Stagione 4 - Episodio 7
Siamo nell'estate del 1979, e negli Stati Uniti la situazione è grave. È in corso una pesante crisi energetica: il petrolio messo in commercio è sempre di meno, e sempre più caro. Le stazioni di servizio sono quasi tutte chiuse, in giro per il paese. Le poche che sono ancora aperte vendono la benzina a prezzi astronomici, e hanno code lunghe chilometri: il governo ha deciso che si potrà fare rifornimento solo a giorni alterni, per razionare il carburante. Nel frattempo gli scaffali dei supermercati sono ogni giorno più vuoti, perché il costo del carburante sta facendo scioperare gli autotrasportatori: e senza autotrasportatori la merce non arriva. L'aumento del prezzo del carburante, poi, ha fatto salire i prezzi di qualsiasi cosa. L'inflazione è cresciuta del 13 per cento. Le cose vanno avanti così da settimane, e non si vede la fine. Le imprese sono in grande difficoltà, i cantieri sono fermi, decine di migliaia di persone sono state licenziate. In un posto come gli Stati Uniti, peraltro, non potersi spostare in macchina vuol dire spesso restare bloccati in casa. Chi doveva viaggiare, ha annullato i propri progetti. Chi doveva sposarsi, ha annullato il proprio matrimonio.
Si attendeva da giorni che il presidente Jimmy Carter parlasse al paese: per rassicurare le persone, ma soprattutto per descrivere i suoi piani per uscire dalla crisi. Un discorso alla nazione era stato fissato per il 4 luglio, il Giorno dell'indipendenza, ma era stato disdetto all'ultimo momento e senza dare alcuna ragione. Per dieci giorni il presidente Carter era sparito dalla circolazione. Sui giornali qualcuno era arrivato a ipotizzare che fosse malato o che fosse scappato all'estero. Poi Carter riapparve, e pronunciò dalla Casa Bianca un discorso che – nelle sue intenzioni – avrebbe dovuto cambiare l'America. Gli anni Settanta erano anni di grande sfiducia e incertezza, e altrettanto grandi contestazioni contro il governo e le autorità. Il caso Watergate aveva mostrato come persino l'istituzione più importante del paese fosse permeabile al malcostume e all'illegalità. La guerra in Vietnam si era conclusa con decine di migliaia di morti e la sconfitta degli americani. La Corte Suprema aveva autorizzato le discriminazioni positive nei confronti dei neri, per aumentare il loro numero nelle università, generando proteste da parte dei bianchi più conservatori; e in giro per il paese nascevano iniziative spontanee contro le tasse e contro le intrusioni del governo federale. Ad aumentare il senso generale di precarietà, la prima stazione spaziale americana, lo SkyLab, era sul punto di schiantarsi rovinosamente sulla Terra.
Jimmy Carter era stato eletto presidente nel 1976 con il Partito Democratico, nelle elezioni successive alle dimissioni di Richard Nixon per il caso Watergate. Carter era un personaggio atipico: già governatore della Georgia, era molto religioso e fuori dai giri che contavano a Washington. Prima di entrare in politica aveva fatto l'agricoltore, coltivando arachidi, e il suo messaggio era molto morale, se non moralista. Era stato eletto dopo essere diventato a sorpresa il candidato del suo partito, e promettendo che – dopo un presidente come Nixon – gli americani sarebbero stati guidati da qualcuno che non avrebbe mai detto bugie. Per mostrare anche simbolicamente le sue intenzioni, subito dopo il suo giuramento al Congresso Carter decise di raggiungere la Casa Bianca a piedi, come avrebbe fatto una persona normale.
