×

我们使用cookies帮助改善LingQ。通过浏览本网站,表示你同意我们的 cookie 政策.


image

La coscienza di Zeno - Italo Svevo (Zeno's Conscience), 4.10 La Moglie e l'Amante

4.10 La Moglie e l'Amante

Alla mattina seguente, però, quando in ufficio trovai sul mio tavolo una busta al mio indirizzo scritto da Carla, respirai. Ecco che niente era finito e che si poteva continuare a vivere munito di tutti gli elementi necessarii. In brevi parole Carla mi dava un appuntamento per le undici della mattina al Giardino Pubblico, all'ingresso posto di faccia alla sua casa. Ci saremmo trovati non nella sua stanza, ma tuttavia in un posto vicinissimo alla stessa.

Non seppi aspettare e arrivai all'appuntamento un quarto d'ora prima. Se Carla non fosse stata al posto indicato, io mi sarei recato dritto dritto a casa sua, ciò che sarebbe stato ben più comodo.

Anche quella era una giornata pregna della nuova primavera dolce e luminosa. Quando abbandonai la rumorosa Corsia Stadion ed entrai nel giardino, mi trovai nel silenzio della campagna che non si può dire interrotto dal lieve, continuo stormire delle piante lambite dalla brezza.

Con passo celere m'avviavo ad uscire dal giardino quando Carla mi venne incontro. Aveva in mano la mia busta e mi si avvicinava senza un sorriso di saluto, anzi con una rigida decisione sulla faccina pallida. Portava un semplice vestito di tela dal tessuto grosso traversato da striscie azzurre, che le stava molto bene. Pareva anch'essa una parte del giardino. Più tardi, nei momenti in cui più la odiai, le attribuii l'intenzione di essersi vestita così per rendersi più desiderabile nel momento stesso in cui mi si rifiutava. Era invece il primo giorno di primavera che la vestiva. Bisogna anche ricordare che nel mio lungo ma brusco amore, l'adornamento della mia donna aveva avuto piccolissima parte. Io ero sempre andato direttamente a quella sua stanza da studio, e le donne modeste sono proprio molto semplici quando restano in casa.

Essa mi porse la mano ch'io strinsi dicendole:

— Ti ringrazio di essere venuta!

Come sarebbe stato più decoroso per me se durante tutto quel colloquio io fossi rimasto così mite!

Carla pareva commossa e, quando parlava, una specie di convulso le faceva tremare le labbra. Talvolta anche nel cantare quel movimento delle labbra le impediva la nota. Mi disse:

— Vorrei compiacerti e accettare da te questo denaro, ma non posso, assolutamente non posso. Te ne prego, riprendilo.

Vedendola vicina alle lacrime, subito la compiacqui prendendo la busta che mi ritrovai poi in mano, lungo tempo dopo di aver abbandonato quel luogo.

— Veramente non ne vuoi più sapere di me?

Feci questa domanda non pensando ch'essa vi aveva risposto il giorno prima. Ma era possibile che, desiderabile come la vedevo, essa si contendesse a me?

— Zeno!, rispose la fanciulla con qualche dolcezza, - non avevamo noi promesso che non ci saremmo rivisti mai più? In seguito a quella nostra promessa ho assunti degl'impegni che somigliano a quelli che tu avevi già prima di conoscermi. Sono altrettanto sacri dei tuoi. Io spero che a quest'ora tua moglie si sarà accorta che sei tutto suo.

Nel suo pensiero continuava dunque ad avere importanza la bellezza di Ada. Se io fossi stato sicuro che il suo abbandono era causato da lei, avrei avuto il modo di correre al riparo. Le avrei fatto sapere che Ada non era mia moglie e le avrei fatto vedere Augusta col suo occhio sbilenco e la sua figura di balia sana. Ma non erano oramai più importanti gl'impegni presi da lei? Bisognava discutere quelli.

Cercai di parlare calmo mentre anche a me le labbra tremavano, ma dal desiderio. Le raccontai che ancora ella non sapeva quanto mia essa fosse e come non avesse più il diritto di disporre di sé. Nella mia testa si moveva la prova scientifica di quanto volevo dire, cioè quel celebre esperimento di Darwin su una cavalla araba, ma, grazie al Cielo, sono quasi sicuro di non averne parlato. Devo però aver parlato di bestie e della loro fedeltà fisica, in un balbettio senza senso. Abbandonai poi gli argomenti più difficili che non erano accessibili né a lei né a me in quel momento e dissi:

— Quali impegni puoi avere presi? E quale importanza possono avere in confronto a un affetto come quello che ci legò per più di un anno?

L'afferrai rudemente per la mano sentendo il bisogno di un atto energico, non trovando nessuna parola che sapesse supplirvi.

Essa si levò con tanta energia dalla mia stretta come se fosse stata la prima volta ch'io mi fossi permessa una cosa simile.

— Mai! - disse con l'atteggiamento di chi giura - ho preso un impegno più sacro! L'ho preso con un uomo che a sua volta ne assunse uno identico verso di me.

