Lo storia di Eraclio è única
Salute salve e benvenuti alla Storia d'Italia, episodio 135.
Eraclio, l'imperatore che visse troppo.
Quest'episodio è dedicato a Maria Teresa Cacciola, che mi sostiene a livello Leonardo
da Vinci dall'ottobre del 2021.
Grazie di cuore, Maria Teresa.
Nessun mese passa inosservato.
Ringrazio anche i nuovi mecenati, tra i quali Daniele Turnadan e Andrea, che hanno dato
un supporto una tantum, ma di peso.
Grazie ad entrambi.
Ringrazio poi i nuovi arrivati, a livello Leonardo da Vinci, David Bertini e Sergio,
a livello Galileo Galilei e Oliviero.
Ringrazio anche i tantissimi che si sono spostati da Patreon ad IP, Daniele Dituglio, Luigi
Loretti, Luca Vancheri, Cristian Nasuti, David Bertini, Valerio, Andrea Belisari, Pergranat,
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e Andrea Cioffi.
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Negli scorsi episodi, Eraclio ha tentato il tutto e per tutto pur di mantenere in piedi
qualcosa dello stato romano da passare alle nuove generazioni.
Dopo anni trascorsi nell'abbaglio delle sue vittorie, l'imperatore ha riconosciuto il
rischio mortale che correva l'impero.
Ha fatto di tutto pur di mantenere la linea, riorganizzare le difese, dare un'altra possibilità
all'impero.
Eppure, in una storia vecchia come l'impero, di fronte ad un rischio esistenziale, i romani
non si uniscono per respingere l'invasore, ma competono tra di loro per decidere chi
dovrà essere ad affrontarlo.
Le conseguenze saranno devastanti e definitive.
Oggi si conclude la lunga storia di Eraclio.
Che passerà finalmente il testimone?
Lo farà dopo un numero di episodi secondi solo a quelli dedicati al regno di Giustiniano
e Teodora.
Incontrando molti di voi a Roma, Firenze, Torino, Crema, Ancona e Bruxelles per le presentazioni
del miglior nemico di Roma, ho capito che la storia di questo sovrano ha toccato il
vostro cuore, come fece anni fa il mio.
Eraclio ha semplicemente una storia troppo affascinante.
Non ereditò il regno da qualche membro della famiglia.
Dovette prenderselo, in condizioni drammatiche.
Poi in una lotta senza precedenti, dovete difenderlo da nemici che sembravano pronti
a banchettare sul corpo dello stato romano.
Per farlo non si limitò a restare a Costantinopoli mentre altri facevano il lavoro difficile per
lui, ma scese in campo con coraggio e determinazione, mettendo la sua vita al servizio dell'impero.
Non solo, nel farlo rivoluzionò il modo in cui i Romani avevano condotto le guerre
sin dai tempi di Augusto.
Eppure, nonostante tutti i suoi innegabili successi, gli ultimi anni della vita di Eraclio
erano stati una marcia attraverso un fuoco che ardeva con altrettanta violenza, se non
di più di quello persiano.
Eraclio aveva provato a reggere la frontiera, per quanto possibile, ma nessuna delle soluzioni
ritrovate aveva davvero funzionato.
Eppure, prima di salutarlo, vorrei allargare lo sguardo sulle sue ultime decisioni di politica
interna, tutte volte a rafforzare il fronte interno per prepararlo alla dura lotta che
i Romani ora avevano di fronte.
Nel 638, a due anni dagli Armuc, Eraclio e il patriarca Sergio provarono il tutto per
riconciliare la chiesa calcedoniana con quella monofisita, forse sentendo l'urgenza di
compattare il fronte romano.
E' alla fine di quell'anno che Eraclio fece pubblicare l'Ectisis Monotelita, con l'obiettivo
di confermare l'unità religiosa di quello che restava del suo impero.
Gesù aveva due nature, ma una sola volontà divina.
L'aderenza di Eraclio e dei suoi immediati successori a questa politica si deve alla
speranza di recuperare un giorno l'Egitto monofisita, ma va detto che il monotelismo
alla fine divenne genuinamente popolare nell'esercito e tra una parte della popolazione orientale,
portando ad un lungo scontro con l'Occidente, per ora sopito, ma che esploderà di qui a
qualche anno.
Parleremo delle conseguenze della conquista araba e della controversia monotelita nei prossimi
episodi, quando torneremo in Italia per vedere cosa accadrà dopo la morte di Paponorio e
del re de' Longobardi a Rioaldo.
Andando alla sua politica fiscale, come abbiamo visto, Eraclio aveva vietato pagamenti e tributi
agli arabi.
L'imperatore non voleva sovvenzionarne la macchina militare, ma fu costretto a questa
strategia dalla deteriorata situazione finanziaria dell'impero, tornato ai bui e disperati anni
del 619 e 622, quando Eraclio era stato costretto ad impadronirsi dei tesori liturgici e a svalutare
la moneta.
Per esempio, ogni pagamento residuo inviato in Italia fu sospeso, e vedremo che effetto
questo avrà sulle truppe imperiali a Roma.
Nel 640 Eraclio ordinò un censimento di tutto il territorio rimasto all'impero, uno sforzo
notevole in queste condizioni difficili.
L'obiettivo era evidentemente lo stesso di Diocleziano.
Secoli prima.
Trovare il modo di mobilitare ogni risorsa latente dell'impero, in modo da finanziare
la resistenza imperiale.
Ma mentre il suo impero si disfaceva, lo stesso avveniva anche con la salute dell'imperatore,
che soffriva di idropisia, ovvero dell'accumulo di liquidi nel corpo.
Niceforo descrive alcuni dei sintomi dell'imperatore.
Eraclio aveva molto dolore nell'urinare.
Questo crebbe al punto che quando era sul punto di farlo, l'imperatore piazzava una
tavola sul suo addome, altrimenti le sue parti private si volgevano e iurinavano in
faccia.
Il dolore, la malattia e le sconfitte furono interpretati da molti come una punizione divina
per il peccato originale di Eraclio, il suo matrimonio con la nipote Martina, dal quale
erano nati 11 figli, molti dei quali con orribili malattie e diverse dei quali erano già morti.
Noi sappiamo che questi sono tipici difetti genetici, conseguenza di un matrimonio tra
consanguinei, ma per molti tempi sembrò l'ira divina.
Eraclio temeva moltissimo l'evoluzione dell'opinione pubblica, perché questa metteva in dubbio
il futuro della sua famiglia, e in particolare di Martina, la donna camava, e il suo principale
sostegno nella sua tarda età.
