LIBRO QUARTO (3)
VI. Il furto
Quello scaffale, appena fui solo, mi occupò subito, come un incubo. Proprio come viva per sé ne avvertii la presenza ingombrante, d'antico inviolato custode di tutti gli incartamenti di cui era gravido, cosí vecchio, pesante e tarlato.
Lo guardai, e subito mi guardai attorno, con gli occhi bassi.
La finestra; una vecchia seggiola impagliata; un tavolino ancora piú vecchio, nudo, nero e coperto di polvere; non c'era altro lí dentro.
E la luce filtrava squallida dai vetri cosí intonacati di ruggine e polverosi, che lasciavano trasparire appena le sbarre dell'inferriata e i primi tegoli sanguigni d'un tetto, su cui la finestra guardava i tegoli di quel tetto, il legno verniciato di quelle imposte di finestra, quei vetri per quanto sudici: immobile calma delle cose inanimate.
E pensai all'improvviso che le mani di mio padre s'erano levate cariche d'anelli lí dentro a prendere gl'incartamenti dai palchetti di quello scaffale; e le vidi, come di cera, bianche, grasse, con tutti quegli anelli e i peli rossi sul dorso delle dita; e vidi gli occhi di lui, come di vetro, azzurri e maliziosi, intenti a cercare in quei fascicoli.
Allora, con raccapriccio, a cancellare lo spettro di quelle mani, emerse ai miei occhi e si impose lí, solido, il volume del mio corpo vestito di nero; sentii il respiro affrettato di questo corpo entrato lí per rubare; e la vista delle mie mani che aprivano gli sportelli di quello scaffale mi diede un brivido alla schiena. Serrai i denti; mi scrollai; pensai con rabbia:
«Dove sarà, tra tanti incartamenti, quello che mi serve?»
E tanto per far subito qualche cosa, cominciai a tirar giú a bracciate i fascicoli e a buttarli sul tavolino. A un certo punto le braccia mi s'indolenzirono, e non seppi se dovessi piangerne o riderne. Non era uno scherzo quel rubare a me stesso?
Tornai a guardarmi intorno, perché improvvisamente non mi sentii piú, là dentro, sicuro di me. Stavo per compiere un atto. Ma ero io? Mi risalí l'idea che fossero entrati lí tutti gli estranei inseparabili da me, e che stéssi a commettere quel furto con mani non mie.
Me le guardai.
Sí: erano quelle che io mi conoscevo. Ma appartenevano forse soltanto a me?
Me le nascosi subito dietro la schiena; e poi, come se non bastasse, serrai gli occhi.
Mi sentii in quel bujo una volontà che si smarriva fuori d'ogni precisa consistenza; e n'ebbi un tale orrore, che fui per venir meno anche col corpo; protesi istintivamente una mano per sorreggermi al tavolino; sbarrai gli occhi:
«Ma sí! ma sí!» dissi. «Senza nessuna logica! senza nessuna logica! cosí!»
E mi diedi a cercare tra quelle carte.
Quanto cercai? Non so. So che quella rabbia di nuovo cedette a un certo punto, e che una piú disperata stanchezza mi vinse, ritrovandomi seduto sulla seggiola davanti a quel tavolino, tutto ormai ingombro di carte ammonticchiate, e con un'altra pila di carte io stesso qua sulle ginocchia, che mi schiacciava. Vi abbandonai la testa e desiderai desderai proprio di morire, se questa disperazione era entrata in me da non poter piú lasciare di condurre a fine quell'impresa inaudita.
E ricordo che lí, con la testa appoggiata sulle carte, tenendo gli occhi chiusi forse a frenar le lagrime, udivo come da una infinita lontananza, nel vento che doveva essersi levato fuori, il lamentoso chioccolare d'una gallina che aveva fatto l'uovo e che quel chioccolío mi richiamò a una mia campagna, dove non ero piú stato fin dall'infanzia; se non che, vicino, di tratto in tratto, m'irritava lo scricchiolío dell'imposta della finestra urtata dal vento. Finché due picchi all'uscio inattesi non mi fecero sobbalzare. Gridai con furore:
«Non mi seccate!»
E subito mi ridiedi a cercare accanitamente.
Quando alla fine trovai il fascicolo con tutti gl'incartamenti di quella casa, mi sentii come liberato; balzai in piedi esultante, ma subito dopo mi voltai a guardar l'uscio. Fu cosí rapido questo cangiamento dall'esultanza al sospetto, che mi vidi - e n'ebbi un brivido. Ladro! Rubavo. Rubavo veramente. Andavo a mettermi con le spalle contro quell'uscio; mi sbottonavo il panciotto; mi sbottonavo il petto della camicia e vi cacciavo dentro quel fascicolo ch'era abbastanza voluminoso.
Uno scarafaggio non ben sicuro sulle zampe sbucò in quel punto di sotto lo scaffale, diretto verso la finestra. Vi fui subito sopra col piede e lo schiacciai.
Col volto strizzato dallo schifo, rimisi alla rinfusa tutti gli altri incartamenti dentro lo scaffale, e uscii dallo stanzino.
Per fortuna Quantorzo, Firbo e tutti i commessi erano già andati via; c'era solo il vecchio custode, che non poteva sospettare di nulla.
Provai nondimeno il bisogno di dirgli qualche cosa:
«Pulite per terra là dentro: ho schiacciato uno scarafaggio.»
E corsi in Via del Crocefisso allo studio del notaro Stampa.
