di giorno, vedevo l'imperatore soltanto alle riunioni di Stato maggiore, interamente dedicate al perfezionamento dei piani, durante le quali non si dava mai l'occasione per esprimere apertamente un'opinione. In qualsiasi altro momento, egli evitava i colloqui in privato. Il vino suggeriva a quest'uomo di scarsa finezza un arsenale di astuzie grossolane. Da un pezzo s'erano dileguate le antiche suscettibilità; egli insisteva per associarmi ai suoi piaceri; il chiasso, le risate scomposte, le facezie più scipite dei giovincelli erano sempre ben accolte, quasi fossero altrettanti modi per farmi intendere che non era il momento per le cose serie; spiava l'istante in cui un bicchiere di più mi avrebbe fatto sragionare. Tutto mi girava attorno in quella sala dove le teste dei buoi selvatici dei trofei barbari pareva mi ridessero in viso. Le giare si succedevano; qua e là zampillava un canto avvinazzato, o il riso lascivo e insolente d'un paggio; l'imperatore, posando sul tavolo una mano sempre più malferma, murato in una ebrezza forse in parte simulata, sperduto, lontano da tutto, sulle strade dell'Asia, sprofondava gravemente nelle sue visioni...

Disgraziatamente, erano visioni piene di bellezza: le stesse che, in altri tempi, m'avevano fatto pensare di abbandonare qualsiasi cosa per seguire al di là del Caucaso le vie settentrionali dell'Asia. Quell'incantesimo al quale l'imperatore ormai vecchio cedeva in uno stato di sonnambulismo, Alessandro l'aveva subito prima di lui; egli aveva realizzato pressappoco gli stessi sogni, e ne era morto, a trent'anni. Ma l'insidia peggiore di quei piani grandiosi consisteva appunto nella loro ragionevolezza: come sempre, abbondavano le ragioni pratiche per giustificare l'assurdo, per indurre all'impossibile. Da secoli ci preoccupava il problema dell'Oriente; sembrava naturale risolverlo una volta per tutte. I nostri scambi di derrate con l'India e con il misterioso Paese della Seta erano interamente alla mercè dei mercanti ebrei e degli esportatori arabi, i quali godevano la franchigia nei porti e sulle strade dei Parti. Una volta annientato l'impero vasto e fluttuante dei cavalieri Arsacidi, avremmo avuto contatti diretti con quei ricchi confini del mondo: l'Asia, unificata finalmente, sarebbe stata per Roma nient'altro che una provincia di più. Il porto di Alessandria d'Egitto era l'unico dei nostri sbocchi verso l'India che non dipendesse dalla compiacenza dei Parti; anche lì, ci trovavamo continuamente in urto con le esigenze e le rivolte delle comunità ebraiche. Il successo della spedizione di Traiano ci avrebbe consentito di ignorare quella città insicura. Ma tutte queste ragioni non m'avevano persuaso mai del tutto: mi avrebbe soddisfatto di più qualche abile trattato commerciale e intravvedevo già la possibilità di ridurre la funzione di Alessandria, creando una seconda metropoli greca nelle vicinanze del Mar Rosso, ciò che feci in seguito, quando fondai Antinopoli. L'Asia, quel mondo tanto complesso, cominciavo ormai a conoscerlo. I piani semplici, di sterminio totale, che erano riusciti in Dacia, non erano attuabili in questo paese brulicante di una vita più molteplice, dalle radici più profonde: da essa dipendeva inoltre la ricchezza del mondo. Al di là dell'Eufrate, cominciava per noi il paese dei rischi e dei miraggi, le sabbie ove si affonda, le strade che finiscono senza metter capo in nessun luogo. Il minimo rovescio avrebbe prodotto come risultato una scossa al nostro prestigio, tale che qualsiasi catastrofe avrebbe potuto derivarne; non si trattava soltanto di vincere, ma di vincere sempre, e in questa impresa si sarebbero logorate le nostre forze. Già l'avevamo tentata una volta: pensavo con orrore alla testa di Crasso, lanciata di mano in mano come una palla durante una rappresentazione delle "Baccanti" di Euripide, data da un re barbaro con un'infarinatura di ellenismo la sera d'una vittoria su di noi. Traiano sognava di vendicare quella antica sconfitta; io, soprattutto di far sì che non si ripetesse. Prevedevo l'avvenire con sufficiente esattezza: non è impossibile, in fin dei conti, quando si conoscono in gran parte gli elementi del presente: prevedevo qualche vittoria inutile, che avrebbe attirato troppo avanti le nostre armate, pericolosamente sottratte ad altre frontiere; l'imperatore in punto di morte si sarebbe coperto di gloria e su di noi, che dovevamo vivere, vedevo pesare il compito di risolvere tutti i problemi e rimediare a tutti i mali.