Cosa sarebbe successo a lei e ai suoi figli dopo la sua morte?
Nel 537, l'anno dopo Jarmuk, per la prima volta dalla sua scesa al trono, ci fu un tentativo
di congiura, centrato sul figlio illegittimo di Eraclio, di nome Atanaric, un nome che mi
riporta indietro ad un passato gotico.
La congiura fu scoperta e sedata, ma fu forse l'ultima goccia che spinse Eraclio ad abbandonare
la Siria e a tornare nella capitale.
Secondo la tradizione, della quale, lo dico da subito, sono estremamente scettico, l'imperatore
che aveva navigato da Cartagena a Nuova Roma avrebbe sviluppato una tale paura del mare
da far costruire un ponte di barche per attraversare il Bosforo e giungere nella capitale.
È assai più probabile che a Costantinopoli interpretarono come paura del mare la sua
preferenza a risiedere a Jereia, il suo grande palazzo sul lato asiatico del Bosforo.
Poi tutto questo venne distorto in una diceria che giunse alle orecchie dei vari Niceforo
e Teofane, secoli dopo.
A Jereia, Eraclio governò l'impero negli ultimi amari anni della sua vita.
Al di là delle controversie religiose e dell'inarrestabile disastro arabo, la preoccupazione principale
dell'imperatore sembra essere stata appunto la questione della successione, come spesso
accade nel crepuscolo di un regno.
Forse questo vi stupirà, visto che la successione in realtà sembrava una questione decisa da
decenni.
Eraclio Costantino sarebbe diventato imperatore dopo il padre, con il nome di Costantino III.
Il problema era che il nostro Eraclio Costantino era figlio di primo letto di Eraclio, dalla
sua popolare moglie Eudocchia, di origine nordafricana.
Eraclio deve aver temuto per la sua seconda famiglia, quella di Martina, la famiglia dello
scandalo, la famiglia dell'incesto.
È anche possibile che Martina spinse per avere garanzie sul suo ruolo a corte, l'Augusta
era ben consapevole di essere impopolare.
L'imperatore giunse dunque ad un'infelice soluzione, decise di elevare il suo primo
genito di secondo letto, Eraclonas, allo stesso rango di Augusto che ricopriva Eraclio
Costantino, segnalando che intendeva che i due regnassero assieme, nonostante la grande
differenza d'età.
Alla morte di Eraclio, Eraclio Costantino aveva 29 anni, Eraclonas era un ragazzino
di 15 anni.
Leggiamo cosa sostiene la nostra principale fonte su questi avvenimenti, il Patriarca
Niceforo.
Eraclio scrisse un testamento nel quale i suoi figli Costantino e Eraclonas erano da
considerare imperatori di uguale rango e che la sua moglie Martina doveva essere onorata
da loro come madre e Augusta.
Non solo, Eraclio avrebbe pensato anche al mantenimento di Martina, ancora Niceforo.
Diede una larga somma di denaro al Patriarca Pirro, così che non le mancassero fondi qualora
fosse stata allontanata dal palazzo dal suo figliastro, Eraclio Costantino.
Non debbono esserci stati buoni rapporti tra Costantino e la matrigna, come nelle migliori
tradizioni delle fiabe.
Ancora una volta, l'ennesima, siamo di fronte all'incrollabile fedeltà e affetto che
Eraclio dimostrò di fronte alla sua amata, nipote e moglie.
Un affetto durato tutta una vita.
Per l'imperatore sarebbe sicuramente stato molto più semplice consegnare tutto l'impero
a suo figlio maggiore, ma il pensiero di quanto sarebbe potuto accadere alla sua seconda famiglia
complicò una successione che sembrava ormai decisa da decenni.
Eraclio Costantino era stato incornato dal padre nel lontano 613, quando aveva appena
un anno, vale a dire quasi tre decenni prima.
Comunque sia, Eraclio fece a tempo ad assistere alla caduta di Cesarea e al disastro egiziano,
poi infine si spense nel suo palazzo di Iereia l'11 febbraio del 641, nell'amarezza di aver
visto distrutto il lavoro di tutta la sua vita.
Aveva regnato per 31 difficilissimi, epocali anni che avevano segnato una trasformazione
profonda dell'intera civiltà mediterranea.
Sul sua indicazione il suo corpo fu esposto per tre giorni nell'Hagia Sophia, per poi
venire seppellito al fianco di Giustiniano Teodosio Costantino, nel grande sepolcreto
della chiesa dei Santi Apostoli.
Come dobbiamo dunque giudicare Eraclio?
Fu un usurpatore?
Un coraggioso generale che riuscì ad afferrare la vittoria dalle fauci della sconfitta?
Fu l'ultimo grande imperatore della Roma tardoantica o la prepista dei sovrani romano-medievali?
A volte, come valutiamo gli imperatori o i sovrani in generale, dipende molto dal caso.
Antonino Pio è uno dei buoni imperatori, perché visse probabilmente nel più tranquillo
e pacifico periodo della storia romana.
Sospetto che in realtà fosse alquanto incapace.
Non me ne voglia chi lo apprezza e so che c'è un piccolo fan club.
Chi invece eredita situazioni difficilissime e fallisce nel tentativo è presto dimenticato.
Perfino Aureliano, imperatore per appena 5 turbulenti anni, è messo in ombra dalla crisi
del III secolo, fino al punto che il suo regno sembra svanire dalla coscienza dei più.
Eppure fu uno dei più energici, innovativi e importanti imperatori della storia romana.
Sarebbe un po' come valutare dei nuotatori sulla base del solo tempo di nuotata, ma farne
nuotare alcuni in piscina e alcuni in mar aperto.
E alcuni durante una burrasca.
Se dovessimo guardare ai freddi numeri, Heraclio lasciò un impero in una situazione perfino
peggiore di quella in cui versava nel 610, quando prese il potere.
Alla sua scesa al trono, il dominio di Roma era in sostanza identico a quello che consegnò
ai suoi successori, meno la Palestina e, soprattutto, l'Egitto.
Fu quindi un fallimento.
Se inoltre grattiamo sotto alla sua parvenza di legittimità, dobbiamo ricordare che l'usurpazione
di Heraclio, inizialmente, aiutò il nemico persiano.
Sharbaraz e Shahin approfittarono della guerra civile romana per infrangere le difese imperiali,
conquistando la Siria palestina e poi, poco dopo, anche l'Egitto.
