11. Piacevolezza di Bertoldo. La Regina manda di nuovo a chieder Bertoldo al Re. Bertoldo con una bellissima astuzia...
Piacevolezza di Bertoldo.
A queste parole Bertoldo, scostatosi alquanto dal Re e ritiratosi nella corte, si calò le brache, mostrando di voler fare un suo servigio corporale; laonde, veduto il Re tal atto, gridando, disse:
Re.
Che cosa vuoi tu fare manigoldo?
Bertoldo.
Non dici tu ch'io mi serva della tua corte in ogni mia occorrenza? Re.
Sì, ho detto; ma che atto è questo?
Bertoldo.
Io me ne voglio servire adunque a scaricare il peso della natura, il quale tanto m'aggrava ch'io non posso più tenerlo. Allora uno di quelli della guardia del Re, alzato un bastone, volse percuoterlo, dicendogli: "Brutto poltrone, va' alla stalla dove vanno gli asini pari tuoi, e non fare queste indignità innanzi al Re, se non vuoi ch'io t'assaggi le coste con questo legno". A cui Bertoldo rivolto, disse:
Bertoldo.
Va' destro, fratello, né voler tu fare il sofficiente, perché le mosche che volano sulla testa ai tignosi vanno sulla mensa regale ancora e cacano nella propria scodella del Re e pure esso mangia quella minestra; e io dunque non potrò fare i miei servigi in terra, che è cosa necessaria? E tanto più che il Re ha detto ch'io mi serva della sua corte in ogni mio bisogno? E qual maggior bisogno per servirmene poteva venirmi che in questo fatto?
Intese il Re la metafora di Bertoldo e si cavò di deto un ricco e precioso anello e, volto a lui, disse:
Re.
Piglia questo anello, ch'io te lo dono; e tu, tesoriero, va', porta qui mille scudi ch'io gliene voglio far un presente or ora. Bertoldo.
Io non voglio che tu m'interrompa il sonno. Re.
Perché interrompere il sonno?
Bertoldo.
Perché quand'io avessi quell'anello e tanti danari io non poserei mai, ma mi andarei lambiccando il cervello di continuo, né mai più potrei trovar pace né quiete. E poi si suol dire: chi l'altrui prende, se stesso vende. Natura mi fece libero, e libero voglio conservarmi.
Re.
Che cosa poss'io dunque fare per gratificarti? Bertoldo.
Assai paga, chi conosce il beneficio.
Re.
Non basta conoscerlo solamente, ma riconoscerlo ancora con qualche gratitudine.
Bertoldo.
Il buon animo è compìto pagamento all'uomo modesto. Re.
Non deve il maggiore cedere al minore di cortesia.
Bertoldo.
Né deve il minore accettar cosa che sia maggiore del suo merito.
La Regina manda di nuovo a chieder Bertoldo al Re.
Mentre essi andavano così ragionando insieme, giunse un altro messo da parte della Regina, con una lettera la quale conteneva che il Re gli mandasse Bertoldo per ogni modo, ché, sentendosi ella un poco indisposta, voleva passare il tempo alquanto con le piacevolezze di lui. Ma ciò era al contrario, anzi ch'ella aveva fatto pensiero di farlo privar di vita, avendo inteso che per opera sua quelle matrone avevano ricevuto quello affronto dal Re, per lo quale erano in tanta rabbia che se l'avessero potuto aver nelle mani l'averiano lapidato. Il Re, letta la lettera, prestando fede alle parole della Regina, volto a Bertoldo, disse:
Re.
La Regina di nuovo mi t'ha mandato a domandare e dice ch'essendo alquanto indisposta vorrebbe che tu l'andasti un poco a trattenere e fargli passar l'umore con le tue piacevolezze. Bertoldo.
Anco la volpe talora si finge inferma per trapolar i polastri.
Re.
A che proposito dici tu questo?
Bertoldo.
Perché né tigre, né femina fu mai senza vendetta.
Re.
Leggi qui, se tu sai leggere.
Bertoldo.
La prattica mi serve per libro.
Re.
Sdegno di donna nobile tosto passa via.
Bertoldo.
Le cernici coperte tengono un pezzo calda la cenere.
Re.
Non odi tu le buone parole ch'ella ti manda a dire? Bertoldo.
Buone parole e tristi fatti ingannano i savi e i matti.
Re.
Orsù, chi ha d'andar vada, che l'acqua non è spada. Bertoldo.
Chi è scottato dalla minestra calda soffia sulla fredda.
Re.
Da corsaro a corsaro non si perde altro che i barili vuoti.
Bertoldo.
