3. TELLUS STABILITA (1)
La mia vita era rientrata nell'ordine, non l'impero. Il mondo che avevo ereditato somigliava a un uomo nel fiore degli anni, ancora robusto, nel quale però l'occhio del medico scorge indizi impercettibili di logorio, come chi è appena uscito dagli spasimi d'una malattia grave. S'intavolarono nuovi negoziati di pace, ormai alla luce del sole; feci diffondere per ogni dove la voce che Traiano stesso me ne avesse affidato l'incarico prima di morire. Cancellai con un tratto di penna le annessioni pericolose: non soltanto la Mesopotamia, dove in ogni caso non avremmo potuto restare, ma anche l'Armenia, troppo eccentrica e lontana, che serbai solo al rango di Stato vassallo. Due o tre difficoltà, un po' spinose, che avrebbero fatto durare per anni una conferenza della pace, se i principali interessati avessero avuto interesse a tirarla per le lunghe, furono appianate grazie all'abilità del mercante Opramoas, il quale godeva la fiducia dei satrapi. Cercai d'infondere, nell'avviare i negoziati, quell'ardore che altri riserva al campo di battaglia: forzai la pace. Il mio competitore, d'altro canto, la anelava quanto me: i Parti non aspiravano ad altro che a riaprire le loro strade ai grossi traffici tra l'India e noi. Pochi mesi dopo la grande crisi, ebbi la gioia di veder formarsi nuovamente la fila delle carovane in riva all'Oronte; le oasi si ripopolavano di mercanti che commentavano le notizie alla luce dei bivacchi, e che ogni mattina, insieme alle loro merci, starei per dire caricavano, per trasportarle in paesi sconosciuti, parole, pensieri, costumi intimamente nostri, che poco a poco avrebbero dilagato nel mondo in modo più sicuro che non le legioni in marcia. La circolazione dell'oro, il passaggio delle idee, sottile come quello del sangue nelle arterie, riprendevano nel grande corpo del mondo: ricominciava a battere il polso della terra. A sua volta, la febbre della ribellione cedeva. In Egitto, era stata così violenta che era stato necessario reclutare in tutta fretta una milizia tra i contadini, in attesa delle nostre truppe di rinforzo. Incaricai immediatamente Marcio Turbo di ristabilire l'ordine in quelle contrade, ed egli lo fece con saggia fermezza. Ma non mi bastava l'ordine per le strade; volevo, se possibile, ristabilirlo negli animi, o meglio, farcelo regnare per la prima volta. Un soggiorno d'una settimana a Pelusa fu interamente dedicato a equilibrare i rapporti tra Greci e Giudei, in uno stato d'incompatibilità perenne. Non vidi nulla di quel che avrei desiderato vedere: né le sponde del Nilo, né il Museo di Alessandria, né le statue del tempio; trovai a malapena il modo di consacrare una notte alle gradevoli orge di Canopo. Sei giornate interminabili trascorsero in quella specie di tino bollente del tribunale, a malapena protetto dal caldo da lunghi tendaggi di canne che frusciavano al vento. La notte, zanzare enormi ronzavano intorno alle lampade. Tentai di dimostrare ai Greci che non sempre erano i più saggi, ai Giudei che non erano affatto i più puri. Le canzoni satiriche con le quali quegli elleni di bassa lega tormentavano gli avversari erano stupide né più né meno come le grottesche imprecazioni degli Ebrei. Quelle razze che vivevano porta a porta da secoli non avevano avuto mai né il desiderio di conoscersi, né la dignità di sopportarsi a vicenda. I difensori che, stremati, a tarda sera abbandonavano il campo, all'alba mi ritrovavano al mio banco, ancora intento a districare il groviglio di sudicerie delle false testimonianze; i cadaveri pugnalati che mi venivano offerti come prove a carico, erano spesso quelli di malati morti nei loro letti e sottratti agli imbalsamatori. Ma ogni ora di tregua era una vittoria, anche se precaria come tutte; ogni dissidio sanato creava un precedente, un pegno per l'avvenire. M'importava assai poco che l'accordo ottenuto fosse esteriore, imposto, probabilmente temporaneo; sapevo che il bene e il male sono una questione d'abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all'interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto. Dato che l'odio, la malafede, il delirio hanno effetti durevoli non vedevo perché non ne avrebbero avuti anche la franchezza, la giustizia, la benevolenza. A che valeva l'ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l'uno a fianco all'altro