Aveva ragione Cesare a preferire d'essere il primo in un villaggio che il secondo a Roma. Non per ambizione o per vanagloria, ma perchè chi occupa un ruolo secondario non ha altra scelta se non tra i pericoli dell'obbedienza, quelli della rivolta e quelli, ancor più gravi, del compromesso. E io non ero neppure il secondo, a Roma. L'imperatore, in procinto di partire per una spedizione irta di pericoli, non aveva ancora designato il suo successore: ogni passo in avanti offriva un'occasione propizia ai capi di Stato maggiore. Quell'uomo quasi ingenuo, in quel momento mi sembrava più complicato di me stesso; solo le sue asprezze mi rassicuravano: l'imperatore mi trattava rudemente, come un figlio. In altri momenti, mi aspettavo d'esser soppiantato da Palma, o soppresso da Quieto, non appena fosse possibile fare a meno dell'opera mia. Ero privo d'ogni potere: non mi riuscì neppure d'ottenere un'udienza per i membri influenti del Sinedrio di Antiochia, i quali temevano quanto noi i colpi di forza degli agitatori giudei, ed erano in grado d'illuminare Traiano sui maneggi dei loro correligionari. Non ottenne ascolto neppure Latinio Alessandro, un amico mio che discendeva da una delle più antiche famiglie reali dell'Asia Minore, e godeva di grandissimo prestigio sia per il nome sia per la fortuna. Plinio, inviato in Bitinia quattro anni prima, vi era morto senza aver avuto il tempo d'informare l'imperatore sullo stato esatto degli animi e delle finanze - ammesso che il suo ottimismo incurabile glielo avrebbe concesso. I rapporti segreti del mercante licio Opramoa, molto addentro nella situazione asiatica, furono messi in ridicolo da Palma. I liberti profittavano dei giorni di malessere che seguivano le serate di ubriachezza dell'imperatore, per escludermi dalla sua camera: l'ordinanza, un certo Fedima, uomo onestissimo ma ottuso e montato contro di me, due volte me ne ricusò l'accesso, mentre il consolare Celso, un mio nemico, una sera si chiuse con Traiano in un conciliabolo che durò per ore, in seguito al quale mi credetti perduto. Mi cercai alleati ove potei: corruppi a prezzo d'oro antichi schiavi che volentieri avrei mandato alle galere; blandii repulsive teste arricciate. Il diamante di Nerva non sprizzava più nessuna luce.

Fu allora che mi apparve il più saggio dei miei geni tutelari: Plotina. Conoscevo l'imperatrice da quasi vent'anni. Appartenevamo allo stesso ambiente, avevamo più o meno la stessa età. L'avevo vista vivere senza scomporsi un'esistenza fatta di costrizioni quasi quanto la mia, e più spoglia di avvenire. Nei momenti difficili, mi aveva appoggiato, senza avere l'aria d'accorgersene ella stessa. Ma, in quelle giornate amare d'Antiochia, la sua presenza mi divenne indispensabile, come poi mi restò sempre la sua stima: e la ebbi, sino alla sua morte. Mi abituai a quella figura dalle candide vesti, semplici quanto possono esserlo quelle di una donna, ai suoi silenzi, alle sue parole misurate che erano soltanto risposte, le più precise che sia possibile. In quel palazzo, più antico degli splendori di Roma, non era fuor di posto la sua figura: quella donna d'estrazione recente era ben degna dei Seleucidi. Eravamo d'accordo quasi su ogni cosa. Avevamo entrambi la passione di abbellire indi denudare le nostre anime, di mettere il nostro spirito a prove d'ogni genere. Ella era incline alla filosofia di Epicuro, quel giaciglio angusto ma pulito, sul quale, a volte, ho disteso il mio pensiero anch'io. Il mistero degli dei, che per me costituiva un tormento, non era motivo di inquietudine per lei; e non provava neppure la mia attrazione appassionata per la carne. Era casta per disdegno delle cose facili, generosa per elezione più che per natura, saggiamente diffidente, ma pronta ad accettare tutto da un amico, persino gli errori inevitabili. L'amicizia era un fatto elettivo per lei, e vi s'impegnava tutta intera, vi si abbandonava totalmente, come a me è accaduto solo con l'amore. Nessuno mi ha conosciuto quanto lei: ho lasciato che vedesse cose che ho accuratamente dissimulate a chiunque altro: per esempio, qualche viltà segreta. Mi piace credere che anch'essa, per parte sua, non mi abbia taciuto quasi nulla. L'intimità dei corpi, che non è mai esistita tra noi, è stata compensata da questo contatto di due spiriti intimamente fusi l'un con l'altro.