Non sarebbe stato meglio se Heraclio fosse rimasto al servizio del padre, a Cartagine?
Sono obiezioni ragionevoli, ma ritengo tutto sommato ingenerose.
È vero che, quando gli Heracli si ribellarono, la frontiera romana ancora teneva alla linea
dell'Ufrate, ma la palla di neve aveva già iniziato a rotolare verso valle, diventando
sempre di più una valanga.
È possibile che le azioni di Heraclio, inizialmente, le accelerarono, eppure non credo che le cose
sarebbero andate molto diversamente se la famiglia di Heraclio non fosse stata iniziata.
Se non si fosse ribellata, qualcun altro l'avrebbe fatto, e non è per nulla certo che il risultato
sarebbe stato migliore.
Focas, come ribadito più volte, era un'aberrazione della politica romana.
Prima o poi qualcuno l'avrebbe corretta.
Più difficile rispondere al quesito riguardante l'eredità di Heraclio.
Fu il suo lungo regno, in definitiva, inutile, visto il risultato?
Io credo di no.
Credo che basti guardare al destino toccato all'impero persiano per sapere quali sarebbero
potute essere le conseguenze di una sconfitta dell'impero romano contro la Persia.
Credo che l'infaticabile capacità negoziale di Heraclio, il suo fiuto politico e le sue
innegabili capacità militari, conseguirono nel 628 o 630 una vittoria che mise l'impero
nelle condizioni di resistere all'ondata araba, a differenza dei persiani.
Certo, Heraclio dovette pagare il terribile prezzo di cedere quasi metà del suo impero
agli arabi, ma così facendo il Basileus Ton Romayon si assicurò che il suo impero sopravvivesse.
Dubito che, senza la sua mano, questo sarebbe stato possibile, ed è raro che giudichi un
imperatore capace di fare davvero la differenza nella storia.
C'è chi ha voluto criticarne le decisioni militari e politiche negli ultimi anni della
sua vita.
Avrebbe potuto fare di più e di meglio?
Probabilmente sì.
Gli strateghi da scrivania possono sempre trovare un piano migliore, a patto di avere
a disposizione più informazioni, più tempo e più prospettive che Heraclio potesse avere
sul momento.
Ecco come Warren Traggold commenta questo fattore, in delle parole che sottoscrivo ampiamente.
Pur con il senno di poi, non è possibile determinare se la risposta misurata di Heraclio
all'invasione araba fu un enorme errore, un errore veniale o niente affatto un errore.
In qualunque caso, si trattò della decisione di uno stratega intelligente, informato ed
esperto.
Lì dove secondo me la sua eredità è davvero piuttosto negativa, è nella decisione, all'ultimo
minuto, di complicare una successione già organizzata e pianificata da tempo.
La sua indecisione, il voler lasciare l'impero ad entrambe le sue famiglie, portò inevitabilmente
ad una crisi di legittimità, una crisi politica che sarà il vero ultimo chiodo infisso nella
bara della superpotenza romana.
Alla fine però, quello che resta di un sovrano, al di là dei successi e delle sconfitte,
è la sua storia.
E la storia di Eraclio è una delle più appassionanti vicende che abbia mai coperto.
È la storia di come un usurpatore partito da Cartagine sia riuscito a prendere il potere,
a resistere contro l'alleanza avaropersiana, giungendo a combattere una guerra come i romani
non l'avevano mai combattuta, in movimento, ad un solo passo dalla distruzione, in viaggio
nel cuore del nemico, in un'anabasi emozionante ed eroica.
La storia di Eraclio ci colpisce perché non ha nulla del freddo e calcolatore giustiniano,
non è una marcia per la pura conquista del potere, come i decenni di Costantino, non
è una piuttosto noiosa riforma a fondo del sistema statale, come la storia di Diocleziano.
È una vicenda eroica, e gli eroi sono sempre appassionanti.
In definitiva, per Eraclio vale quello che molti prima di me hanno detto.
La sua condanna fu di vivere troppo a lungo.
Se fosse morto nel 630, sarebbe passato la storia come uno dei più grandi imperatori
romani, lasciando l'ignominia di Jarmuk a qualcun altro.
Ma Eraclio visse, e la sua vicenda da eroica diviene tragica.
Gli antichi greci avrebbero detto che Eraclio attrasse su di sé lo psonos tonteon, l'invidia
degli dei.
Come ogni tragedia che si rispetti, il coro, sul finire della sua vita, intona un duro
lamento per celebrarlo.
Al di là quindi della lunghezza della sua vita, di quello che fece, o avrebbe potuto
fare, vorrei giudicarlo per chi fu.
Secondo la leggenda, Phocas avrebbe chiesto ad Eraclio, poco prima di essere ucciso,
Riuscirai a governare l'impero meglio di me?
Per me la risposta non può essere che un enfatico sì.
Guardando indietro, forse devo tornare fino ad Anastasio per trovare un imperatore romano
che apprezzi in uguale o superiore misura.
Che neanche un imperatore con tante qualità sia riuscito a fermare il declino dell'impero
di Giustiniano è testimonianza che la crisi aveva radici assai profonde, affondando nella
decisione di Giustiniano di espandere troppo i confini dell'impero e nelle conseguenze
di lungo periodo dell'arrivo di Girsinapestis o del distruttivo ciclo di guerra tra persiani
e romani inaugurato da Giustiniano e Cosro I.
In definitiva, al di là delle sue qualità, il destino di Eraclio era quello di diventare
l'ultimo Augusto che vide l'impero come la superpotenza del Mediterraneo.
In questo non è tanto il primo imperatore bizantino, come stato spesso chiamato, ma
l'ultimo imperatore della Roma antica, da qui in poi, anche per Costantinopoli, sarà
il Medioevo.
Dopo che Eraclio raggiunse i suoi predecessori nel regno di Dio, si scatenò immediatamente
la lotta per la successione.
La nuova corte di Costantino era formata da diversi uomini e donne potenti, divisi in
neri e verdi come i Targaryen di House of the Dragon.
Da una parte la famiglia di Eraclio Costantino, chiamiamoli i neri, sostenuti dal ministro
delle finanze Filagrio e dal generale Valentino, potente magister militum per Orientem.
Costantino III, come da ora in poi chiamerò Eraclio Costantino, aveva due figli.
Il più grande si chiamava Teodosio, ma quello che dovreste ricordare è Eraclio.
Eh, lo so, un altro Eraclio.
Per fortuna Eraclio il nipote aveva anche il nome di Costante.