Nonostante i buoni propositi, però, il suo mandato fu complicato fin dall'inizio. In un'epoca tutto sommato di collaborazione tra Democratici e Repubblicani, e frequenti accordi tra i due partiti al Congresso, il fatto che Carter fosse un po' alieno al mondo di Washington finì per bloccare molti dei suoi progetti, che non trovavano facilmente alleati e sostenitori. Carter finì per chiudersi un po' a riccio, e per essere guardato con scetticismo anche nel suo partito. Un suo ex collaboratore lo definì “un presidente senza passione”. Nel 1978 nacque un movimento spontaneo per convincere il senatore Ted Kennedy a sfidarlo alle primarie del Partito Democratico. Un anno dopo si cominciò a parlare della possibilità che il suo vice, Walter Mondale, si dimettesse. Il suo tasso di popolarità era al 25 per cento. La situazione era ulteriormente compromessa dallo sgretolamento dell'economia, frutto della crisi del petrolio. Nel 1973 i paesi mediorientali dell'OPEC, l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, decise di tagliare la produzione in modo da far salire i prezzi, e di punire con un embargo le nazioni che sostenevano Israele. Il costo della vita cominciò a crescere, così come l'inflazione. Qualche anno dopo, nel 1979, la crisi si aggravò a causa della rivoluzione iraniana, quando gli ayatollah presero il potere cacciando lo scià, alleato degli Stati Uniti. Il prezzo del petrolio crebbe ancora, con gravi conseguenze in tutto il mondo e quindi anche negli Stati Uniti, che per la loro energia dipendevano dalle importazioni di petrolio. Il prezzo della benzina aumentò moltissimo, facendo aumentare i costi delle merci e del loro trasporto. A un certo punto la stessa benzina cominciò a scarseggiare, e così anche le merci, a causa degli scioperi degli autotrasportatori; le famiglie facevano lunghe code per fare il pieno, trovandosi a volte persino a litigare tra loro, mentre l'inflazione alle stelle faceva rimpicciolire il loro potere d'acquisto. In estate Carter decise di parlare alla nazione con un discorso dallo Studio Ovale, e diede mandato ai suoi collaboratori di preparare una bozza. Quando cominciò a leggere quello che gli avevano preparato i suoi speechwriter, Carter fu estremamente deluso. Era una “lista della spesa”: un elenco di cose che la sua amministrazione aveva fatto e aveva in programma per abbassare i prezzi della benzina, per diversificare le fonti di approvigionamento dell'energia, per tornare a far crescere l'economia. Addirittura Carter poi raccontò che si era addormentato leggendo quel discorso a letto, e la mattina dopo sua moglie confermò il giudizio: questo discorso non è quello che serve in un momento come questo. Carter allora annullò il discorso alla nazione, che era stato già annunciato ai mezzi di informazione, e per dieci giorni sparì dalla circolazione.
Dopo un po' di tempo diventò chiaro che Carter si era rifugiato a Camp David, la residenza di montagna dei presidenti americani, e lì aveva accolto parlamentari e governatori, sindacalisti e imprenditori, insegnanti, storici, attivisti, preti e intellettuali, per discutere con loro della situazione e raccogliere idee e punti di vista. Alla fine di questo ritiro, Carter si convinse che gli Stati Uniti non stavano attraversando semplicemente un momento difficile legato all'energia e al costo della benzina, ma una crisi più profonda, una crisi di identità, una crisi culturale. A dieci giorni dal discorso inizialmente previsto, il 15 luglio del 1979, Carter tornò a Washington e si rivolse dallo Studio Ovale al popolo americano. Il mistero di quei dieci giorni passati in ritiro – in mezzo alla straordinaria situazione in cui si trovava il paese – fece crescere moltissimo l'attesa: quasi 70 milioni di americani si sintonizzarono per seguire il suo discorso in diretta. Dieci giorni fa, volevo parlarvi di nuovo di un tema molto importante: l'energia. Per la quinta volta vi avrei descritto l'urgenza di questo problema, elencando le mie raccomandazioni al Congresso. Mentre mi preparavo a parlarvi, però, ho cominciato a chiedermi la stessa domanda che oggi so preoccupa tanti di voi: perché non siamo siamo stati capaci di lavorare tutti insieme, come nazione, per risolvere questo grave problema energetico? È chiaro che i veri problemi della nostra nazione sono molto più profondi: più profondi delle code per la benzina o del carburante che scarseggia, più profondi persino dell'inflazione e della recessione. E mi rendo conto che ho bisogno più che mai del vostro aiuto.