tranquillamente? La pace era il mio traguardo, ma non il mio idolo; e persino la parola «ideale» mi spiace perché troppo lontana dal reale. Avevo pensato di spingere sino all'estremo il mio rifiuto delle conquiste, abbandonando la Dacia, e l'avrei fatto se avessi potuto capovolgere bruscamente la politica del mio predecessore senza turbamenti; ma era meglio fare il miglior uso possibile di quei profitti anteriori al mio regno e già entrati nella storia. Il bravissimo Giulio Basso, primo governatore di quella provincia recentemente organizzata, era morto sfibrato, e anch'io ero stato sul punto di soccombere durante l'anno trascorso alle frontiere sarmate, sopraffatto da quell'impresa senza gloria che consiste nel pacificare instancabilmente un paese che si crede sottomesso. Gli ordinai, a Roma, esequie trionfali, quali si usano soltanto per gli imperatori; questo omaggio a un subalterno fedele, morto d'un sacrificio oscuro, fu la mia ultima e discreta protesta contro la politica di conquiste: non serviva più che la denunciassi clamorosamente, dal momento che ero padrone di farla cessare di punto in bianco. Purtroppo, s'imponeva una repressione militare in Mauretania, dove gli agenti di Lusio Quieto fomentavano disordini; la mia presenza non era, però, immediatamente necessaria. Lo stesso accadeva in Bretagna, ove i Caledoni avevano profittato del ritiro di truppe avvenuto in occasione della guerra d'Asia per decimare le guarnigioni insufficienti lasciate alle frontiere. Giulio Severo s'incaricò dei problemi più urgenti creati da quei torbidi, in attesa che la sistemazione degli affari di Roma mi consentisse di intraprendere quel viaggio lontano. Ma mi stava più a cuore portare a termine personalmente la guerra sarmata ch'era in sospeso, e, questa volta, impiegarvi truppe quante ne servivano per farla finita con le scorrerie dei barbari. Dato che anche in questo caso, come in tutti gli altri, mi rifiutavo di sottomettermi a un sistema. Accettavo la guerra come un mezzo per giungere alla pace, se i negoziati non potevano bastare, come fa il medico, che si risolve a cauterizzare un tumore dopo aver sperimentato i semplici. Tutto è così complicato negli affari degli uomini, che anche il mio regno, così pacifico, avrebbe avuto i suoi periodi di guerra così come la vita d'un grande capitano, si voglia o no, ha i suoi intervalli di pace.
Prima di risalire verso il Nord, per regolare definitivamente i conti con i Sarmati, rividi Quieto. Il sanguinario di Cirene era ancora temibile. Il mio primo provvedimento era stato di sciogliere le sue colonne di esploratori numidi; gli restava però il seggio in Senato, il grado nell'esercito regolare, e quell'immenso dominio nelle sabbie occidentali del quale egli poteva farsi, a suo talento, un trampolino o un asilo. M'invitò a una caccia in Misia, in piena foresta, e ingegnosamente macchinò un incidente nel quale, se avessi avuto minore fortuna o minore agilità fisica, senza alcun dubbio avrei perduto la vita. Ma era preferibile aver l'aria di non sospettar nulla, pazientare, attendere. Poco più tardi, nella Mesia Inferiore, quando la capitolazione dei principi sarmati mi consentiva di far progetti per un sollecito ritorno in Italia, uno scambio di dispacci cifrati col mio antico tutore m'informò che Quieto, tornato di precipizio a Roma, aveva avuto un abboccamento con Palma. I nostri nemici barricavano le loro posizioni, riformavano le loro truppe. Non era possibile sentirsi sicuri sino a che quei due uomini tramavano contro di noi. Scrissi ad Attiano di agire. Quel vegliardo colpì come la folgore. Andò oltre i miei ordini, e in un colpo solo mi sbarazzò di tutti i nemici (dichiarati) che mi restavano. Lo stesso giorno, a poche ore di distanza, Celso fu giustiziato a Baia, Palma nella sua villa a Terracina, Nigrino a Faventia, sulla soglia della sua casa di campagna. Quieto perì in viaggio, uscendo da un conciliabolo con i suoi complici, sul predellino della carrozza che lo riportava in città. Un'ondata di terrore si riversò su Roma. Il mio vecchio cognato Serviano, che in apparenza s'era rassegnato alla mia fortuna, ma che avidamente contava sui miei errori futuri, dovette provarne un impulso di gioia, senza dubbio la voluttà più intensa della sua vita. Tutte le voci sinistre che correvano sul mio conto trovarono nuovo credito.