A quest'epoca il piccolo Eraclio Costante aveva appena dieci anni.
Fate un piccolo cerchio mentale attorno al suo nome.
I verdi erano invece la fazione dell'Augusta Martina, il cui principale sostenitore era
il Patriarca Pirro, che era succeduto a Sergio nel 638.
Martina ovviamente poggiava tutta la sua autorità a governare su suo figlio Eraclonas, coagusto
di nome se non di fatto e ufficialmente l'erede di Costantino.
Anche lui portava ufficialmente il nome di Eraclio, quindi Eraclio II, perché Eraclonas
era solo un soprannome che però è quello più conosciuto agli storici.
Ho fatto più volte riferimento al Patriarca Niceforo come fonte, forse è arrivato il
tempo di introdurlo meglio.
Contofane, Niceforo il confessore, è una delle nostre fonti principali per il VII e
l'VIII secolo.
Si tratta del Patriarca di Costantinopoli all'inizio del IX secolo, tra l'806 e l'815.
Niceforo non fu solo testimone degli avvenimenti, torneremo alla sua storia quando sarà uno
dei principali difensori delle icone a Costantinopoli, contro l'iconoclastia di Leone V.
L'imperatore lo fece deporre perché si opponeva alla sua politica religiosa.
Niceforo passò dunque il resto dei suoi giorni in esilio in un monastero, dove scrisse diverse
opere, due delle quali sono storiche.
La prima è una cronologia universale, con la lista dei re Ptolomei dell'Egitto, dei
re della Persia e di tutte le imperatrici e gli imperatori romani.
La seconda era conosciuta in occidente con il suo titolo latino di breviarium, o storia
breve.
Niceforo, per la sua epoca, è uno storico piuttosto attento, anche se estremamente influenzato
dalla sua agenda politico-religiosa.
La sua storia rispetta il titolo, ed è quindi piuttosto scarna, mancando i dettagli di un
teofilatto simocatta, per non parlare di Procopio, ma almeno mantenendo un flusso storico abbastanza
comprensibile.
La sua fonte principale per quest'epoca è il generale romano detto Traiano il Patrizio,
che visse l'epoca dell'imperatore Giustiniano II, e scrisse una storia, ahimè andata perduta,
probabilmente di buona qualità.
Ecco quanto Niceforo ci narra, con insolita dovizia di particolari, a proposito delle
ore immediatamente successive al funerale di Eraclio.
L'Augusta Martina convocò il patriarca Pirro e i dignitari della corte, ordinando un'assemblea
del popolo.
Mostrò il testamento di Eraclio e le sue decisioni a riguardo di lei e dei suoi figli.
Tutti i presenti acclamarono dunque Costantino e Eraclonas ai imperatori.
Martina, però, affermò che, in quanto Augusta, aveva la precedenza sugli imperatori.
Molti dei presenti, però, protestarono, dicendo
«Tu hai gli onori dovuti alla madre degli imperatori, ma non sono loro ad essere i nostri
signori».
Molti omaggiavano in particolare Costantino, perché a causa della sua età era stato il
primo ad essere nominato Augusto quando era ancora un bambino.
Inoltre aggiunsero «Non puoi, oh nostra signora, ricevere barbari e diplomatici stranieri che
arrivano a palazzo e conversare con loro».
Poi scesero dai loro seggi e acclamarono gli imperatori.
Quando Martina udì queste cose si ritirò nel suo palazzo.
Questo passaggio è particolarmente significativo perché è un'illustrazione, seppur distante
e probabilmente distorta nel tempo, di una tipica contesa per la successione a Costantinopoli.
Nella tradizione romana quello che conta è la legge e l'accordo tra popolo, chiesa,
senatori ed esercito.
Noto in questo, ancora una volta, le origini repubblicane del governo imperiale romano.
Gli imperatori sono tali per consenso, non per diritto divino, come sarà il caso degli
imperatori occidentali e poi dei vari re medievali dell'Europa Latina.
Dagli eventi mi pare di ricostruire che Martina fece un tentativo di mantenere su di sé il
controllo dello Stato, ma questo gli fu impedito dalla maggior parte dei senatori presenti,
che tra le altre cose non apprezzavano il ruolo diplomatico che evidentemente Martina
aveva avuto recentemente.
Come vedremo, l'Augusta caldeggiava una nuova politica estera.
Era giunta infatti alla conclusione che occorresse negoziare con gli arabi, trovando un accomodamento
che interrompesse l'emoragia in Oriente.
Come abbiamo visto nello scorso episodio, la notizia della successione imperiale convince
la guarnigione di Babilonia a fare armi e bagagli e abbandonare la fortezza in direzione
di Alessandria.
La crisi in Egitto fu il primo banco di prova della nuova amministrazione.
Costantino III vole seguire la linea politica del padre, inviando rinforzi in Egitto e ordinando
ad Alessandria di resistere.
Non era in teoria una politica folle.
I romani erano ancora totali padroni del Mediterraneo, il nascente califato non aveva ancora una flotta
e quindi i romani potevano rifornire la grande metropoli dal mare, se necessario.
Eppure Costantino III aveva appena iniziato il suo florido regno che questo si interruppe
bruscamente.
Niceforo ci informa che Costantino era afflitto da tempo da una malattia cronica.
Quando fu chiaro che l'imperatore non sarebbe sopravvissuto a lungo, il sacellario Filagrio
della fazione che ho definito dei Neri consigliò di concedere un enorme donativo all'esercito,
con l'obiettivo di consolidare la presa dei Neri sugli eserciti imperiali.
Niceforo ci informa che furono ellargite 2 milioni e 16 mila monete d'oro all'intero
esercito, pari a circa un quarto del budget imperiale ai tempi di Giustiniano e probabilmente
più della metà di quello attuale.
Due milioni e rotte di monete d'oro era una spesa enorme, ancor più rilevante considerando
che l'impero era in gravissime condizioni finanziarie e non se la poteva davvero permettere.
Ahimè, come spesso accade, le necessità politiche del momento sopravvanzarono i dettami
del buon amministratore.
Il governo di Costantino III si comportò quindi come un governo della prima repubblica
che promette baby pensioni a chiunque pur di vincere le elezioni.
Tanto pagano i posteri, cioè noi.
Tutto fu comunque vano.
Nel maggio del 641 Costantino morì inaspettatamente.
Il nostro principe di Galles, che aveva atteso decenni la sua ora, aveva governato appena
quattro mesi.
I neri non persero tempo a mettere in giro voci che Costantino fosse stato avvelenato
per ordine dei Verdi di Martina.