Carter comincia il suo discorso in un modo tutto sommato convenzionale. Sa che il paese si chiede a cosa siano serviti questi dieci giorni, e quindi è proprio da lì che comincia il suo ragionamento. Poi però prende subito una traiettoria spiazzante, tutt'altro che scontata. Lui sa che le persone si aspettano dal suo discorso delle risposte molto concrete sul costo della benzina, sull'inflazione, sul trasporto delle merci, ma gli dice: guardate che il nostro problema è molto più profondo. È addirittura più profondo della recessione e dell'inflazione. Wow. E quale sarà mai questo problema così grave? Questo problema per il quale il presidente degli Stati Uniti, l'uomo più potente del mondo, ha addirittura bisogno dell'aiuto delle altre persone? Questo problema che sta portando il presidente degli Stati Uniti a questa inedita ammissione di debolezza e di vulnerabilità.
Per prima cosa, in questi dieci giorni ho ricevuto molti consigli. Lasciate che vi legga alcuni di questi, che mi sono appuntato. Un governatore del sud mi ha detto: “Signor presidente, lei non sta guidando il nostro paese, lei sta solo gestendo il governo”. “Lei ormai non vede più le persone comuni”. “Alcuni dei membri del suo governo non sembrano leali nei suoi confronti. Non c'è abbastanza disciplina”. “Non ci parli di politica o dei meccanismi del governo, ma di come dobbiamo lavorare per il bene comune”. “Signor presidente, siamo nei guai”.
Anche questa cosa è piuttosto insolita: nel momento più critico della sua presidenza, e in uno dei momenti più gravi della storia intera del suo paese, Carter comincia a leggere un lungo elenco di commenti, consigli e critiche che ha ricevuto. L'elenco è molto più lungo di quello che abbiamo ascoltato: per ben quattro minuti, una frase alla volta, Carter ripete cose che gli sono state dette in relazione alla crisi energetica, alcune altre molto dure. Quando finisce di recitare questo elenco, sono passati circa otto minuti dall'inizio del discorso. Quasi 70 milioni di persone pendono dalle sue labbra, tutto il mondo lo sta ascoltando, e ancora non si è capito dove voglia andare a parare. Ma ci arriva subito dopo.
Dopo avervi ascoltati, in questi giorni, sono arrivato alla conclusione che tutte le leggi possibili al mondo non potranno aggiustare quello che non va in America. Quindi stasera voglio parlarvi di una questione molto più grave dell'energia o dell'inflazione. Voglio parlarvi di qualcosa che minaccia le fondamenta della democrazia americana. Non credo che le nostre libertà civili e politiche siano minacciate. Resteranno. E non mi riferisco nemmeno alla forza che proiettiamo all'esterno, con la nostra potenza economica e militare senza pari. Questa minaccia è quasi invisibile, non è ordinaria. È una crisi di fiducia. È una crisi che colpisce il cuore, l'anima, lo spirito della nostra volontà nazionale. È una crisi che vediamo nei dubbi crescenti sul significato delle nostre vite e sulla perdita di unità. L'erosione della nostra fiducia nel futuro minaccia di distruggere il tessuto politico e sociale dell'America. Mettetevi per un attimo nei panni degli americani che in quel momento così difficile, con preoccupazioni così concrete sulle loro vite, dopo così tanti giorni di attesa, si sentirono rivolgere un discorso così astratto, quasi filosofico. Alle persone che si chiedevano se sarebbero riuscite a fare il pieno, Carter rispose facendo riferimento al significato della vita, e a una minaccia allo stesso tempo inquietante e impalpabile, descritta addirittura come molto più grave di quello che intanto sembrava già piuttosto grave, e non li faceva dormire la notte. Il tutto con un tono, di nuovo, davvero inedito per un discorso presidenziale. I discorsi dei presidenti spesso celebrano la grandezza degli americani, l'unicità dell'America, la loro capacità di raggiungere ogni obiettivo, di superare ogni ostacolo. Carter invece identifica questa minaccia proprio in una crisi di fiducia. E man mano che procede, nel suo discorso, l'obiettivo delle sue parole viene messo sempre più a fuoco. I sintomi di questa crisi sono tutti intorno a noi. Per la prima volta nella storia del nostro paese la maggioranza della popolazione crede che i prossimi cinque anni saranno peggiori degli ultimi cinque. I due terzi della popolazione non vanno nemmeno a votare. La produttività dei lavoratori americani sta scendendo, così come la nostra disponibilità al risparmiare per il futuro, la più bassa in tutto l'Occidente. Sta crescendo la mancanza di rispetto verso il governo, le chiese e le scuole, verso i media e verso le istituzioni. Con questo messaggio non voglio trasmettervi felicità e non voglio rassicurarvi. Voglio dirvi la verità, e avvertirvi.