La nostra intesa non ebbe bisogno di confessioni, di spiegazioni, di reticenze: i fatti bastavano da soli. Ed ella li osservava meglio di me. Sotto le trecce pesanti che la moda le imponeva, la sua fronte pura era quella di un giudice. La sua memoria serbava un'immagine esatta degli oggetti più trascurabili; non le capitava mai, come a me, di esitare troppo a lungo, o di decidersi troppo presto. Le bastava un'occhiata per scoprire le piste dei miei avversari più nascosti, e valutava i sostenitori con saggia freddezza. A dire il vero, eravamo complici, ma chiunque avrebbe stentato a riconoscere tra noi gli indizi d'un accordo segreto. Non commise mai l'errore grossolano di lamentarsi dell'imperatore con me, né quello più sottile di scusarlo o di farne gli elogi. Da parte mia, la mia lealtà non era messa in questione. Attiano, appena arrivato da Roma, prendeva parte a quei colloqui che a volte duravano tutta la notte: ma pareva che nulla stancasse quella donna fragile e imperturbabile. Era riuscita a far nominare consigliere privato il mio antico tutore, eliminando così Celso, mio nemico.


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In questo frattempo morì Licinio Sura. Tra i consiglieri privati dell'imperatore era il più moderato. La sua morte fu per noi una battaglia perduta. Per me, Sura aveva mostrato sempre una sollecitudine paterna; da qualche anno ormai, le deboli forze che gli lasciava il male non gli consentivano più la diuturna fatica dell'ambizione personale, ma gli furono sempre sufficienti a servire un uomo di cui condivideva le opinioni. La conquista dell'Arabia era stata intrapresa contro i suoi consigli; lui solo, se avesse vissuto, avrebbe potuto evitare allo Stato le tribolazioni e gli sperperi immani della campagna contro i Parti. Divorato già dalla febbre, dedicava le sue ore insonni a discutere con me progetti che lo sfibravano, ma il cui esito gli stava a cuore più che qualche briciola ancora di vita. Al suo capezzale ho vissuto in anticipo, sino al più minuto particolare amministrativo, alcune delle fasi future del mio regno. Le critiche di quell'agonizzante risparmiavano l'imperatore, ma egli sentiva che quel po' di saggezza che restava al regime moriva con lui. Las críticas a ese moribundo perdonaron al emperador, pero sintió que la poca sabiduría que le quedaba al régimen moría con él. Se avesse vissuto due o tre anni di più, forse mi sarebbero state evitate certe vie traverse di cui fu improntata la mia scalata al potere; sarebbe riuscito a persuadere l'imperatore a compiere l'adozione più presto, allo scoperto. Ma le parole estreme di quell'uomo di Stato, che mi lasciava in eredità il suo compito arduo, sono state per me un'investitura imperiale.