D'altronde il veleno non è un'arma di donna.
Questo almeno secondo gli storici antichi.
Tofane e altre fonti occidentali sono di questa opinione, ma non Niceforo.
Quanto a me non so cosa pensare.
Effettivamente sembra una morte molto sospetta, anche se c'è di mezzo una malattia cronica.
Quel che è certo è che portò ad un immediato cambio di regime e di politica estera.
Martina infatti non sprecò un secondo.
Heraclonas era ora il legittimo erede di Heraclio.
La fazione che ho definito dei Verdi si impadronì del potere con un veloce colpo di mano.
A comandare l'impero da questo momento in poi sarà Martina, la prima volta che una
donna governava Costantinopoli dai tempi della pazzia di Giustino II.
Martina cercò immediatamente di isolare i suoi nemici.
Filagrio fu esiliato in Libia.
La famiglia di Costantino III fu messa agli arresti domiciliari, anche se in suo onore
Martina non fece del male ai figli di Costantino III.
Al di là dei suoi sentimenti, imperscrutabili, va detto che comunque la popolazione di Costantinopoli
avrebbe certamente reggito molto negativamente se si fosse torto un capello ai loro principi.
Martina rispedì immediatamente il patriarca Ciro in Egitto, una mossa chiaramente distensiva
verso gli Arabi.
Ciro era uno dei grandi fautori della trattativa con Amr, l'emiro arabo che assediava la grande
metropoli di Alessandria.
Ma i Verdi non avevano fatto i conti con gli eserciti deneri.
In Oriente, appena il magister militum Valentino apprese la notizia di quanto era avvenuto,
ordinò ai suoi uomini di marciare sulla capitale.
Nessuno si rifiutò, d'altronde erano stati rimpinzati d'oro dal precedente regime, guadagnatosi
quindi la loro fedeltà alla causa dei neri.
Nel farlo, Valentino abbandonò la difesa della frontiera orientale.
Non a caso in questi anni iniziano i raid arabi verso l'alto piano anatolico.
Valentino marciò fino a Calcedonia, flettendo i muscoli per far capire che intendeva essere
parte della contessa politica.
Militarmente il suo esercito non poteva impensierire la capitale, almeno fin tanto che la flotta
romana rimaneva fedele al governo ufficiale.
Quello che però dovete considerare era che Valentino era consapevole di non poter conquistare
Costantinopoli.
Non era quello il punto.
Come Eraclio e Focas prima di lui, l'obiettivo non era prendere la città con la forza, ma
dimostrare ai senatori, ai capibastoni del popolo, dei verdi e dei blu, che c'era un'alternativa
al governo di Martina, se solo volevano coglierla.
La città voleva coglierla.
Le solite abili mani organizzarono una rivolta popolare, che minacciò il palazzo imperiale,
chiedendo a gran voce che i figli di Costantino III fossero elevati al trono.
Non sappiamo perché, ma la folla snobbò Teodosio, il figlio maggiore, e si concentrò
invece sul bambino di dieci anni che presto prenderà il nome di Costante II.
Martina, di fronte al rischio di venire linciata e con un generale accampato a Calcedonia,
decise di ammorbidire la folla, elevando al rango di Augusto il giovane figlio di Costantino
III, incoronato da Patriarca Pirro, Augusto dei Romani.
La folla però continuò, nelle seguenti settimane, a tiranneggiare l'imperatrice che, passo
dopo passo, fu costretta a rimangiarsi tutte le sue decisioni e a perdere i suoi sostenitori.
La folla chiese che il Patriarca Pirro fosse deposto.
Pirro fu costretto a fuggire in esilio a Cartagine.
In futuro lo rincontreremo lì, perché la storia di Pirro non è ancora terminata.
Il seguente passo dell'umiliazione di Martina era comunque dietro l'angolo.
Su pressione della folla e dei senatori, l'imperatrice fu costretta a richiamare Filagrio dal suo
esilio in Libia, mentre Valentino fu nominato al posto di Comes Ex Cubitorum, il conte della
guardia.
Non fu comunque sufficiente.
Il Senato decise di intervenire e mobilitò le forze dei Blu nel circo.
Un'iscrizione è stata trovata di Istanbul che confermerebbe questo interessante dettaglio.
Il palazzo imperiale fu circondato e le truppe di Valentino ebbero l'autorizzazione ad entrare
in città.
Martina e De Raclonas furono arrestati.
I congiurati, Senato e Valentino assieme, decisero però di non condannarli a morte.
L'intera famiglia di Martina fu esiliata a Rodi.
A quanto pare però, per squalificarli da qualunque ruolo futuro nel governo dell'impero,
la lingua di Martina e il naso di De Raclonas furono tagliati.
Si tratta del primo caso attestato per questa menomazione, diventata poi celebre sotto il
regno di Giustiniano II, il Senzanaso.
La lotta politica romana restava brutale, ma almeno si può dire che la morte non era
più la condanna automatica inflitta ad ogni perdente.
Il colpo di stato di Valentino era stato agevolato e appoggiato dall'elite senatoriale costantinopolitana,
che coronò in questo modo una progressiva scesa che l'aveva vista sempre più importante
nei passaggi di potere degli ultimi decenni.
Tanto per sventire la solita storia che vuole il Senato come ininfluente.
A celebrare il tutto, il giovane Costante II fu chiamato a leggere un discorso nel quale
fissava per sempre la versione ufficiale dei fatti, almeno secondo i vittoriosi neri, e
nel quale affermava di voler da ora in poi regnare in accordo e con il consiglio degli
uomini potenti del Senato, una cosa che succedeva di solito solo quando era il Senato a decidere
l'imperatore.
Ecco il suo discorso, come riportato da Teofane.
Mio padre Costantino, che mi ha generato, ha regnato per un lungo periodo come coimperatore
assieme al padre, cioè mio nonno Eraclio, e, dopo la sua morte, per un brevissimo tempo
da solo.
Per l'invidia della matrigna Martina, le sue belle speranze furono bruscamente interrotte.
Martina lo privò della vita.
Avete dunque preso una giusta decisione, di ispirazione divina, nel togliere a lei e a
suo figlio la dignità imperiale.
Avete evitato che l'impero romano fosse governato in modo illegale, come sa bene sua magnificenza.
Qui Costantino si riferisce probabilmente al presidente del Senato, con una figura retorica
che mi ricorda come i parlamentari inglesi si riferiscano sempre a Mr Speaker.