Nessuno aveva mai parlato così agli americani. Nessun presidente, investito della risoluzione di un grave problema politico, aveva mai avuto il coraggio o la scelleratezza, secondo i punti di vista, di dire ai cittadini: guardate che il problema non sono io. Il problema siete voi. Siete voi che date per scontata la democrazia e nemmeno andate più a votare. Siete voi che avete perso fiducia nel futuro. Siete voi che mancate di rispetto al governo, ai giornali, alla chiesa.
Qui apro una parentesi, perché questo passaggio ci permette di dire due cose. La prima è che si nota l'atteggiamento un po' moralista di Carter, da vero battista del Sud. La seconda è che queste cose le sentiamo ripetere anche oggi, nel 2020, facendo spesso riferimento al passato come a un'epoca d'oro, in cui tutti erano responsabili e accorti, in cui tutti partecipavano e rispettavano le istituzioni. Ecco, non esiste nessuna epoca d'oro, e in ogni presente si tende inevitabilmente a idealizzare il passato. Ma torniamo al discorso di Carter. C'è un'altra cosa importante che Carter dice agli americani, quando elenca i loro difetti. Siete il popolo che risparmia di meno in tutto l'Occidente. Spendete tutti i soldi che avete.
In questo paese che un tempo era orgoglioso del suo duro lavoro, delle sue forti famiglie, delle sue comunità affiatate, oggi troppe persone tra noi venerano l'autoindulgenza e il consumismo. La nostra identità non è più definita da quello che facciamo, ma da quello che possediamo. In questi giorni però abbiamo scoperto che possedere e consumare non soddisfano il nostro desiderio di significato. Abbiamo imparato che fare scorte di beni materiali non può riempire il vuoto delle nostre vite se non abbiamo fiducia, se non abbiamo uno scopo.
Ecco che quindi Carter affronta di petto la questione. Ed ecco anche il motivo per cui Carter aveva cominciato il suo discorso leggendo le critiche che aveva ricevuto. Perché sapeva che sarebbe arrivato a questo punto, a criticare lui gli americani per i loro comportamenti. Carter dice: sì, certo, abbiamo un problema con l'approvvigionamento dell'energia e tutto quello che ne consegue. Ma aggiunge: siete sicuri che sia solo questo il problema? Siete sicuri che non sia un problema anche tutto quello che consumiamo, tutto quello che spendiamo, il modo in cui – dice – siamo diventati schiavi del possesso? Le sue parole somigliano più a un'omelia che a un discorso politico, e prendono di mira una caratteristica che non è soltanto tipica degli americani, l'ossessione per i consumi, ma che è stata storicamente un punto di forza strutturale dell'economia degli Stati Uniti, creando un mercato grande e florido, con una forte domanda interna di beni e servizi. Siamo a un punto di svolta nella nostra storia. Dobbiamo scegliere tra due strade. La prima è la strada di cui vi ho avvertito stasera, la strada che porta alla frammentazione e all'egoismo. Alla fine di quella strada c'è un'idea sbagliata di libertà, cioè il diritto di avvantaggiarci in qualsiasi modo sul prossimo. È una strada di perenne conflitto tra interessi individuali, e ci porterebbe al caos e all'immobilità. È la strada verso il fallimento. Tutte le nostre tradizioni, tutte le lezioni dei nostri antenati, tutte le promesse del nostro futuro, ci indicano invece un'altra strada. La strada del bene comune e del rinascimento dei valori americani. Quella strada porta a una vera libertà per la nostra nazione e per tutti noi. Risolvere il nostro problema energetico può significare muovere i primi passi su questa strada.