Se aumentava il gruppo dei miei sostenitori, altrettanto accadeva a quello dei miei nemici. Il più pericoloso dei miei avversari era Lusio Quieto, nelle cui vene scorreva sangue romano e arabo; i suoi squadroni numidi avevano avuto una parte considerevole nella seconda campagna dacica; era un fautore esagitato della guerra in Asia. Tutto mi era detestabile in quell'individuo: il lusso esotico, gli svolazzi pretensiosi dei suoi veli bianchi orlati d'un cordone d'oro, quei suoi occhi sfuggenti e insieme arroganti, la sua crudeltà indicibile verso i Popoli vinti e assoggettati. Quei capi del partito militare si decimavano tra loro nelle lotte intestine, ma coloro che restavano non facevano che cementare sempre più il loro potere, e io ero esposto sempre più alla diffidenza di Palma e all'odio di Celso. La mia posizione personale, per fortuna, era quasi inespugnabile. L'amministrazione civile era sempre più nelle mie mani, da quando l'imperatore attendeva esclusivamente ai suoi progetti di guerra. I miei amici, i quali soltanto avrebbero potuto soppiantarmi per la loro capacità e la conoscenza degli affari, dimostravano una modestia nobilissima preferendomi a se stessi. Nerazio Prisco, nel quale l'imperatore aveva una grande fiducia, si limitava ogni giorno di più, deliberatamente, alla sua attività legale. Attiano organizzava la sua esistenza nella finalità di servirmi; avevo la cauta approvazione di Plotina. Un anno prima della guerra, fui promosso alla carica di governatore della Siria, alla quale in seguito si aggiunse quella di legato presso l'esercito. Incaricato di controllare e di organizzare le nostre basi, divenni così una delle leve di comando di un'impresa che giudicavo insensata. Esitai qualche tempo, poi accettai: rifiutare significava precludersi la strada maestra per il potere proprio in un momento in cui il potere mi stava a cuore più che mai. E significava altresì privarsi dell'unica possibilità di rappresentare la mia parte di moderatore.

Durante quei pochi anni che precedettero la grande crisi, avevo preso una decisione che mi fece giudicare definitivamente frivolo dai miei nemici, e che in parte aveva proprio lo scopo di suscitare tale giudizio e parare così ogni attacco: ero andato a passar qualche mese in Grecia. La politica, almeno in apparenza, non entrava per nulla in questo viaggio. Fu un'escursione di piacere e di studi: ne riportai qualche coppa incisa, e alcuni libri che divisi con Plotina. Laggiù ricevetti, tra tutti i miei onori ufficiali, quello che accettai con gioia più viva: fui nominato arconte di Atene. Mi concessi qualche mese di operosità e di svaghi facili, di passeggiate, in primavera, sulle colline disseminate di anemoni, di contatti amichevoli col marmo nudo. ** A Cheronea, dove ero andato a commuovermi sulle antiche coppie di amici del Battaglione Sacro, fui per due giorni ospite di Plutarco. Il mio Battaglione Sacro l'avevo avuto anch'io, ma, come mi accade spesso, la mia vita privata mi commoveva meno della storia. Andai a caccia nell'Arcadia; pregai a Delfi. A Sparta, sulle rive dell'Eurota, i pastori m'insegnarono un'antichissima aria sul flauto, un singolare canto di uccello. Nei pressi di Megara, c'era una festa di nozze tra contadini che durò tutta la notte; i miei compagni e io ci avventurammo nelle danze, il che ci sarebbe stato vietato dai rigidi costumi di Roma.

Erano dappertutto visibili le tracce dei nostri crimini: le mura di Corinto demolite da Memnio, e, nel fondo dei santuari, le nicchie rimaste vuote in seguito alla rapina di statue organizzata durante lo scandaloso viaggio di Nerone. La Grecia menava una vita grama, in un'atmosfera di grazia pensosa, di sottile lucidità, di saggia voluttà. Nulla era mutato dall'epoca in cui l'allievo del retore Iseo aveva respirato per la prima volta quell'odore di miele tiepido, di sale e di resina: nulla, insomma, era mutato da secoli. La sabbia delle palestre era sempre bionda come l'antica; non le frequentavano più Fidia e Socrate, ma i giovinetti che vi si esercitavano somigliavano ancora al delizioso Carmide. A volte, mi sembrava che lo spirito greco non avesse spinto sino alle sue conclusioni estreme le premesse del proprio genio: restavano da cogliersi i frutti; le spighe maturate al sole e già recise rappresentavano poca cosa accanto alla promessa eleusina del grano celato in quella bella terra. Persino presso i miei selvaggi nemici, i Sarmati, avevo trovato qualche vaso dalla linea pura, uno specchio adorno d'una immagine d'Apollo: barlumi di Grecia, simili a un pallido sole sulla neve. Intravvedevo la possibilità di ellenizzare i barbari, di atticizzare Roma, di imporre pian piano al mondo la sola cultura che un giorno si sia affrancata dal mostruoso, dall'informe, dall'inerte, che abbia inventato una definizione del metodo, una teoria della politica e del bello. Il sottile disdegno dei Greci, che non ho mai cessato di avvertire anche dietro i loro omaggi più fervidi, non mi offendeva affatto; lo trovavo naturale; quali che fossero le virtù che mi distinguevano da loro, sapevo che sarei stato sempre meno sagace d'un marinaio di Egina, meno saggio d'un'erbivendola dell'Agorà. Accettavo senza irritarmi la compiacenza un po' altera di quella razza fiera; accordavo a tutto un popolo i privilegi che ho sempre così facilmente concesso alle persone amate. Ma per lasciare ai Greci il tempo di continuare l'opera loro, di portarla a compimento, era indispensabile qualche secolo di pace, e gli ozi indisturbati, le libertà moderate che la pace consente. La Grecia contava su di noi affinché le facessimo da guardiani, dato che in fin dei conti pretendiamo d'essere i suoi padroni. Promisi a me stesso di vegliare sul dio disarmato. **