Costante termina poi con un'affermazione importante per i senatori, la conferma che il suo governo
sarà collegiale.
A tal fine vi invito tutti ad essere i miei esperti consiglieri per quanto riguarda il
bene comune dei nostri sudditi.
Ora c'è da dire qualcosa di importante sul nome del nuovo sovrano, che ci accompagnerà,
vedrete, per diversi decenni.
In greco questo era Constas, che quindi viene tradotto in italiano con Costante.
Eppure in tutte le sue monete con le scritte in latino, Constas è riportato con il nome
di Constantinus, Costantino.
E sembra che questa fosse l'associazione che i romani cercavano, perché nelle primissime
missioni monetarie a nome di Costante II, sul verso, appare l'imperatore con l'anticola
barum, lo standard utilizzato dai primissimi imperatori cristiani, con la scritta Entutonica,
in questo segno vinci.
La scritta che Costantino avrebbe visto in cielo all'alba della battaglia di Ponte Milvio
e che è di solito tradotta in latino con il celebre In hoc signo vinces.
Che bel modo di tornare all'inizio del nostro podcast.
Come al solito, le monete sono la radio e la televisione dell'epoca premoderna.
Con questo conio il nuovo governo affermava la sua volontà di tornare a Costantino, alla
guerra nel nome della croce, al rinnovamento dell'impero dopo diversi difficili anni.
L'obiettivo?
Ovvio, sconfiggere i miscredenti nuovi invasori arabi.
I romani non capivano esattamente in cosa credessero davvero gli arabi, ma era già
chiaro che rifiutavano la croce e la divinità di Gesù.
Tanto bastava per chiamare lo stato romano alla guerra santa.
Nell'aula del senato si era celebrata la decisione finale e fatale dello stato romano.
Il senato, l'esercito e l'imperatore avevano infine deciso di resistere con tutte le loro
forze agli invasori, mettendo da parte la trattativa di Martina.
Lo avevano fatto anche se la lotta risultava impari.
Diodaltronde lo sentivano.
Era dalla loro parte.
E Roma non si arrende mai.
Se guerra santa doveva essere, l'inizio non fu affatto propizio.
Ciro, durante la tormenta a Costantinopoli, era tornato ad Alessandria e si era messo
allacremente al lavoro per negoziare una fine onorevole del dominio romano in Egitto.
Su indicazione di Martina, Ciro si accordò con l'emiro Amr e consegnò la città nel
novembre del 641, quasi certamente contro il volere del nuovo regime a Costantinopoli,
che fu informato solo dopo i fatti.
Gli arabi, come a Babilonia, permisero ai soldati romani di evacuare la città.
Gli abitanti di Alessandria, secondo Giovanni di Nicchiu, erano furiosi con Ciro perché
aveva abbandonato la loro città agli arabi senza combattere, ma c'era poco che potessero
fare in questo frangente a riguardo.
Amr completò l'anno seguente le sue conquiste, per ora inviando colonne di soldati verso
l'occidente per prendere il controllo della Cire Anaica e di parte della Libia, fino a
Tripoli.
A quanto pare l'esarca di Cartagine, Gregorio, pagò gli arabi pur di evitare che si espandessero
ancora verso Cartagine.
Per ora l'esarcato d'Africa sopravvisse.
La notizia della caduta di Alessandria giunse a Costantinopoli nell'inverno del 641.
I romani registrarono la sconfitta, ma non si arresero a lasciare l'Egitto in mano agli
arabi.
Per ora, però, la priorità andava alla frontiera orientale, che era diventata ormai una fragile
linea di contatto lungo la catena del Tauro e i monti dell'Armenia.
Valentino decise di recarsi ad oriente per cercare di cauterizzare la ferita.
Prima di partire per la campagna, però, imposa al giovane imperatore di sposare sua figlia
Fausta, evidente il suo desiderio di giocare allo stilicone con il suo Onorio.
Non sapeva che Costante II era di una pasta decisamente diversa da Onorio.
Valentino cercò di bloccare le razzie che il governatore arabo della Siria, Muawia,
aveva lanciato verso l'altipiano anatolico, mentre la difesa del fronte armeno fu affidato
ad un nuovo comandante della regione, Teodoro Sergiu Tuni, che in sostanza divenne il capo
dell'Armenia ormai semi-indipendente e alleata dell'impero.
Purtroppo nel 640 gli arabi erano riusciti a prendere la grande città di Dvin, saccheggiata
pochi anni prima da Heraclio e di nuovo messa soqquadro dagli arabi.
Teodoros riuscì comunque ad avere la meglio in una battaglia nel 643, nella quale 3000
delle migliori truppe d'elite del califato persero la vita.
Il successo permise all'Armenia di restare fuori dall'orbita degli arabi, per ora, e
valse a Teodoros la nomina da parte di Costantinopoli a re di tutti gli armeni.
Per la prima volta dal 634 gli arabi erano stati fermati in un quadrante dell'impero.
In contemporanea tra il 642 e il 643 si disfaceva ciò che restava dell'impero persiano.
Come abbiamo visto, gli arabi avevano stabilito due città guarnigioni in Mesopotamia, Bosra
e Kufa.
Da qui, a partire dal 640 in poi, partirono una serie di missioni di conquista, razzia
e distruzione che fecero piovere devastazioni su tutto l'altopiano iranico.
Per la prima volta dai tempi di Alessandro Magno, un conquistatore straniero si sarebbe
impadronito di queste terre.
La mossa più ambiziosa fu la missione che partì da Kufa e che penetrò nell'altopiano
iranico sulle orme del Grande Macedone, seguendone il percorso a mille anni di distanza.
Gli arabi, in questo caso, erano a caccia di Yesdegar III, il sovrano persiano che si
era rifugiato sull'altopiano per riorganizzare la resistenza persiana.
Sebeos ci informa che qui si combatté una grande battaglia campale.
Chiaramente i persiani, a differenza dei romani, non avevano appreso la lezione.
La battaglia durò ben tre giorni, ma alla fine giunse notizia che stava arrivando un
nuovo esercito arabo in supporto.
I persiani persero le speranze e si diedero alla fuga, mentre gli arabi ne approfittarono
per massacrare ogni uomo che trovassero per strada capace di portare armi, terrorizzando
la popolazione.
Secondo Sebeos, gli arabi inviarono spedizioni di conquista in tutte le direzioni, catturarono
ventidue fortezze e in ogni caso misero a morte ogni persona che vi si trovava.