Non v'era dubbio! Il sangue che le colorì improvvisamente le guancie vi era spinto dal rancore per l'uomo che verso di lei non aveva assunto alcun impegno. E si spiegò anche meglio:

— Ieri abbiamo camminato per le strade, uno a braccio dell'altra in compagnia di sua madre.

Era evidente che la mia donna correva via, sempre più lontano da me. Io le corsi dietro follemente, con certi salti simili a quelli di un cane cui venga conteso un saporito pezzo di carne.

Ripresi la sua mano con violenza:

— Ebbene, - proposi - camminiamo così, tenendoci per mano, traverso tutta la città. In questa posizione insolita, per farci meglio osservare, passiamo la Corsia Stadion eppoi i volti di Chiozza e giù giù traverso il Corso fino a Sant'Andrea per ritornare alla camera nostra per tutt'altra parte, perché tutta la città ci veda.

Ecco che per la prima volta rinunziavo ad Augusta! E mi parve una liberazione perché era dessa che voleva togliermi Carla.

Essa si tolse di nuovo alla mia stretta e disse seccamente:

— Sarebbe circa la stessa via che abbiamo fatta noi ieri!

Saltai ancora:

— Ed egli sa, sa tutto? Sa che anche ieri fosti mia?

— Sì - essa disse con orgoglio. - Egli sa tutto, tutto.

Mi sentivo perduto e nella mia rabbia, simile al cane che, quando non può più raggiungere il boccone desiderato, addenta le vesti di chi glielo contende, dissi:

— Questo tuo sposo ha uno stomaco eccellente. Oggi digerisce me e domani potrà digerire tutto ciò che vorrai.

Non sentivo l'esatto suono delle mie parole. Sapevo di gridare dal dolore. Essa ebbe invece un'espressione d'indignazione di cui non avrei creduto capace il suo occhio bruno e mite di gazzella:

— A me lo dici? E perché non hai il coraggio di dirlo a lui?

Mi volse le spalle e con passo celere s'avviò verso l'uscita. Io già avevo rimorso delle parole dette, offuscato però dalla grande sorpresa che oramai mi fosse interdetto di trattare Carla con meno dolcezza. Quella mi teneva inchiodato al posto. La piccola figurina azzurra e bianca, con un passo breve e celere, raggiungeva già l'uscita, quando mi decisi di correrle dietro. Non sapevo quello che le avrei detto, ma era impossibile che ci si separasse così.

La fermai al portone di casa sua e le dissi solo sinceramente il grande dolore di quel momento:

— Ci separeremo proprio così, dopo tanto amore?

Essa procedette oltre senza rispondermi ed io la seguii anche sulle scale. Poi mi guardò con quel suo occhio nemico:

— Se lei vuol vedere il mio sposo, venga con me. Non lo sente? È lui che suona il piano.

Sentii appena allora le note sincopate del "Saluto" dello Schubert ridotto dal Liszt.

Quantunque dalla mia infanzia io non abbia maneggiata né una sciabola né un bastone, io non sono un uomo pauroso. Il grande desiderio che m'aveva commosso fino ad allora, era improvvisamente sparito. Del maschio non restava in me che la combattività. Avevo domandato imperiosamente una cosa che non mi competeva. Per diminuire il mio errore adesso bisognava battersi, perché altrimenti il ricordo di quella donna che minacciava di farmi punire dal suo sposo, sarebbe stato atroce.

— Ebbene! - le dissi. - Se lo permetti vengo con te.

Mi batteva il cuore non per paura, ma per il timore di non comportarmi bene.

Continuai a salire accanto a lei. Ma improvvisamente essa si fermò, s'appoggiò al muro e si mise a piangere senza parole. Lassù continuavano ad echeggiare le note del "Saluto" su quel pianoforte che io avevo pagato. Il pianto di Carla rese quel suono molto commovente.

— Io farò quello che vuoi! Vuoi che me ne vada? - domandai.

— Sì, - disse essa appena capace di articolare quella breve parola.

— Addio! - le dissi. - Giacché lo vuoi, addio per sempre!

Scesi lentamente le scale, fischiettando anch'io il "Saluto" di Schubert. Non so se sia stata un'illusione, ma a me parve ch'essa mi chiamasse:

— Zeno!

In quel momento essa avrebbe potuto chiamarmi anche con quello strano nome di Dario ch'essa sentiva quale un vezzeggiativo e non mi sarei fermato. Avevo un grande desiderio di andarmene e ritornavo anche una volta, puro, ad Augusta. Anche il cane cui a forza di pedate si impedisce l'approccio alla femmina, corre via purissimo, per il momento.

Quando il giorno dopo fui ridotto nuovamente allo stato in cui m'ero trovato al momento d'avviarmi al Giardino Pubblico, mi parve semplicemente di essere stato un vigliacco: essa m'aveva chiamato sebbene non col nome dell'amore, ed io non avevo risposto! Fu il primo giorno di dolore cui seguirono molti altri di desolazione amara. Non comprendendo più perché mi fossi allontanato così, mi attribuivo la colpa di aver avuto paura di quell'uomo o paura dello scandalo. Avrei ora nuovamente accettata qualunque compromissione, come quando avevo proposto a Carla quella lunga passeggiata traverso alla città. Avevo perduto un momento favorevole e sapevo benissimo che certe donne ne hanno per una volta sola. A me sarebbe bastata quella sola volta.