Occupavo da un anno la carica di governatore in Siria, quando Traiano mi raggiunse ad Antiochia. Veniva a ispezionare gli ultimi preparativi della spedizione d'Armenia che, nei suoi disegni, preludeva all'attacco contro i Parti. L'accompagnavano come sempre Plotina e la nipote Matidia, la mia indulgente suocera, che da anni lo seguiva al campo in qualità d'intendente. Celso, Palma, Nigrino, i miei vecchi nemici, sedevano ancora nel Consiglio e dominavano lo Stato maggiore. Tutti costoro si accomodarono alla meglio nel palazzo, in attesa che la campagna avesse inizio; e ripresero, con rinnovato vigore, gli intrighi di corte. Ciascuno faceva il suo gioco, in attesa che la guerra gettasse i suoi dadi.

L'esercito mosse quasi subito verso il Nord. E io vidi allontanarsi con esso la fitta calca di alti funzionari, di ambiziosi, e di inutili. L'imperatore e il suo seguito fecero a Commagena una sosta di pochi giorni, in occasione di feste già trionfali; i piccoli re d'Oriente, riuniti a Satala, fecero a gara per protestargli una lealtà sulla quale, al posto di Traiano, non avrei fatto troppo affidamento per l'avvenire. Lusio Quieto, il mio rivale più pericoloso, alla testa degli avamposti, nel corso d'una vasta incursione militare, occupò le sponde del lago di Van; la parte settentrionale della Mesopotamia, evacuata dai Parti, fu annessa senza difficoltà; Abgar, il re d'Osroene, fece atto di sottomissione a Edessa. L'imperatore tornò ad Antiochia a occupare i suoi quartieri d'inverno, rinviando a primavera l'invasione vera e propria dell'impero partico, ma già deciso a non accettare alcuna proposta di pace. Tutto si era svolto secondo i suoi piani. La gioia di tuffarsi finalmente in quell'avventura, differita per tanto tempo, restituiva quasi una nuova giovinezza a quell'uomo di sessantaquattro anni.

Le mie previsioni, però, restavano cupe. L'elemento ebreo e quello arabo erano sempre più ostili alla guerra; i grandi proprietari delle province si irritavano di dover indennizzare le spese provocate dal passaggio delle truppe; le città mal tolleravano l'imposizione di nuovi tributi. Sin dal ritorno dell'imperatore, si verificò una prima sciagura, preludio di tutte le altre; un terremoto, nel cuore d'una notte di dicembre, distrusse in pochi istanti quasi una metà di Antiochia. Traiano, contuso per la caduta d'un trave, continuò eroicamente a occuparsi dei feriti, e tra le persone più intime attorno a lui vi furono dei morti. La plebaglia siriana subito andò a caccia dei responsabili del sinistro: l'imperatore, derogando per una volta dai suoi principi di tolleranza, commise l'errore di lasciar massacrare un gruppo di cristiani. Personalmente ho pochissima simpatia verso quella setta, ma lo spettacolo di quei vecchi frustati con le verghe e dei bambini torturati contribuì all'inasprimento degli spiriti e rese ancor più tetro quel sinistro inverno. En lo personal tengo muy poca simpatía por esa secta, pero la vista de esos viejos azotados con varas y de los niños torturados contribuyó a exacerbar los ánimos y ensombreció aún más aquel siniestro invierno. Mancava il danaro per sanare immediatamente gli effetti della sciagura: la notte, s'accampavano sulle piazze migliaia di persone senza tetto. I miei giri d'ispezione mi rivelavano l'esistenza d'un sordo malcontento, d'un odio segreto e insospettato dagli alti dignitari che ingombravano il palazzo. E tra quelle rovine, l'imperatore proseguiva i preparativi per la campagna imminente; fu adoperata una foresta intera per la costruzione di ponti mobili e di pontoni per traversare il Tigri. L'imperatore aveva ricevuto con gioia tutta una serie di titoli nuovi decretati dal Senato; non vedeva l'ora di finirla con l'Oriente per tornare a Roma da trionfatore. Il minimo indugio scatenava in lui furori che lo squassavano come attacchi.