Una cosa pensa il ghiotto, l'altra il tavernaro. Re.
Il far servizio mai non si perde.
Bertoldo.
Servizio con danno, Dio ti dia il mal anno.
Re.
Non aver paura di nulla nella mia corte.
Bertoldo.
Meglio è esser uccello di campagna che di gabbia.
Re.
Orsù, non ti far bramar più; va' via, perché cosa tanto pregata poco è poi grata. Bertoldo.
Tristo colui che dà essempio ad altrui.
Re.
Chi sta più, vorrebbe star più.
Bertoldo.
Chi spinge la nave in mare sta sulla riva.
Re.
Orsù, va' dove ti mando, e non temere. Bertoldo.
Quando il bue va alla mazza, suda dinanzi e trema di dietro.
Re.
Fa' un animo di leone e va' via arditamente. Bertoldo.
Non può far animo di leone chi ha il cuore di pecora.
Re.
Va' via sicuramente, che la Regina non ha più odio teco, ma s'è passata quella burla in riso. Bertoldo.
Riso di signore, sereno di verno, cappello di matto, trotto di mula vecchia, fanno una primiera di pochi punti.
Re.
Non ti far più aspettare perché ogni tardanza è poi noiosa.
Bertoldo.
Orsù, io vado, poiché tu me lo comandi; vada come si vuole, in ogni modo, o per l'uscio o per la porta bisogna entrarvi. Bertoldo con una bellissima astuzia si ripara dal primo empito della Regina.
Così Bertoldo s'inviò per andare dalla Regina, e avendo inteso come ella aveva commesso ai suoi cagnateri che subito ch'egli giongeva nella sua corte essi gli lasciassero andare tutti i cani incontro, acciò da quelli fusse crudelmente stracciato (tanto era incrudelita verso di lui), nel passare ch'ei fece per piazza vidde per buona sorte un villano il quale aveva una lepre viva, e comperolla, mettendosela sotto il mantello; e quando fu gionto nella detta corte gli furono lasciati i cani, i quali venivano verso lui correndo quasi come affamati, e l'averiano morto e stracciato con i fieri denti. Ma esso, vedendo il gran pericolo nel quale ei si trovava, subito lasciò gir la lepre che egli avea sotto, la quale non sì tosto fu veduta dai cani, che lasciarono stare di morder Bertoldo e si posero a correr dietro alla lepre, com'è lor natura, a tale ch'esso restò salvo e illeso dai crudi morsi di quei fieri cani, e così si ridusse innanzi alla Regina, la quale tutta ammirativa, credendolo morto da quei cani, tutta piena di disdegno e ira gli disse: Regina.
Tu sei qua, brutto assassino?
Bertoldo.
Così non ci fussi come ci sono.
Regina.
Come sei scampato dai denti dè miei fieri cani?
Bertoldo.
La natura ha provisto all'accidente. Regina.
La moglie del ladro non rise semp Re.
Bertoldo.
Chi va al molino, bisogna che s'infarini. Regina.
Chi ha le prime non va senza.
Bertoldo.
A chi tocca leva.
Regina.
A te toccarà a questa volta.
Bertoldo.
Non viene ingannato se non chi si fida.
Regina.
Promettere e non dare, vien per matto confortare.
Bertoldo.
Chi manco può, paga il bo'. Regina.
Chi non gli gioca mal li spende.
Bertoldo.
A chi la va bene, par savio.
Regina.
Andar bestia e tornar bestia è tutt'uno. Bertoldo.
Non bisognava entrarci, disse la volpe al lupo.
Regina.
Pur ci sei venuto tu, che fai l'astuto e il malicioso. Bertoldo.
Pazienza, disse il lupo all'asino: tal va al sposalizio che non va a tavola. Regina.
Ogni tempo viene, a chi può aspettarlo.
Bertoldo.
Ventura, pur che poco senno basta.
Regina.
Dietro il tuono suol venire la tempesta.
Bertoldo.
Il pesce grosso mangia il picciolo.
Regina.
Ogni gallo non conosce fava.
Bertoldo.
Ogni serpe ha il veleno nella coda, ma la femina irata lo tiene per tutta la vita.
Regina.
Tu non camperai del certo questa volta, usa pure quanta malizia tu puoi e sai, ch'io non voglio che tu ti vanti di fare più stratagemme contra le donne. Bertoldo.
Chi non va a una fornata va all'altra, e chi va più presto inganna il compagno; però sbrigarmi in un tratto. In ogni modo, come disse la volpe al villano, se noi campassimo mille anni, noi non ci guardaremo mai più di buon occhio, né sarà buon stomaco fra di noi.