Decisi subito di scrivere a Carla. Non m'era possibile di lasciar trascorrere neppure un solo giorno di più senza fare un tentativo per riavvicinarmi a lei. Scrissi e riscrissi quella lettera per mettere in quelle poche parole tutto l'accorgimento di cui ero capace. La riscrissi tante volte anche perché lo scriverla era un grande conforto per me; era lo sfogo di cui abbisognavo. Le domandavo perdono per l'ira che le avevo dimostrata, asserendo che il grande mio amore abbisognava di tempo per calmarsi. Aggiungevo: «Ogni giorno che passa m'apporta un altro briciolo di calma» e scrissi questa frase tante volte sempre digrignando i denti. Poi le dicevo che non sapevo perdonarmi le parole che le avevo dirette e sentivo il bisogno di domandarle scusa. Io non potevo, purtroppo, offrirle quello che il Lali le offriva e di cui ella era tanto degna.

Io mi figuravo che la lettera avrebbe avuto un grande effetto. Giacché il Lali sapeva tutto, Carla gliel'avrebbe fatta vedere e per il Lali avrebbe potuto esser vantaggioso di avere un amico della mia qualità. Sognai persino che ci si sarebbe potuti avviare a una dolce vita a tre, perché il mio amore era tale che per il momento io avrei vista raddolcita la mia sorte se mi fosse stato permesso di fare anche solo la corte a Carla.

Il terzo giorno ricevetti da lei un breve biglietto. Non vi venivo invocato affatto né come Zeno né come Dario. Mi diceva soltanto: «Grazie! Sia anche lei felice con la consorte Sua, tanto degna di ogni bene!». Parlava di Ada, naturalmente.

Il momento favorevole non aveva continuato e dalle donne non continua mai se non lo si ferma prendendole per le treccie. Il mio desiderio si condensò in una bile furiosa. Non contro Augusta! L'animo mio era tanto pieno di Carla che ne avevo rimorso e mi costringevo con Augusta ad un sorriso ebete, stereotipato, che a lei pareva autentico.

Ma dovevo fare qualche cosa. Non potevo mica aspettare e soffrire così ogni giorno! Non volevo più scriverle. La carta scritta per le donne ha troppo poca importanza. Bisognava trovare di meglio.

Senza un proposito esatto, m'avviai di corsa al Giardino Pubblico. Poi, molto più lentamente, alla casa di Carla e, giunto a quel pianerottolo, bussai alla porta della cucina. Se ve n'era la possibilità, avrei evitato di vedere il Lali, ma non mi sarebbe dispiaciuto d'imbattermi in lui. Sarebbe stata la crisi di cui sentivo di aver bisogno.

La vecchia signora, come al solito, era al focolare su cui ardevano due grandi fuochi. Fu stupita al vedermi, ma poi rise da quella buona innocente ch'essa era. Mi disse:

— Mi fa piacere di vederla! Era tanto abituata lei di vederci ogni giorno, che si capisce non le riesca di evitarci del tutto.

Mi fu facile di farla ciarlare. Mi raccontò che gli amori di Carla con Vittorio erano grandi. Quel giorno lui e la madre venivano a desinare da loro. Aggiunse ridendo: - Presto egli finirà con l'indurla ad accompagnarlo persino alle tante lezioni di canto cui egli è obbligato ogni giorno. Non sanno restar divisi neppure per brevi istanti.

Sorrideva di quella felicità, maternamente. Mi raccontò che di lì a poche settimane si sarebbero sposati.

Avevo un cattivo sapore in bocca, e quasi mi sarei avviato alla porta per andarmene. Poi mi trattenni sperando che la ciarla della vecchia avrebbe potuto suggerirmi qualche buona idea o darmi qualche speranza. L'ultimo errore, ch'io avevo commesso con Carla, era stato proprio di correre via prima di avere studiato tutte le possibilità che potevano essermi offerte.

Per un istante credetti anche di avere la mia idea. Domandai alla vecchia se proprio avesse deciso di fare da serva alla figlia fino alla propria morte. Le dissi ch'io sapevo che Carla non era molto dolce con lei.

Essa continuò a lavorare assiduamente accanto al focolare, ma stava a sentirmi. Fu di un candore ch'io non meritavo. Si lagnò di Carla che perdeva la pazienza per cose da niente. Si scusava:

— Certamente io divento ogni giorno più vecchia e dimentico tutto. Non ne ho colpa!

Ma sperava che adesso le cose sarebbero andate meglio. I malumori di Carla sarebbero diminuiti, ora ch'era felice. Eppoi Vittorio, da bel principio, s'era messo a dimostrarle un grande rispetto. Infine, sempre intenta a foggiare certe forme con un intruglio di pasta e di frutta, aggiunse:

— È mio dovere di restare con mia figlia. Non si può fare altrimenti.