**L'uomo che percorreva a gran passi con impazienza le vaste sale di quel palazzo già costruito dai Seleucidi - io stesso (che noia! ) l'avevo decorato in suo onore di iscrizioni laudatorie e di panoplie daciche - non era più quello che m'aveva accolto al campo di Colonia quasi vent'anni prima. ** Persino le sue qualità erano invecchiate. Quella giovialità un po' goffa che, in altri tempi, mascherava una autentica bontà, ormai non era più che un vezzo triviale; la sua fermezza s'era mutata in ostinazione; le sue attitudini per le decisioni immediate e pratiche, in un totale rifiuto di pensare. ** Il tenero rispetto verso l'imperatrice e l'affetto burbero che dimostrava alla nipote Matidia s'erano trasformati in una sudditanza senile verso quelle donne, ai consigli delle quali, tuttavia, opponeva sempre maggior resistenza. Le sue crisi di fegato allarmavano il suo medico, Crito; ma egli non se ne dava pensiero. I suoi piaceri avevano sempre mancato d'eleganza; con l'età, il loro livello era sceso ancora più in basso. Poco importava che l'imperatore, compiuta la sua giornata, si abbandonasse a bagordi da caserma, in compagnia di giovinetti nei quali trovava qualche attrattiva o avvenenza; ma era piuttosto grave che tollerasse male il vino, di cui abusava, e che quella corte di subalterni sempre più mediocri, scelti e manovrati da loschi liberti, fosse in condizioni di assistere a tutte le mie conversazioni con lui e di riferirle ai miei avversari. Di giorno, vedevo l'imperatore soltanto alle riunioni di Stato maggiore, interamente dedicate al perfezionamento dei piani, durante le quali non si dava mai l'occasione per esprimere apertamente un'opinione. In qualsiasi altro momento, egli evitava i colloqui in privato. Il vino suggeriva a quest'uomo di scarsa finezza un arsenale di astuzie grossolane. Da un pezzo s'erano dileguate le antiche suscettibilità; egli insisteva per associarmi ai suoi piaceri; il chiasso, le risate scomposte, le facezie più scipite dei giovincelli erano sempre ben accolte, quasi fossero altrettanti modi per farmi intendere che non era il momento per le cose serie; spiava l'istante in cui un bicchiere di più mi avrebbe fatto sragionare. Tutto mi girava attorno in quella sala dove le teste dei buoi selvatici dei trofei barbari pareva mi ridessero in viso. Le giare si succedevano; qua e là zampillava un canto avvinazzato, o il riso lascivo e insolente d'un paggio; l'imperatore, posando sul tavolo una mano sempre più malferma, murato in una ebrezza forse in parte simulata, sperduto, lontano da tutto, sulle strade dell'Asia, sprofondava gravemente nelle sue visioni...