Yesdegar, sconfitto ancora una volta, fu costretto a ritirarsi ancora di più verso l'interno,
mentre buona parte dell'Iran occidentale era ormai sotto il controllo degli arabi.
Da Bosra, gli arabi attaccarono invece le regioni dell'Iran meridionale.
Una delle principali battaglie si combatté nell'assedio di Shushtar.
Questa città è nota per essere il luogo in cui furono esiliati i romani, catturati
nel III secolo dopo la disastrosa Battaglia di Edessa, nella quale Valeriano fu catturato
dai persiani con buona parte del suo esercito.
Qui i romani avevano costruito il loro ponte sul fiume Kuei, il Bande Kaisar, il ponte
del Cesare, un'enorme diga ponte lunga 550 metri, le cui rovine sono ancora visibili
al giorno d'oggi e sono ancora impressionanti.
Presa Shushtar, gli arabi proseguirono verso sud-est.
La cronaca del Kuzistan, che ho già ricordato altrove, ci narra di come gli arabi giunsero
perfino nel cuore ideale della dinastia sassanide.
I nomadi mossero rapidamente per mettere sotto assedio Susa e in pochi giorni la catturarono,
mettendo a morte chiunque era lì dentro.
Si impadronirono di una chiesa che c'è lì, chiamata Mardaniel, e presero il tesoro che
vi era custodito dai tempi di Ciro e Dario.
Aprirono i sarcofagi d'argento che contenevano le ossa di San Daniele, o secondo altri, dello
stesso re Dario, e se le portarono via.
Evidentemente nel far questo, gli arabi stavano dissacrando volutamente la sede stessa dei
casati imperiali persiani, quasi a voler dimostrare che erano loro, ora, i padroni, e che nessuna
divinità ormai proteggeva i destini dei persiani.
Al mondo c'era un solo dio e questi favoriva la conquista araba.
Questi racconti potrebbero essere frutto di esagerazioni, ma è assai probabile che gli
arabi offrirono ai zoroastreani, percepiti come politeisti, un trattamento assai peggiore
di quello impartito ai cristiani monoteisti del vicino oriente.
La cronaca del Kuzistan, scritta da un cristiano nestoriano, lasciò però accesa una piccola
luce, la speranza di chi non si arrendeva agli arabi.
Il trionfo dei figli di Ishmael, che sottomisero e soggiogarono questi due grandi imperi, deriva
sicuramente da Dio.
Eppure, Dio non gli ha ancora concesso il dominio su Costantinopoli, perché la vittoria
finale spetta a lui solo.
In questa frase iniziamo a vedere la nascita di un mito che sarà bruciante per le aspirazioni
universali del califato.
Se Dio davvero vuole che gli arabi controllino l'intero mondo, perché non gli concede la
città per Antonomasia, ovvero Nuova Roma?
Per i cristiani d'Oriente ed Occidente, nei bui secoli a venire, la grande città dei
Romani, ricettacolo di sapienza altrove perduta, sarà un simbolo di resistenza e di orgoglio.
La Minas Tirith contro l'Equimura, neanche le forze di Mordor possono prevalere.
Nei prossimi secoli, il popolo di Gondor dovrà dimostrare tutta la sua tenacia nel resistere
di fronte a forze molto al di là delle proprie.
Nel 643, Muawiyah dimostrò già quanto sarebbe stata difficile la lotta.
Partendo dalla sua base di Damasco, condusse eserciti arabi fin sotto Amorium, una grande
città fortificata romana al centro dell'Anatolia, a due terzi della strada che da Damasco conduceva
a Costantinopoli.
Valentino evidentemente non aveva le forze per opporsi al nemico e non rischiò una nuova
disastrosa battaglia campale, a differenza dei persiani.
Il prezzo da pagare fu però di vedere l'interno dell'Anatolia saccheggiato a volontà dagli
arabi, che tornarono in Siria con un enorme bottino.
I romani si devono essere chiesti, cosa potrà fermarli mai la prossima volta?
Nei prossimi decenni dovranno trovare una dura risposta a questa domanda.
Nel frattempo, coupe notizie giunsero nella capitale anche dall'Italia, ma di questo parleremo
nel prossimo episodio.
Qui basti dire che la situazione per le forze imperiali prese nuovamente a peggiorare.
L'anno seguente, il 644, Valentino provò ad invadere il territorio arabo con una manovra
tenaglia concordata con gli armeni.
La spedizione risultò in un disastro, con Valentino che fu sconfitto e costretto ad
abbandonare il suo tesoro agli arabi.
Tornato in città e sentendo forse che il potere gli sfuggiva di mano, Valentino provò
a consolidare il suo potere prima di essere completamente delegittimato dalle sconfitte.
Con un colpo di mano chiese di essere elevato almeno al rango di Cesare.
Il tentativo fu però bloccato di concerto dal senato e da parte del popolo, al solito
organizzato nelle sue fazioni del circo.
Il popolo finì per invadere l'abitazione di Valentino, che fu linciato vivo, ponendo
fine alla sua breve carriera politica.
In seguito a questi eventi, Costante II iniziò ad esercitare sempre di più de facto la sua
autorità imperiale e finora solo nominale.
E questo pur essendo un ragazzo di appena 15 anni.
Le decisioni militari più importanti erano comunque prese in accordo con i suoi generali,
ma Costante si dimostrerà essere tutto meno che un imbello imperatore.
Non è impossibile che ci fosse già lui, o comunque la sua fazione, dietro il linciaggio
di Valentino, chiaramente un rivale.
Costante, forse per dimostrare di essere ormai un uomo fatte finito, iniziò quindi a farsi
crescere la lunga barba per la quale era ed è conosciuto.
Il suo soprannome infatti è Pogonato, il barbuto.
Se date un'occhiata all'immagine del podcast, vi renderete conto come mai.
Non temete, passeremo lunghi, intensi e complicati anni in sua compagnia.
Vi preannuncio che la sua è una storia ancora più sconosciuta di quella di Heraclio, ma
io penso quasi altrettanto appassionante.
E ha anche a che fare con l'Italia molto di più di quella di Heraclio, come vedrete.
A fine 644 il comandante dei credenti, Umar, poteva guardare alle sue mappe e ritenersi
estremamente soddisfatto.
Buona parte dei due imperi della tarda antichità era ormai sotto il controllo di Medina e del
nascente califato.
Umar aveva stabilito l'embrione dell'amministrazione del nuovo stato, aveva creato una struttura
di comando che funzionava e, per ora, l'enorme afflusso di schiavi e ricchezze dovuta alla
conquista continuava a sopravanzare e, di molto, la capacità del califato di spenderle.