Con una certa ansia tentai di convincerla. Le dissi che poteva benissimo liberarsi da tanta schiavitù. Non c'ero io? Avrei continuato a passarle il mensile che fino ad allora avevo concesso a Carla. Io volevo oramai mantenere qualcuno! Volevo tenere con me la vecchia che mi pareva parte della figlia.

La vecchia mi manifestò la sua riconoscenza. Ammirava la mia bontà, ma si mise a ridere all'idea che le si potesse proporre di lasciare la figlia. Era una cosa che non si poteva pensare.

Ecco una dura parola che andò a battere contro la mia fronte che si curvò! Ritornavo a quella grande solitudine dove non c'era Carla e neppure visibile una via che conducesse a lei. Ricordo che feci un ultimo sforzo per illudermi che quella via potesse rimanere almeno segnata. Dissi alla vecchia, prima di andarmene, che poteva avvenire che di lì a qualche tempo essa fosse di altro umore. La pregavo allora di voler ricordarsi di me.

Uscendo da quella casa ero pieno di sdegno e di rancore, proprio come se fossi stato maltrattato quando m'accingevo ad una buona azione. Quella vecchia m'aveva proprio offeso con quel suo scoppio di riso. Lo sentivo risonare ancora nelle orecchie e significava non mica solo l'irrisione alla mia ultima proposta.

Non volli andare da Augusta in quello stato. Prevedevo il mio destino. Se fossi andato da lei, avrei finito col maltrattarla ed essa si sarebbe vendicata con quel suo grande pallore che mi faceva tanto male. Preferii di camminare le vie con un passo ritmico che avrebbe potuto avviare ad un poco d'ordine il mio animo. E infatti l'ordine venne! Cessai di lagnarmi del mio destino e vidi me stesso come se una grande luce m'avesse proiettato intero sul selciato che guardavo. Io non domandavo Carla, io volevo il suo abbraccio e preferibilmente il suo ultimo abbraccio. Una cosa ridicola! Mi ficcai i denti nelle labbra per gettare il dolore, cioè un poco di serietà, sulla mia ridicola immagine. Sapevo tutto di me stesso ed era imperdonabile che soffrissi tanto perché mi veniva offerta una opportunità unica di svezzamento. Carla non c'era più proprio come tante volte l'avevo desiderato.

Con tale chiarezza nell'animo, quando poco dopo, in una via eccentrica della città, cui ero pervenuto senz'alcun proposito, una donna imbellettata mi fece un cenno, io corsi senz'esitazione a lei.

Arrivai ben tardi a colazione, ma fui tanto dolce con Augusta ch'essa fu subito lieta. Non fui però capace di baciare la bimba mia e per varie ore non seppi neppure mangiare. Mi sentivo ben sudicio! Non finsi alcuna malattia come avevo fatto altre volte per celare e attenuare il delitto e il rimorso. Non mi pareva di poter trovare conforto in un proposito per l'avvenire, e per la prima volta non ne feci affatto. Occorsero molte ore per ritornare al ritmo solito che mi traeva dal fosco presente al luminoso avvenire.

Augusta s'accorse che c'era qualche cosa di nuovo in me. Ne rise:

— Con te non ci si può mai annoiare. Sei ogni giorno un uomo nuovo.

Sì! Quella donna del sobborgo non somigliava a nessun'altra e io l'avevo in me.

Passai anche il pomeriggio e la sera con Augusta. Essa era occupatissima ed io le stavo accanto inerte. Mi pareva di essere trasportato così, inerte, da una corrente, una corrente di acqua limpida: la vita onesta della mia casa.

M'abbandonavo a quella corrente che mi trasportava ma non mi nettava. Tutt'altro! Rilevava la mia sozzura.

Naturalmente nella lunga notte che seguì arrivai al proposito. Il primo fu il più ferreo. Mi sarei procurata un'arma per abbattermi subito quando mi fossi sorpreso avviato a quella parte della città. Mi fece bene quel proposito e mi mitigò.

Non gemetti mai nel mio letto ed anzi simulai il respiro regolare del dormente. Così ritornai all'antica idea di purificarmi con una confessione a mia moglie, proprio come quand'ero stato in procinto di tradirla con Carla. Ma era oramai una confessione ben difficile e non per la gravità del misfatto, ma per la complicazione da cui era risultato. Di fronte a un giudice quale era mia moglie, avrei pur dovuto accampare le circostanze attenuanti e queste sarebbero risultate solo se avessi potuto dire della violenza impensata con cui era stata spezzata la mia relazione con Carla.

Ma allora sarebbe occorso di confessare anche quel tradimento oramai antico. Era più puro di questo, ma (chissà?) per una moglie più offensivo.

A forza di studiarmi arrivai a dei propositi sempre più ragionevoli. Pensai di evitare il ripetersi di un trascorso simile affrettandomi ad organizzare un'altra relazione quale quella che avevo perduta e di cui si vedeva avevo bisogno. Ma anche la donna nuova mi spaventava. Mille pericoli avrebbero insidiato me e la mia famigliuola. A questo mondo un'altra Carla non c'era, e con lacrime amarissime la rimpiansi, lei, la dolce, la buona, che aveva persino tentato di amare la donna ch'io amavo e che non vi era riuscita solo perché io le avevo messa dinanzi un'altra donna e proprio quella che non amavo affatto!