Mi furono comunicate queste notizie sul ponte della nave che mi riconduceva in Italia. Rimasi annientato. Esser liberato dei propri avversari è sempre una soddisfazione, ma il mio tutore aveva mostrato l'indifferenza dei vecchi per le conseguenze lontane del suo gesto: aveva dimenticato che toccava a me vivere più di vent'anni con le conseguenze di quelle morti. Pensai alle proscrizioni di Ottaviano, che avevano macchiato per sempre la memoria di Augusto, ai primi crimini di Nerone, ai quali altri crimini erano seguiti. Riandai con la mente agli ultimi anni di Domiziano, quell'uomo mediocre, niente affatto peggiore d'un altro, disumanato quasi dalla paura inflitta e subita, e infine morto in pieno palazzo come una fiera accerchiata nei boschi. Già mi sfuggiva dalle mani la mia vita pubblica: la prima riga dell'iscrizione recava, profondamente incise, parole che non avrei cancellato mai più. Il Senato, quel gran corpo tanto debole, ma che bastava perseguitare per vederlo diventare potente, non avrebbe dimenticato mai che erano stati giustiziati sommariamente per ordine mio quattro uomini usciti dai suoi ranghi; così, tre odiosi intriganti e un bruto feroce avrebbero fatto la figura di martiri. Intimai immediatamente ad Attiano di raggiungermi a Brindisi per rispondermi delle sue azioni.
Mi aspettava a due passi dal porto, in una delle camere di quella locanda, volta a oriente, dove un giorno era morto Virgilio. Venne zoppicando a ricevermi sulla soglia; soffriva d'una crisi di gotta. Non appena solo con lui, lo rimproverai aspramente: un regno che volevo moderato, esemplare, s'iniziava con quattro esecuzioni sommarie, delle quali una soltanto era indispensabile, alle quali, per di più, si era incautamente trascurato di dare una sembianza di legalità. Quell'abuso di potere mi sarebbe stato tanto più rimproverato quanto più in seguito mi sarei messo d'impegno a mostrarmi clemente, scrupoloso o giusto; se ne sarebbero serviti per provare che le mie cosiddette virtù non erano che una maschera, e m'avrebbero fabbricata una banale leggenda di tiranno che, forse, mi avrebbe seguito sino alla fine della storia. Confessai la mia paura: non mi sentivo esente dalla crudeltà più che da qualsiasi altra tara umana: accettavo perfino il luogo comune che vuole che il delitto chiami delitto, l'immagine della belva che ha assaggiato il sangue. Un vecchio amico, la cui lealtà m'era parsa sicura, si emancipava già, profittava delle debolezze che aveva creduto d'osservare in me; sotto l'aspetto di rendermi un servigio, aveva fatto in modo di regolare un conto personale con Nigrino e con Palma. Comprometteva la mia opera di pacificazione; mi preparava, infine, il più tetro dei ritorni a Roma.