Dopo aver identificato il materialismo e il consumismo come i veri problemi non tanto dell'America ma proprio degli americani, Carter chiede ai suoi concittadini di cambiare stile di vita. Lo fa in modo astratto, ma si capisce cosa intende: consumare meno e in modo più responsabile, non fare scorte inutili nei supermercati, risparmiare qualcosa. A un certo punto Carter gli dice anche che ogni singolo gesto che comporta un risparmio di energia non è solo un gesto di buon senso ma un gesto patriottico.
Il significato di questo messaggio è che un primo modo per risolvere la crisi energetica è consumare meno energia. Qualora vi foste distratti, ve lo ricordo: questo discorso è stato pronunciato da un presidente degli Stati Uniti nel 1979, e non ai giorni nostri.
Sia chiaro, quello di Carter non era un discorso che oggi definiremmo puramente ambientalista. Il punto di vista di Carter era più filosofico che ecologico. Nella sua parte finale, il presidente Carter elencò anche alcune misure di politica energetica che avrebbero dovuto far uscire il paese dalla crisi, rendendolo il più autonomo possibile dalle importazioni del petrolio mediorentale. Tra queste Carter citò l'energia solare, tanto che poco tempo dopo avrebbe fatto installare anche dei pannelli solari alla Casa Bianca; ma citò anche le trivellazioni petrolifere interne, i giacimenti di gas e il carbone. Il suo discorso oggi è molto attuale, ma Carter non ce l'aveva con i combustibili fossili: ce l'aveva con i combustibili stranieri, e con lo stile di vita degli americani che non solo ne richiedeva così tanti, ma gli sembrava addirittura tossico, come un veleno nello spirito nazionale. Alla fine del suo discorso Carter disse che avrebbe chiesto al Congresso di approvare una legge che obbligasse le aziende a dimezzare entro dieci anni la loro dipendenza dal petrolio.
Come ha raccontato alla radio NPR Kevin Mattson, un giornalista americano che ha scritto un libro intero su questo discorso, Carter voleva che l'America si facesse qualche domanda in più, prima di cercare risposte dal governo. Per quanto completamente anomalo, il suo discorso voleva essere un rimprovero positivo: tanto che Carter mise anche in discussione se stesso, le sue abilità, la sua capacità di guidare il paese in un momento così difficile. Forse anche per questo, le prime reazioni furono promettenti. La Casa Bianca ricevette molte telefonate di sostegno, e il discorso fu ben commentato dai giornali. Nei primissimi sondaggi il gradimento della popolazione nei confronti di Carter crebbe di ben 12 punti. Ma fu una reazione che durò molto poco.
Soltanto due giorni dopo il discorso, infatti, Carter diede retta ai suoi consiglieri secondo cui era arrivato il momento di mostrare che alle parole sarebbero seguiti i fatti, e spinse alle dimissioni tutto il suo governo. Sentite ancora Mattson.
Licenziando tutto il suo governo, Carter pensò di cogliere due piccioni con una fava. Da una parte, approfittare di quell'improvviso aumento della sua popolarità per mostrare che si stava dando da fare. Dall'altra, liberarsi di alcuni membri del governo che secondo lui non erano stati leali, e che lo avevano criticato in pubblico mostrando quanto la sua amministrazione fosse litigiosa e divisa. Il problema fu che la notizia del licenziamento di massa di tutto il governo oscurò le reazioni al discorso, e divenne LA storia; inoltre, in qualche modo confermava il fatto che la sua amministrazione fosse litigiosa e divisa.