4.10 La Moglie e l'Amante 4.10 The Wife and the Lover 4.10 La femme et l'amant 4.10 A mulher e o amante 4.10 Hustrun och älskaren

Alla mattina seguente, però, quando in ufficio trovai sul mio tavolo una busta al mio indirizzo scritto da Carla, respirai. Ecco che niente era finito e che si poteva continuare a vivere munito di tutti gli elementi necessarii. In brevi parole Carla mi dava un appuntamento per le undici della mattina al Giardino Pubblico, all'ingresso posto di faccia alla sua casa. Ci saremmo trovati non nella sua stanza, ma tuttavia in un posto vicinissimo alla stessa.

Non seppi aspettare e arrivai all'appuntamento un quarto d'ora prima. Se Carla non fosse stata al posto indicato, io mi sarei recato dritto dritto a casa sua, ciò che sarebbe stato ben più comodo.

Anche quella era una giornata pregna della nuova primavera dolce e luminosa. Quando abbandonai la rumorosa Corsia Stadion ed entrai nel giardino, mi trovai nel silenzio della campagna che non si può dire interrotto dal lieve, continuo stormire delle piante lambite dalla brezza.

Con passo celere m'avviavo ad uscire dal giardino quando Carla mi venne incontro. Aveva in mano la mia busta e mi si avvicinava senza un sorriso di saluto, anzi con una rigida decisione sulla faccina pallida. Portava un semplice vestito di tela dal tessuto grosso traversato da striscie azzurre, che le stava molto bene. Pareva anch'essa una parte del giardino. Più tardi, nei momenti in cui più la odiai, le attribuii l'intenzione di essersi vestita così per rendersi più desiderabile nel momento stesso in cui mi si rifiutava. Era invece il primo giorno di primavera che la vestiva. Bisogna anche ricordare che nel mio lungo ma brusco amore, l'adornamento della mia donna aveva avuto piccolissima parte. Io ero sempre andato direttamente a quella sua stanza da studio, e le donne modeste sono proprio molto semplici quando restano in casa.

Essa mi porse la mano ch'io strinsi dicendole:

— Ti ringrazio di essere venuta!

Come sarebbe stato più decoroso per me se durante tutto quel colloquio io fossi rimasto così mite!

Carla pareva commossa e, quando parlava, una specie di convulso le faceva tremare le labbra. Talvolta anche nel cantare quel movimento delle labbra le impediva la nota. Mi disse:

— Vorrei compiacerti e accettare da te questo denaro, ma non posso, assolutamente non posso. Te ne prego, riprendilo.

Vedendola vicina alle lacrime, subito la compiacqui prendendo la busta che mi ritrovai poi in mano, lungo tempo dopo di aver abbandonato quel luogo.

— Veramente non ne vuoi più sapere di me?

Feci questa domanda non pensando ch'essa vi aveva risposto il giorno prima. Ma era possibile che, desiderabile come la vedevo, essa si contendesse a me?

— Zeno!, rispose la fanciulla con qualche dolcezza, - non avevamo noi promesso che non ci saremmo rivisti mai più? In seguito a quella nostra promessa ho assunti degl'impegni che somigliano a quelli che tu avevi già prima di conoscermi. Sono altrettanto sacri dei tuoi. Io spero che a quest'ora tua moglie si sarà accorta che sei tutto suo.

Nel suo pensiero continuava dunque ad avere importanza la bellezza di Ada. Se io fossi stato sicuro che il suo abbandono era causato da lei, avrei avuto il modo di correre al riparo. Le avrei fatto sapere che Ada non era mia moglie e le avrei fatto vedere Augusta col suo occhio sbilenco e la sua figura di balia sana. Ma non erano oramai più importanti gl'impegni presi da lei? Bisognava discutere quelli.

Cercai di parlare calmo mentre anche a me le labbra tremavano, ma dal desiderio. Le raccontai che ancora ella non sapeva quanto mia essa fosse e come non avesse più il diritto di disporre di sé. Nella mia testa si moveva la prova scientifica di quanto volevo dire, cioè quel celebre esperimento di Darwin su una cavalla araba, ma, grazie al Cielo, sono quasi sicuro di non averne parlato. Devo però aver parlato di bestie e della loro fedeltà fisica, in un balbettio senza senso. Abbandonai poi gli argomenti più difficili che non erano accessibili né a lei né a me in quel momento e dissi:

— Quali impegni puoi avere presi? E quale importanza possono avere in confronto a un affetto come quello che ci legò per più di un anno?

L'afferrai rudemente per la mano sentendo il bisogno di un atto energico, non trovando nessuna parola che sapesse supplirvi.

Essa si levò con tanta energia dalla mia stretta come se fosse stata la prima volta ch'io mi fossi permessa una cosa simile.

— Mai! - disse con l'atteggiamento di chi giura - ho preso un impegno più sacro! L'ho preso con un uomo che a sua volta ne assunse uno identico verso di me.

Non v'era dubbio! Il sangue che le colorì improvvisamente le guancie vi era spinto dal rancore per l'uomo che verso di lei non aveva assunto alcun impegno. E si spiegò anche meglio:

— Ieri abbiamo camminato per le strade, uno a braccio dell'altra in compagnia di sua madre.