Disgraziatamente, erano visioni piene di bellezza: le stesse che, in altri tempi, m'avevano fatto pensare di abbandonare qualsiasi cosa per seguire al di là del Caucaso le vie settentrionali dell'Asia. Quell'incantesimo al quale l'imperatore ormai vecchio cedeva in uno stato di sonnambulismo, Alessandro l'aveva subito prima di lui; egli aveva realizzato pressappoco gli stessi sogni, e ne era morto, a trent'anni. Ma l'insidia peggiore di quei piani grandiosi consisteva appunto nella loro ragionevolezza: come sempre, abbondavano le ragioni pratiche per giustificare l'assurdo, per indurre all'impossibile. ** Da secoli ci preoccupava il problema dell'Oriente; sembrava naturale risolverlo una volta per tutte. I nostri scambi di derrate con l'India e con il misterioso Paese della Seta erano interamente alla mercè dei mercanti ebrei e degli esportatori arabi, i quali godevano la franchigia nei porti e sulle strade dei Parti. Una volta annientato l'impero vasto e fluttuante dei cavalieri Arsacidi, avremmo avuto contatti diretti con quei ricchi confini del mondo: l'Asia, unificata finalmente, sarebbe stata per Roma nient'altro che una provincia di più. Il porto di Alessandria d'Egitto era l'unico dei nostri sbocchi verso l'India che non dipendesse dalla compiacenza dei Parti; anche lì, ci trovavamo continuamente in urto con le esigenze e le rivolte delle comunità ebraiche. Il successo della spedizione di Traiano ci avrebbe consentito di ignorare quella città insicura. Ma tutte queste ragioni non m'avevano persuaso mai del tutto: mi avrebbe soddisfatto di più qualche abile trattato commerciale e intravvedevo già la possibilità di ridurre la funzione di Alessandria, creando una seconda metropoli greca nelle vicinanze del Mar Rosso, ciò che feci in seguito, quando fondai Antinopoli. L'Asia, quel mondo tanto complesso, cominciavo ormai a conoscerlo. I piani semplici, di sterminio totale, che erano riusciti in Dacia, non erano attuabili in questo paese brulicante di una vita più molteplice, dalle radici più profonde: da essa dipendeva inoltre la ricchezza del mondo. Al di là dell'Eufrate, cominciava per noi il paese dei rischi e dei miraggi, le sabbie ove si affonda, le strade che finiscono senza metter capo in nessun luogo. Il minimo rovescio avrebbe prodotto come risultato una scossa al nostro prestigio, tale che qualsiasi catastrofe avrebbe potuto derivarne; non si trattava soltanto di vincere, ma di vincere sempre, e in questa impresa si sarebbero logorate le nostre forze. ** Già l'avevamo tentata una volta: pensavo con orrore alla testa di Crasso, lanciata di mano in mano come una palla durante una rappresentazione delle "Baccanti" di Euripide, data da un re barbaro con un'infarinatura di ellenismo la sera d'una vittoria su di noi. Traiano sognava di vendicare quella antica sconfitta; io, soprattutto di far sì che non si ripetesse. Prevedevo l'avvenire con sufficiente esattezza: non è impossibile, in fin dei conti, quando si conoscono in gran parte gli elementi del presente: prevedevo qualche vittoria inutile, che avrebbe attirato troppo avanti le nostre armate, pericolosamente sottratte ad altre frontiere; l'imperatore in punto di morte si sarebbe coperto di gloria e su di noi, che dovevamo vivere, vedevo pesare il compito di risolvere tutti i problemi e rimediare a tutti i mali. **

Aveva ragione Cesare a preferire d'essere il primo in un villaggio che il secondo a Roma. Non per ambizione o per vanagloria, ma perchè chi occupa un ruolo secondario non ha altra scelta se non tra i pericoli dell'obbedienza, quelli della rivolta e quelli, ancor più gravi, del compromesso. E io non ero neppure il secondo, a Roma. L'imperatore, in procinto di partire per una spedizione irta di pericoli, non aveva ancora designato il suo successore: ogni passo in avanti offriva un'occasione propizia ai capi di Stato maggiore. Quell'uomo quasi ingenuo, in quel momento mi sembrava più complicato di me stesso; solo le sue asprezze mi rassicuravano: l'imperatore mi trattava rudemente, come un figlio. In altri momenti, mi aspettavo d'esser soppiantato da Palma, o soppresso da Quieto, non appena fosse possibile fare a meno dell'opera mia. Ero privo d'ogni potere: non mi riuscì neppure d'ottenere un'udienza per i membri influenti del Sinedrio di Antiochia, i quali temevano quanto noi i colpi di forza degli agitatori giudei, ed erano in grado d'illuminare Traiano sui maneggi dei loro correligionari. Non ottenne ascolto neppure Latinio Alessandro, un amico mio che discendeva da una delle più antiche famiglie reali dell'Asia Minore, e godeva di grandissimo prestigio sia per il nome sia per la fortuna. Plinio, inviato in Bitinia quattro anni prima, vi era morto senza aver avuto il tempo d'informare l'imperatore sullo stato esatto degli animi e delle finanze - ammesso che il suo ottimismo incurabile glielo avrebbe concesso. ** I rapporti segreti del mercante licio Opramoa, molto addentro nella situazione asiatica, furono messi in ridicolo da Palma. ** I liberti profittavano dei giorni di malessere che seguivano le serate di ubriachezza dell'imperatore, per escludermi dalla sua camera:** l'ordinanza, un certo Fedima, uomo onestissimo ma ottuso e montato contro di me, due volte me ne ricusò l'accesso,** mentre il consolare Celso, un mio nemico, una sera si chiuse con Traiano in un conciliabolo che durò per ore, in seguito al quale mi credetti perduto. Mi cercai alleati ove potei: corruppi a prezzo d'oro antichi schiavi che volentieri avrei mandato alle galere; blandii repulsive teste arricciate. Il diamante di Nerva non sprizzava più nessuna luce.