Il vecchio chiese il permesso di mettersi a sedere; posò su di uno sgabello la gamba avvolta in bende. E io, mentre continuavo a parlare, andavo ricoprendo con una coperta quel piede infermo. Mi lasciava sfogare, con il sorriso d'un grammatico che ascolta un alunno cavarsela abbastanza bene in una recitazione difficile. Quando ebbi finito, mi domandò con tono pacato che cosa contavo di fare dei nemici del regime. Se era necessario, si sarebbe potuto fornire prove del fatto che quei quattro uomini avevano tramato la mia morte: in ogni caso, sarebbe stato loro reale interesse il farlo. Non c'è cambio della guardia che non comporta le sue epurazioni; e s'era incaricato lui di quest'ultima, per lasciarmi le mani nette. Se l'opinione pubblica reclamava una vittima, non c'era nulla di più semplice che destituirlo dalla carica di prefetto del pretorio. Questa misura l'aveva prevista, mi consigliava perfino di adottarla. E se per conciliarmi il Senato bisognava andare oltre, mi avrebbe approvato anche qualora mi fossi deciso a relegarlo o esiliarlo.
Attiano era stato per me il tutore al quale si spillano quattrini, il consigliere dei giorni difficili, la guida fedele, ma era la prima volta ch'io guardavo con attenzione quel viso molle dalle guance ben rase, quelle mani rattrappite tranquillamente incrociate sul pomo d'un bastone d'ebano. Le diverse componenti di quella prospera esistenza di uomo mi erano sufficientemente note: la moglie, che gli era cara, e la cui salute era tuttora precaria, le figlie maritate, i loro bambini, per i quali egli nutriva ambizioni modeste e tenaci, così come erano state le sue; il suo gusto per la cucina raffinata; la passione per i cammei greci e le danzatrici giovinette. Eppure, aveva dato a me la precedenza su tutte queste cose; da oltre trent'anni, il suo primo pensiero era stato di proteggermi, di servirmi. E io, finora, non avevo dato la precedenza a null'altro che a progetti, a idee - tutt'al più a una immagine futura di me stesso: la devozione comunissima di quell'uomo mi appariva prodigiosa, insondabile. Nessuno ne è degno; e tuttora non riesco a spiegarmela. Seguii il suo consiglio: fu destituito dalla carica. Il suo lieve sorriso mi dimostrò che s'aspettava di essere preso in parola. Sapeva bene che non c'era al mondo sollecitudine intempestiva verso un vecchio amico, che avrebbe potuto trattenermi dall'adottare il provvedimento più saggio; quel sottile politico d'altronde, non m'avrebbe voluto diverso. Non va neppure esagerata l'entità della sua disgrazia: dopo qualche mese di eclissi, riuscii a farlo entrare in Senato, l'onore supremo che potessi accordare a un uomo dell'ordine equestre. Ebbe una vecchiaia facile, da ricco cavaliere romano, garantito dall'influenza che gli valeva la sua perfetta conoscenza delle famiglie e degli affari; spesso, sono stato ospitato da lui nella sua villa sui colli Albani. Non importa: come Alessandro alla vigilia di una battaglia, prima di entrare a Roma avevo sacrificato alla Paura: e mi accade di contare Attiano nel numero delle mie vittime.
Attiano aveva visto giusto: l'oro puro del rispetto era troppo molle se non s'aggiungeva nella lega una dose di paura. Dell'assassinio dei quattro consolari avvenne come della storia del testamento contraffatto: gli spiriti onesti, i virtuosi si rifiutarono di credermi implicato; i cinici supposero il peggio, ma mi ammirarono a maggior ragione. Roma si calmò, quando si seppe che i miei rancori cessavano di colpo; la gioia che ciascuno provava di sentirsi rassicurato fece rapidamente obliare quei morti. Ci si meravigliava della mia mitezza, poiché la si riteneva premeditata, voluta, preferita, giorno per giorno a una violenza che mi sarebbe stata altrettanto facile; si lodava la mia semplicità, perché si credeva di scorgervi il calcolo. Le virtù modeste, Traiano le possedeva in gran parte; le mie sorprendevano di più: ancora un poco, e vi avrebbero scorto una forma raffinata di vizio. Ero lo stesso d'un tempo, ma ciò che era stato tenuto in dispregio passava per sublime: una cortesia estrema, nella quale gli spiriti grossolani avevano ravvisato una forma di debolezza, fors'anche di viltà, parve il fodero levigato e lucente della forza. La mia pazienza verso i postulanti, le mie frequenti visite agli ospedali militari, la mia familiarità con i reduci veterani, vennero portate alle stelle. Tutto ciò non differiva dal modo con il quale per tutta la vita avevo trattato i servitori e i coloni delle mie fattorie. Ciascuno di noi ha più qualità di quel che non si creda, ma solo il successo le mette in luce, forse perché allora ci si aspetta di vederci smettere d'esercitarle. Gli esseri umani confessano le proprie debolezze peggiori quando stupiscono che il padrone del mondo non sia stupidamente indolente, presuntuoso o crudele.