Era evidente che la mia donna correva via, sempre più lontano da me. Io le corsi dietro follemente, con certi salti simili a quelli di un cane cui venga conteso un saporito pezzo di carne.

Ripresi la sua mano con violenza:

— Ebbene, - proposi - camminiamo così, tenendoci per mano, traverso tutta la città. In questa posizione insolita, per farci meglio osservare, passiamo la Corsia Stadion eppoi i volti di Chiozza e giù giù traverso il Corso fino a Sant'Andrea per ritornare alla camera nostra per tutt'altra parte, perché tutta la città ci veda.

Ecco che per la prima volta rinunziavo ad Augusta! E mi parve una liberazione perché era dessa che voleva togliermi Carla.

Essa si tolse di nuovo alla mia stretta e disse seccamente:

— Sarebbe circa la stessa via che abbiamo fatta noi ieri!

Saltai ancora:

— Ed egli sa, sa tutto? Sa che anche ieri fosti mia?

— Sì - essa disse con orgoglio. - Egli sa tutto, tutto.

Mi sentivo perduto e nella mia rabbia, simile al cane che, quando non può più raggiungere il boccone desiderato, addenta le vesti di chi glielo contende, dissi:

— Questo tuo sposo ha uno stomaco eccellente. Oggi digerisce me e domani potrà digerire tutto ciò che vorrai.

Non sentivo l'esatto suono delle mie parole. Sapevo di gridare dal dolore. Essa ebbe invece un'espressione d'indignazione di cui non avrei creduto capace il suo occhio bruno e mite di gazzella:

— A me lo dici? E perché non hai il coraggio di dirlo a lui?

Mi volse le spalle e con passo celere s'avviò verso l'uscita. Io già avevo rimorso delle parole dette, offuscato però dalla grande sorpresa che oramai mi fosse interdetto di trattare Carla con meno dolcezza. Quella mi teneva inchiodato al posto. La piccola figurina azzurra e bianca, con un passo breve e celere, raggiungeva già l'uscita, quando mi decisi di correrle dietro. Non sapevo quello che le avrei detto, ma era impossibile che ci si separasse così.

La fermai al portone di casa sua e le dissi solo sinceramente il grande dolore di quel momento:

— Ci separeremo proprio così, dopo tanto amore?

Essa procedette oltre senza rispondermi ed io la seguii anche sulle scale. Poi mi guardò con quel suo occhio nemico:

— Se lei vuol vedere il mio sposo, venga con me. Non lo sente? È lui che suona il piano.

Sentii appena allora le note sincopate del "Saluto" dello Schubert ridotto dal Liszt.

Quantunque dalla mia infanzia io non abbia maneggiata né una sciabola né un bastone, io non sono un uomo pauroso. Il grande desiderio che m'aveva commosso fino ad allora, era improvvisamente sparito. Del maschio non restava in me che la combattività. Avevo domandato imperiosamente una cosa che non mi competeva. Per diminuire il mio errore adesso bisognava battersi, perché altrimenti il ricordo di quella donna che minacciava di farmi punire dal suo sposo, sarebbe stato atroce.

— Ebbene! - le dissi. - Se lo permetti vengo con te.

Mi batteva il cuore non per paura, ma per il timore di non comportarmi bene.

Continuai a salire accanto a lei. Ma improvvisamente essa si fermò, s'appoggiò al muro e si mise a piangere senza parole. Lassù continuavano ad echeggiare le note del "Saluto" su quel pianoforte che io avevo pagato. Il pianto di Carla rese quel suono molto commovente.

— Io farò quello che vuoi! Vuoi che me ne vada? - domandai.

— Sì, - disse essa appena capace di articolare quella breve parola.

— Addio! - le dissi. - Giacché lo vuoi, addio per sempre!

Scesi lentamente le scale, fischiettando anch'io il "Saluto" di Schubert. Non so se sia stata un'illusione, ma a me parve ch'essa mi chiamasse:

— Zeno!

In quel momento essa avrebbe potuto chiamarmi anche con quello strano nome di Dario ch'essa sentiva quale un vezzeggiativo e non mi sarei fermato. Avevo un grande desiderio di andarmene e ritornavo anche una volta, puro, ad Augusta. Anche il cane cui a forza di pedate si impedisce l'approccio alla femmina, corre via purissimo, per il momento.

Quando il giorno dopo fui ridotto nuovamente allo stato in cui m'ero trovato al momento d'avviarmi al Giardino Pubblico, mi parve semplicemente di essere stato un vigliacco: essa m'aveva chiamato sebbene non col nome dell'amore, ed io non avevo risposto! Fu il primo giorno di dolore cui seguirono molti altri di desolazione amara. Non comprendendo più perché mi fossi allontanato così, mi attribuivo la colpa di aver avuto paura di quell'uomo o paura dello scandalo. Avrei ora nuovamente accettata qualunque compromissione, come quando avevo proposto a Carla quella lunga passeggiata traverso alla città. Avevo perduto un momento favorevole e sapevo benissimo che certe donne ne hanno per una volta sola. A me sarebbe bastata quella sola volta.