Fu allora che mi apparve il più saggio dei miei geni tutelari: Plotina. Conoscevo l'imperatrice da quasi vent'anni. Appartenevamo allo stesso ambiente, avevamo più o meno la stessa età. L'avevo vista vivere senza scomporsi un'esistenza fatta di costrizioni quasi quanto la mia, e più spoglia di avvenire. Nei momenti difficili, mi aveva appoggiato, senza avere l'aria d'accorgersene ella stessa. Ma, in quelle giornate amare d'Antiochia, la sua presenza mi divenne indispensabile, come poi mi restò sempre la sua stima: e la ebbi, sino alla sua morte. Mi abituai a quella figura dalle candide vesti, semplici quanto possono esserlo quelle di una donna, ai suoi silenzi, alle sue parole misurate che erano soltanto risposte, le più precise che sia possibile. In quel palazzo, più antico degli splendori di Roma, non era fuor di posto la sua figura: quella donna d'estrazione recente era ben degna dei Seleucidi. Eravamo d'accordo quasi su ogni cosa. Avevamo entrambi la passione di abbellire indi denudare le nostre anime, di mettere il nostro spirito a prove d'ogni genere. Ella era incline alla filosofia di Epicuro, quel giaciglio angusto ma pulito, sul quale, a volte, ho disteso il mio pensiero anch'io. Il mistero degli dei, che per me costituiva un tormento, non era motivo di inquietudine per lei; e non provava neppure la mia attrazione appassionata per la carne. Era casta per disdegno delle cose facili, generosa per elezione più che per natura, saggiamente diffidente, ma pronta ad accettare tutto da un amico, persino gli errori inevitabili. L'amicizia era un fatto elettivo per lei, e vi s'impegnava tutta intera, vi si abbandonava totalmente, come a me è accaduto solo con l'amore. Nessuno mi ha conosciuto quanto lei: ho lasciato che vedesse cose che ho accuratamente dissimulate a chiunque altro: per esempio, qualche viltà segreta. Mi piace credere che anch'essa, per parte sua, non mi abbia taciuto quasi nulla. L'intimità dei corpi, che non è mai esistita tra noi, è stata compensata da questo contatto di due spiriti intimamente fusi l'un con l'altro.

La nostra intesa non ebbe bisogno di confessioni, di spiegazioni, di reticenze: i fatti bastavano da soli. Ed ella li osservava meglio di me. Sotto le trecce pesanti che la moda le imponeva, la sua fronte pura era quella di un giudice. La sua memoria serbava un'immagine esatta degli oggetti più trascurabili; non le capitava mai, come a me, di esitare troppo a lungo, o di decidersi troppo presto. Le bastava un'occhiata per scoprire le piste dei miei avversari più nascosti, e valutava i sostenitori con saggia freddezza. A dire il vero, eravamo complici, ma chiunque avrebbe stentato a riconoscere tra noi gli indizi d'un accordo segreto. Non commise mai l'errore grossolano di lamentarsi dell'imperatore con me, né quello più sottile di scusarlo o di farne gli elogi. Da parte mia, la mia lealtà non era messa in questione. Attiano, appena arrivato da Roma, prendeva parte a quei colloqui che a volte duravano tutta la notte: ma pareva che nulla stancasse quella donna fragile e imperturbabile. Era riuscita a far nominare consigliere privato il mio antico tutore, eliminando così Celso, mio nemico.