Avevo rifiutato tutti i titoli. Nei primi mesi del mio regno, il Senato, a mia insaputa, m'aveva ornato di quella lunga serie di appellativi onorifici che si drappeggia come uno scialle frangiato attorno al collo di alcuni imperatori: Dacico, Partico, Germanico: a Traiano erano cari questi bei suoni di musiche guerriere, simili ai cimbali e ai tamburi delle milizie dei Parti; destavano in lui echi lontani, risposte. Io, invece, ne restavo irritato, stordito. Li feci abolire tutti, e respinsi altresì, provvisoriamente, il titolo di Padre della patria, che Augusto accettò solo al termine del suo regno, e di cui ancora non mi reputavo degno. Lo stesso avvenne del trionfo: sarebbe stato ridicolo accettarlo per una guerra che avevo l'unico merito di aver conchiusa. S'ingannarono, coloro che ravvisarono in questo rifiuto un segno di modestia, così come quelli che me ne rimproverarono per un presunto orgoglio. Il mio calcolo mirava meno all'effetto sugli altri che non ai vantaggi per me. Volevo che il mio prestigio fosse personale, che aderisse a me e si misurasse immediatamente in termini di agilità mentale, di forza, di imprese compiute. I titoli, se dovevano venire, sarebbero venuti più tardi; e altri titoli, testimonianze di vittorie più recondite, alle quali ancora non osavo pretendere. Per il momento, avevo abbastanza da fare per diventare o per essere il più possibile Adriano.
Mi si accusa di amare Roma troppo poco. Era bella, tuttavia, durante quei due anni in cui lo Stato e io ci misurammo a vicenda, la città dalle vie anguste, dai Fori ingombri, dai mattoni che hanno il colore della carne dei vecchi. A ritornarci dopo il soggiorno in Oriente e in Grecia, Roma si rivestiva d'una specie di esotismo che un romano nato e vissuto sempre nell'Urbe non sospetterebbe. Tornavo ad abituarmi ai suoi inverni umidi e nebbiosi, alla sua estate africana, temperata dal fresco delle cascate di Tivoli e dei laghi di Alba, al suo popolo quasi rustico, legato con attaccamento provinciale ai sette colli, nel quale tuttavia l'ambizione, la lusinga del guadagno, i casi delle conquiste e della schiavitù riversano a poco a poco tutte le razze del mondo, il negro tatuato, il germano villoso, il greco smilzo, l'orientale corpulento. Mi sbarazzai di alcune fisime: frequentai i bagni pubblici nelle ore popolari, imparai a sopportare i ludi del circo, nei quali fino ad allora non avevo visto che sperpero feroce. La mia opinione in proposito non era mutata: detestavo quei massacri in cui le belve non hanno una possibilità di salvezza, ma a poco a poco ne scorgevo il valore rituale, gli effetti di purificazione tragica sulla folla incolta; volevo che lo splendore delle feste eguagliasse quelle di Traiano, ma con arte, con ordine maggiori. Mi costringevo ad apprezzare la scherma esatta dei gladiatori, ma a condizione che nessuno fosse costretto a esercitare quel mestiere suo malgrado. Imparavo a conversare con la folla, attraverso la voce degli araldi, dall'alto della tribuna del circo; a imporle silenzio con una deferenza che essa mi rendeva centuplicata, a non accordarle se non quello che aveva ragionevolmente diritto di aspettarsi, a non rifiutarle nulla senza indicare le ragioni del mio rifiuto. Non portavo i miei libri nel palco imperiale, come fai tu: è un insulto per gli altri aver l'aria di sdegnare i loro piaceri. Se lo spettacolo mi disgustava, lo sforzo di sopportarlo costituiva per me un esercizio più valido che non la lettura di Epitteto.