Decisi subito di scrivere a Carla. Non m'era possibile di lasciar trascorrere neppure un solo giorno di più senza fare un tentativo per riavvicinarmi a lei. Scrissi e riscrissi quella lettera per mettere in quelle poche parole tutto l'accorgimento di cui ero capace. La riscrissi tante volte anche perché lo scriverla era un grande conforto per me; era lo sfogo di cui abbisognavo. Le domandavo perdono per l'ira che le avevo dimostrata, asserendo che il grande mio amore abbisognava di tempo per calmarsi. Aggiungevo: «Ogni giorno che passa m'apporta un altro briciolo di calma» e scrissi questa frase tante volte sempre digrignando i denti. Poi le dicevo che non sapevo perdonarmi le parole che le avevo dirette e sentivo il bisogno di domandarle scusa. Io non potevo, purtroppo, offrirle quello che il Lali le offriva e di cui ella era tanto degna.

Io mi figuravo che la lettera avrebbe avuto un grande effetto. Giacché il Lali sapeva tutto, Carla gliel'avrebbe fatta vedere e per il Lali avrebbe potuto esser vantaggioso di avere un amico della mia qualità. Sognai persino che ci si sarebbe potuti avviare a una dolce vita a tre, perché il mio amore era tale che per il momento io avrei vista raddolcita la mia sorte se mi fosse stato permesso di fare anche solo la corte a Carla.

Il terzo giorno ricevetti da lei un breve biglietto. Non vi venivo invocato affatto né come Zeno né come Dario. Mi diceva soltanto: «Grazie! Sia anche lei felice con la consorte Sua, tanto degna di ogni bene!». Parlava di Ada, naturalmente.

Il momento favorevole non aveva continuato e dalle donne non continua mai se non lo si ferma prendendole per le treccie. Il mio desiderio si condensò in una bile furiosa. Non contro Augusta! L'animo mio era tanto pieno di Carla che ne avevo rimorso e mi costringevo con Augusta ad un sorriso ebete, stereotipato, che a lei pareva autentico.

Ma dovevo fare qualche cosa. Non potevo mica aspettare e soffrire così ogni giorno! Non volevo più scriverle. La carta scritta per le donne ha troppo poca importanza. Bisognava trovare di meglio.

Senza un proposito esatto, m'avviai di corsa al Giardino Pubblico. Poi, molto più lentamente, alla casa di Carla e, giunto a quel pianerottolo, bussai alla porta della cucina. Se ve n'era la possibilità, avrei evitato di vedere il Lali, ma non mi sarebbe dispiaciuto d'imbattermi in lui. Sarebbe stata la crisi di cui sentivo di aver bisogno.

La vecchia signora, come al solito, era al focolare su cui ardevano due grandi fuochi. Fu stupita al vedermi, ma poi rise da quella buona innocente ch'essa era. Mi disse:

— Mi fa piacere di vederla! Era tanto abituata lei di vederci ogni giorno, che si capisce non le riesca di evitarci del tutto.

Mi fu facile di farla ciarlare. Mi raccontò che gli amori di Carla con Vittorio erano grandi. Quel giorno lui e la madre venivano a desinare da loro. Aggiunse ridendo: - Presto egli finirà con l'indurla ad accompagnarlo persino alle tante lezioni di canto cui egli è obbligato ogni giorno. Non sanno restar divisi neppure per brevi istanti.

Sorrideva di quella felicità, maternamente. Mi raccontò che di lì a poche settimane si sarebbero sposati.

Avevo un cattivo sapore in bocca, e quasi mi sarei avviato alla porta per andarmene. Poi mi trattenni sperando che la ciarla della vecchia avrebbe potuto suggerirmi qualche buona idea o darmi qualche speranza. L'ultimo errore, ch'io avevo commesso con Carla, era stato proprio di correre via prima di avere studiato tutte le possibilità che potevano essermi offerte.

Per un istante credetti anche di avere la mia idea. Domandai alla vecchia se proprio avesse deciso di fare da serva alla figlia fino alla propria morte. Le dissi ch'io sapevo che Carla non era molto dolce con lei.

Essa continuò a lavorare assiduamente accanto al focolare, ma stava a sentirmi. Fu di un candore ch'io non meritavo. Si lagnò di Carla che perdeva la pazienza per cose da niente. Si scusava:

— Certamente io divento ogni giorno più vecchia e dimentico tutto. Non ne ho colpa!

Ma sperava che adesso le cose sarebbero andate meglio. I malumori di Carla sarebbero diminuiti, ora ch'era felice. Eppoi Vittorio, da bel principio, s'era messo a dimostrarle un grande rispetto. Infine, sempre intenta a foggiare certe forme con un intruglio di pasta e di frutta, aggiunse:

— È mio dovere di restare con mia figlia. Non si può fare altrimenti.

Con una certa ansia tentai di convincerla. Le dissi che poteva benissimo liberarsi da tanta schiavitù. Non c'ero io? Avrei continuato a passarle il mensile che fino ad allora avevo concesso a Carla. Io volevo oramai mantenere qualcuno! Volevo tenere con me la vecchia che mi pareva parte della figlia.