I suoi soldati, la nuova casta dominante dell'Oriente, erano diventati favolosamente ricchi, pertanto
restavano molto ben disposti verso il nuovo governo.
Tutto sembrava andare per il verso giusto, quando Umar incappò in un piccolo problemino
a forma di coltello.
Come narra Teofane, il 4 novembre del 644 accadde l'impensabile.
In questo anno fu assassinato Umaros, il capo dei saraceni.
Fu ucciso da un apostata persiano, che lo trovò in preghiera e gli trafisse lo stomaco
con una spada.
Impossibile verificare davvero cosa avvenne.
Si potrebbe trattare di uno di quegli accidenti della storia che a volte semplicemente accadono,
come per esempio la morte di Attila.
Ora che ci penso, strano che entrambi siano morti e che entrambi fossero dei nemici mortali
dell'impero romano.
Io sospetto sempre qualche agente sin rebus.
Comunque sia, il persiano in questione che aveva condotto l'assassinio era stato fatto
schiavo due anni prima durante la conquista araba della Persia.
Aveva quindi più di una ragione per odiare l'amir Al-Muminun.
Come può darsi che si trattò ovviamente di una congiura interna al mondo arabo.
Comunque sia, a quanto pare Umar non morì immediatamente.
Ancora ferito, ma indeciso su chi nominare come successore, Umar si consultò con Aisha,
la moglie di Muhammad e la figlia di Abu Bakr, e alla fine decise di nominare un consiglio
di sei saggi che avrebbe scelto il successore al suo interno.
Tra queste sei persone c'erano diverse che conosciamo e che forse impareremo a conoscere.
C'era lì il genero di Muhammad, Uthman, della potente famiglia degli Umayadi,
Sa'ad ibn Abi Waqqas, fondatore di Kufa, e infine Zubayr ibn al-Wam,
uno dei protagonisti della futura fitna, la prima guerra civile della Umma.
Comunque sia, per Umar fu l'ultimo atto.
Nel giro di pochi giorni si spense questa enigmatica figura del primo Islam,
già sulla via di diventare una sorta di cona, un santo musulmano.
Umar è, a mio avviso, la figura più importante della conquista araba.
Il processo messo in moto da Muhammad avrebbe forse raggiunto i suoi obiettivi anche senza l'aiuto di Umar.
Tanta era l'energia cinetica accumulatasi in Arabia,
eppure dubito che gli arabi avrebbero ottenuto successi altrettanto spettacolari
se alla loro guida non ci fosse stato un uomo retto, rispettabile, inflessibile e capace come Umar.
Che questo sia vero è facile da dimostrare,
visto che vedremo come le cose andranno tutto sommato molto peggio con il suo successore.
Umar istituì l'ossatura di un nuovo stato della Umma,
quasi sempre riutilizzando i mattoni esistenti dei due imperi,
ricombinandoli per servire gli interessi dei credenti.
Il terzo amir al-Muminun aveva però anche degli innegabili punti oscuri,
messi più alla luce dalla critica moderna.
Non sembra essersi preoccupato affatto della distruzione e dello scombussolamento
che la conquista portavano al mondo antico,
reputando senza peli sulla lingua che gli arabi si fossero meritati il loro bottino
in quanto veri credenti nell'unico dio di Abramo,
e questo a differenza di Muad'Dib, ovvero Polatreides di Tune.
Non concepì affatto il suo impero come qualcosa di multietnico e multireligioso.
Nella sua concezione, l'Umma dei credenti era l'unica cosa che contasse davvero.
Le città, le terre, i popoli conquistati erano destinati a servirla.
Il nuovo impero confessionale dell'amir al-Muminun
doveva essere un'istituzione pia e devota a Dio,
con i Muad'Dirun saldamente al potere.
Umar sembra aver avuto un rapporto tutto sommato molto xenofobico con chi,
tra i conquistati, iniziò a chiedere di far parte della Umma.
Per quanto riguardava Umar, questa era composta dai figli di Ishmael, e loro soltanto.
L'impero arobo dovrà trovare il modo di evolversi
per sopravvivere a questa ideologia xenofobica e isolazionista,
ma ci vorranno molti decenni e il lavoro di diversi altri comandanti decredenti,
nonché tre guerre civili, per giungere all'impero universale e universalistico
del Califato Abbaside, per molti l'epoca d'oro dell'Islam.
E questo è tutto per oggi.
Siamo giunti infine alla chiusura della prima tumultuosa fase della conquista araba,
dieci anni che sconvolsero il mondo, per parafrasare il celebre titolo di John Reed.
Sono i dieci anni del regno di Umar, dai tempi di Augusto,
il primo vero capo di una superpotenza in questa parte di mondo,
a non portare il titolo di imperatore dei Romani.
Ora è tempo di tornare infine, dopo una lunghissima digressione,
alle vicende dell'Occidente e dell'Italia.
Spero sia ormai chiaro perché era indispensabile.
Abbiamo assistito ad uno degli eventi più traumatici della storia mondiale.
Nel prossimo episodio riprenderemo le fila della storia italiana,
partendo dal 636, l'anno della battaglia dello Jarmuk.
Qui parleremo delle decisioni del nuovo re dei Longobardi, il già citato Rotari.
Alla luce delle sconfitte dell'impero romano, cosa fare?
Seguire la politica di Aginulfo, Teodolinde e Ario Aldo?
O passare all'attacco, rischiando di perdere tutto?
Grazie mille per l'ascolto.
Buone notizie.
Vi informo che la prossima puntata uscirà già la prossima settimana,
se riesco a finire l'editing.
Poi mi prenderò tre settimane di pausa, almeno,
perché per due settimane coronerò un sogno di tutta la vita,
un viaggio alla scoperta del Giappone.
Se volete seguire le mie avventure, seguitemi sui social.
Cercherò di fare un racconto giornaliero per poi scrivere sul mio sito un reportage al mio ritorno.
Questa puntata è molto lunga, quindi non ringrazio tutti i miei sostenitori.
Ci diamo appuntamento la settimana prossima, ma ringrazio gli attori del podcast.
Abbiamo come sempre Antonio e Valerio, ma c'è una new entry in Alessandro Falanga.
Grazie Alessandro!
E ovviamente ringrazio come sempre Riccardo Santato per le musiche
e tutti voi per il supporto.
Alla prossima puntata!
Sottotitoli e revisione a cura di QTSS