La morale è una convenzione privata; il decoro è una faccenda pubblica: qualsiasi licenza allo scoperto m'ha fatto sempre l'effetto d'un'ostentazione di bassa lega. Interdissi i bagni misti, ch'erano motivo di risse quasi continue; feci fondere e riversare nelle casse dello Stato il colossale servizio di vasellame di argento ordinato dall'oltraggiosa avidità di Vitellio. I nostri primi Cesari si son fatti una reputazione odiosa di braccatori di eredità: io mi feci una regola di non accettare né per lo Stato né per me alcun legato al quale qualche erede diretto potesse credere d'aver diritto. Cercai di sfoltire il numero esorbitante di schiavi della casa imperiale, e soprattutto d'infrenarne l'audacia che spesso li induce a mettersi alla pari con i cittadini migliori, e, a volte, a terrorizzarli: un giorno, uno dei miei apostrofò un senatore con impertinenza; lo feci schiaffeggiare. Il mio odio per il disordine giunse fino a far fustigare in pieno Circo alcuni dissipatori, oberati di debiti. Per evitare ogni equivoco, insistetti affinché in città si portasse toga e laticlavio, indumenti ingombranti, come del resto tutto ciò che è onorifico, e io stesso m'imposi di indossarli solo a Roma. Mi alzavo per ricevere i miei amici; restavo in piedi durante le udienze, per reagire alla disinvoltura della posizione distesa o seduta. Feci ridurre il numero insolente delle vetture a cavalli che ingombravano le nostre strade: è il lusso della velocità che si annulla da sé, dato che un pedone supera cento vetture quando sono l'una in fila all'altra nelle svolte della Via Sacra. Per le mie visite, presi l'abitudine di farmi portare in lettiga sin nell'interno delle case private, risparmiando così all'ospite la fatica di aspettarmi o di riaccompagnarmi fuori, sotto il sole o il vento stizzoso di Roma. Ritrovavo i miei: ho sempre avuto una certa tenerezza per mia sorella Paolina, e persino Serviano mi sembrava meno odioso che in altri tempi. Mia suocera, Matidia, aveva riportato dall'Oriente i primi sintomi d'una malattia mortale: feci del mio meglio per distrarla dalle sue sofferenze con qualche festa frugale, cercai di divagare innocentemente quella matrona capace di ingenuità come una giovinetta. L'assenza di mia moglie, la quale, in uno dei suoi momenti di malumore, s'era rifugiata in campagna, non toglieva nulla a questi piaceri di famiglia. Tra tutti gli esseri, mia moglie è forse quello alla quale sono riuscito meno a piacere: è vero, però, che mi ci son provato ben poco. Frequentavo la casetta dove l'imperatrice vedova si dedicava ai piaceri austeri della meditazione e dei libri. Ritrovavo il bel silenzio di Plotina. Scendeva soavemente nell'ombra; quel giardino, quelle stanze chiare diventavano ogni giorno di più il recinto d'una Musa, il tempio d'una imperatrice già divina. La sua amicizia restava esigente; ma non erano che esigenze piene di saggezza.
Rividi i miei amici; riassaporai il piacere squisito di riprendere contatto con essi dopo lunghe assenze, di giudicare, di esser giudicato di nuovo. Il mio compagno dei piaceri e dei lavori letterari d'altri tempi, Vittorio Voconio, era morto; mi assunsi l'incarico di redigere l'orazione funebre per lui; si sorrise nel vedermi citare tra le virtù del defunto una castità che negavano sia i suoi poemi sia la presenza ai funerali di Testilio, un fanciullo dai riccioli di miele, che un tempo Vittorio chiamava il suo bel tormento. La mia ipocrisia era meno grossolana di quel che sembra: qualsiasi piacere se preso con ardore mi sembra casto.