La vecchia mi manifestò la sua riconoscenza. Ammirava la mia bontà, ma si mise a ridere all'idea che le si potesse proporre di lasciare la figlia. Era una cosa che non si poteva pensare.

Ecco una dura parola che andò a battere contro la mia fronte che si curvò! Ritornavo a quella grande solitudine dove non c'era Carla e neppure visibile una via che conducesse a lei. Ricordo che feci un ultimo sforzo per illudermi che quella via potesse rimanere almeno segnata. Dissi alla vecchia, prima di andarmene, che poteva avvenire che di lì a qualche tempo essa fosse di altro umore. La pregavo allora di voler ricordarsi di me.

Uscendo da quella casa ero pieno di sdegno e di rancore, proprio come se fossi stato maltrattato quando m'accingevo ad una buona azione. Quella vecchia m'aveva proprio offeso con quel suo scoppio di riso. Lo sentivo risonare ancora nelle orecchie e significava non mica solo l'irrisione alla mia ultima proposta.

Non volli andare da Augusta in quello stato. Prevedevo il mio destino. Se fossi andato da lei, avrei finito col maltrattarla ed essa si sarebbe vendicata con quel suo grande pallore che mi faceva tanto male. Preferii di camminare le vie con un passo ritmico che avrebbe potuto avviare ad un poco d'ordine il mio animo. E infatti l'ordine venne! Cessai di lagnarmi del mio destino e vidi me stesso come se una grande luce m'avesse proiettato intero sul selciato che guardavo. Io non domandavo Carla, io volevo il suo abbraccio e preferibilmente il suo ultimo abbraccio. Una cosa ridicola! Mi ficcai i denti nelle labbra per gettare il dolore, cioè un poco di serietà, sulla mia ridicola immagine. Sapevo tutto di me stesso ed era imperdonabile che soffrissi tanto perché mi veniva offerta una opportunità unica di svezzamento. Carla non c'era più proprio come tante volte l'avevo desiderato.

Con tale chiarezza nell'animo, quando poco dopo, in una via eccentrica della città, cui ero pervenuto senz'alcun proposito, una donna imbellettata mi fece un cenno, io corsi senz'esitazione a lei.

Arrivai ben tardi a colazione, ma fui tanto dolce con Augusta ch'essa fu subito lieta. Non fui però capace di baciare la bimba mia e per varie ore non seppi neppure mangiare. Mi sentivo ben sudicio! Non finsi alcuna malattia come avevo fatto altre volte per celare e attenuare il delitto e il rimorso. Non mi pareva di poter trovare conforto in un proposito per l'avvenire, e per la prima volta non ne feci affatto. Occorsero molte ore per ritornare al ritmo solito che mi traeva dal fosco presente al luminoso avvenire.

Augusta s'accorse che c'era qualche cosa di nuovo in me. Ne rise:

— Con te non ci si può mai annoiare. Sei ogni giorno un uomo nuovo.

Sì! Quella donna del sobborgo non somigliava a nessun'altra e io l'avevo in me.

Passai anche il pomeriggio e la sera con Augusta. Essa era occupatissima ed io le stavo accanto inerte. Mi pareva di essere trasportato così, inerte, da una corrente, una corrente di acqua limpida: la vita onesta della mia casa.

M'abbandonavo a quella corrente che mi trasportava ma non mi nettava. Tutt'altro! Rilevava la mia sozzura.

Naturalmente nella lunga notte che seguì arrivai al proposito. Il primo fu il più ferreo. Mi sarei procurata un'arma per abbattermi subito quando mi fossi sorpreso avviato a quella parte della città. Mi fece bene quel proposito e mi mitigò.

Non gemetti mai nel mio letto ed anzi simulai il respiro regolare del dormente. Così ritornai all'antica idea di purificarmi con una confessione a mia moglie, proprio come quand'ero stato in procinto di tradirla con Carla. Ma era oramai una confessione ben difficile e non per la gravità del misfatto, ma per la complicazione da cui era risultato. Di fronte a un giudice quale era mia moglie, avrei pur dovuto accampare le circostanze attenuanti e queste sarebbero risultate solo se avessi potuto dire della violenza impensata con cui era stata spezzata la mia relazione con Carla.

Ma allora sarebbe occorso di confessare anche quel tradimento oramai antico. Era più puro di questo, ma (chissà?) per una moglie più offensivo.

A forza di studiarmi arrivai a dei propositi sempre più ragionevoli. Pensai di evitare il ripetersi di un trascorso simile affrettandomi ad organizzare un'altra relazione quale quella che avevo perduta e di cui si vedeva avevo bisogno. Ma anche la donna nuova mi spaventava. Mille pericoli avrebbero insidiato me e la mia famigliuola. A questo mondo un'altra Carla non c'era, e con lacrime amarissime la rimpiansi, lei, la dolce, la buona, che aveva persino tentato di amare la donna ch'io amavo e che non vi era riuscita solo perché io le avevo messa dinanzi un'altra donna e proprio quella che non amavo affatto!