Col passare dei giorni, poi, anche le opinioni sul discorso cambiarono. Innanzitutto il discorso fu chiamato dai giornali “The Malaise Speech”, il discorso del malessere, nonostante Carter non avesse mai pronunciato la parola “malessere”: sembra che questa parola si diffuse inizialmente da una sintesi del messaggio di Carter che un portavoce fece a un giornalista, spiegandogli che Carter voleva parlare del malessere che attraversava la nazione. L'opposizione riuscì a convincere gli americani che Carter, incapace di fare il presidente e risolvere i problemi, avesse deciso di dare la colpa a loro. In secondo luogo, Carter non riuscì a spiegare davvero come una riduzione dei consumi, per quanto magari guidata da un opportuno sentimento di altruismo e dalla disponibilità al sacrificio, avrebbe dovuto aiutare un'economia in difficoltà, creare nuovi posti di lavoro, far crescere gli stipendi. Questo è un altro motivo per cui il discorso di Carter è così attuale. Sono passati quarant'anni dal discorso del malessere, eppure siamo ancora qui a discutere del fatto che possa esserci o no un'economia più sostenibile ma allo stesso tempo più prospera, che sia possibile ridurre i nostri consumi, quindi comprare di meno, ma allo stesso tempo non perdere posti di lavoro, non perdere gettito fiscale, avere abbastanza ricchezza da poter investire nei nostri servizi pubblici, nei nostri ospedali. Allo stesso modo, sono passati quarant'anni eppure è ancora aperto il dibattito su quale sia il modo migliore per innescare nelle persone comportamenti virtuosi: se sia chiedere dei sacrifici oppure far diventare vantaggiosi e proficui nuovi stili di vita più responsabili. Anche a fronte dello stesso obiettivo, un politico che voglia essere persuasivo dovrebbe chiedere delle rinunce o descrivere grandi ambizioni e sogni? È chiaro che non bisogna scegliere per forza tra questi due opposti, anche se il discorso di Carter fu effettivamente un po' tetro, ma allo stesso modo non è semplice trovare un punto di equilibrio che sia efficace e credibile. Vediamo come andò a finire. La presidenza Carter continuò ad avere grosse difficoltà. Quattro mesi dopo quel discorso ci fu il famoso attacco all'ambasciata americana a Teheran, quando 52 americani furono tenuti ostaggi per ben 444 giorni, logorando l'amministrazione e mostrando tutta la sua impotenza. Come se non bastasse la crisi energetica finì per aggravarsi ulteriormente, quando l'inizio della guerra tra Iran e Iraq nel 1980 portò a un ulteriore calo della produzione di petrolio. Il tasso di approvazione di Carter era sotto terra, tanto che alla fine alle primarie fu effettivamente sfidato da Ted Kennedy. Kennedy poi raccontò che fu proprio il discorso del malessere a portarlo a rompere gli indugi e decidere di sfidare alle primarie un presidente in carica del suo partito, una cosa che si vede raramente, perché pensava che nessun cambiamento positivo potesse avere origine da un messaggio così mesto. Carter vinse le primarie, ma con fatica inedita per un presidente uscente: Kennedy ottenne il 40% dei voti e restò in corsa fino alla fine.
Il Partito Repubblicano scelse di candidare contro Carter l'ex governatore della California, Ronald Reagan, che aveva perso per pochissimo le primarie del 1976 contro Gerald Ford, mostrando già un grande talento. Reagan era l'opposto di Carter, non solo dal punto di vista ideologico: era ottimista, sorridente, carismatico. Era molto più “americano”, se capite cosa intendo. Diceva che Carter preferiva dare ai cittadini la colpa dei suoi errori, invece che prendersi le sue responsabilità, e nell'ultimo discorso della campagna elettorale disse: «Io non vedo nessun malessere in America. Non c'è niente che non vada nel popolo americano». Reagan disse un'altra cosa importante, in quel discorso, per descrivere gli americani: disse che chiunque veda debolezza nella prosperità e divisioni nel rumoroso dibattito pubblico americano commette un grave errore di valutazione, e che gli americani erano ancora in grado di fare sacrifici straordinari, personali e collettivi, per il bene comune. Non so quali tra queste due idee descriva meglio gli Stati Uniti, se quella di Carter o quella di Reagan, ma trovo che ci sia molto di vero in entrambe. Quello che so è che Reagan stravinse le elezioni, stracciando Carter e vincendo addirittura in 44 stati su 50. Una volta arrivato alla Casa Bianca fece rimuovere i pannelli solari installati durante l'amministrazione Carter, e iniziò un'attività di governo che avrebbe cambiato profondamente il paese. Ma questa è un'altra storia.