VII. Lo scoppio
Ho ancora negli orecchi lo scroscio dell'acqua che cade da una grondaia presso il fanale non ancora acceso, davanti alla catapecchia di Marco di Dio, nel vicolo già bujo prima del tramonto; e vedo lí ferma lungo i muri, per ripararsi dalla pioggia, la gente che assiste allo sfratto e altra gente che, sotto gli ombrelli, s'arresta per curiosità vedendo quella ressa e il mucchio delle misere suppellettili sgomberate a forza ed esposte alla pioggia lí davanti alla porta tra le strida della signora Diamante che, di tratto in tratto, scarmigliata, viene anche alla finestra a scagliare certe sue strane imprecazioni accolte con fischi e altri rumori sguaiati dai monellacci scalzi i quali senza curarsi della pioggia, ballano attorno a quel mucchio di miseria, facendo schizzar l'acqua delle pozze addosso ai piú curiosi, che ne bestemmiano. E i commenti:
«Piú schifoso del padre!»
«Sotto la pioggia, signori miei! Non ha voluto aspettare neanche domani!»
«Accanirsi cosí contro un povero pazzo!»
«Usurajo! usurajo!»
Perché io sono lí, presente, apposta, allo sfratto, protetto da un delegato e da due guardie.
«Usurajo! usurajo!»
E ne sorrido. Forse, sí, un pò pallido. Ma pure con una voluttà che mi tiene sospese le viscere e mi solletica l'ugola e mi fa inghiottire. Solo che, di tanto in tanto, sento il bisogno d'attaccarmi con gli occhi a qualche cosa, e guardo quasi con indolenza smemorata l'architrave della porta di quella catapecchia, per isolarmi un po' in quella vista, sicuro che a nessuno, in un momento come quello, potrebbe venire in mente d'alzar gli occhi per il piacere d'accertarsi che quello è un malinconico architrave, a cui non importa proprio nulla dei rumori della strada: grigio intonaco scrostato, con qualche sforacchiatura qua e là, che non prova come me il bisogno d'arrossire quasi per un'offesa al pudore per conto d'un vecchio orinale sgomberato con gli altri oggetti dalla catapecchia ed esposto lí alla vista di tutti, su un comodino in mezzo alla strada.
Ma per poco non mi costò caro questo piacere di alienarmi. Finito lo sgombero forzato, Marco di Dio, uscendo con sua moglie Diamante dalla catapecchia e scorgendomi nel vicolo tra il delegato e le due guardie, non poté tenersi, e mentre stavo a fissar quell'architrave, mi scagliò contro il suo vecchio mazzuolo di sbozzatore. M'avrebbe certo accoppato, se il delegato non fosse stato pronto a tirarmi a sé. Tra le grida e la confusione, le due guardie si lanciarono per trarre in arresto quello sciagurato messo in furore dalla mia vista; ma la folla cresciuta lo proteggeva e stava per rivoltarsi contro me, allorché un nero omiciattolo, malandato ma d'aspetto feroce, giovine di studio del notaro Stampa, montato su di un tavolino là tra il mucchio delle suppellettili sgomberate in mezzo al vicolo, quasi saltando e con furiosi gesticolamenti, si mise a urlare:
«Fermi! Fermi! State a sentire! Vengo a nome del notaro Stampa! State a sentire! Marco di Dio! Dov'è Marco di Dio? Vengo a nome del notaro Stampa ad avvertirlo che c'è una donazione per lui! Quest'usurajo Moscarda...»
Ero, non saprei dir come, tutto un fremito, in attesa del miracolo: la mia trasfigurazione, da un istante all'altro, agli occhi di tutti. Ma all'improvviso quel mio fremito fu come tagliuzzato in mille parti e tutto il mio essere come scaraventato e disperso di qua e di là a un'esplosione di fischi acutissimi, misti a urla incomposte e a ingiurie di tutta quella folla al mio nome, non potendosi capire che la donazione l'avessi fatta io, dopo la feroce crudeltà dello sgombero forzato.
«Morte! Abbasso!» urlava la folla. «Usurajo! usurajo!»
Istintivamente, avevo alzato le braccia per far segno d'aspettare - ma mi vidi come in un atto d'implorazione e le riabbassai subito, mentre quel giovine di studio sul tavolino, sbracciandosi per imporre silenzio, seguitava a gridare:
«No! No! State a sentire! L'ha fatta lui, L'ha fatta lui, presso il notaro Stampa, la donazione! La donazione d'una casa a Marco di Dio! » Tutta la folla, allora, trasecolò. Ma io ero quasi lontano, disilluso, avvilito. Quel silenzio della folla, nondimeno, m'attrasse, come quando s'appicca il fuoco a un mucchio di legna, che per un momento non si vede e non si ode nulla, e poi qua un tútolo, là una stipa scattano, schizzano, e infine tutta la fascina crèpita lingueggiando di fiamme tra il fumo:
«Lui?» «Una casa?» «Come?» «Che casa?» «Silenzio!» «Che dice?» Queste e altrettali domande cominciarono a scattar dalla folla, propagando rapidamente un vocío sempre piú fitto e confuso, mentre quel giovane di studio confermava:
«Sí, sí, una casa! la sua casa in Via dei Santi 15. E non basta! Anche la donazione di diecimila lire per l'impianto e gli attrezzi d'un laboratorio!
Non potei vedere quel che seguí; mi tolsi di goderne, perché mi premeva in quel momento di correre altrove. Ma seppi di lí a poco qual godimento avrei avuto, se fossi rimasto.
M'ero nascosto nell'àndito di quella casa in Via dei Santi, in attesa che Marco di Dio venisse a pigliarne possesso. Arrivava appena, in quell'àndito, il lume della scala. Quando, seguíto ancora da tutta la folla, egli aprí la porta di strada con la chiave consegnatagli dal notaro, e mi scorse lí addossato al muro come uno spettro, per un attimo si scontraffece, arretrando; mi lanciò con gli occhi atroci uno sguardo, che non dimenticherò mai piú; poi, con un arrangolío da bestia, che pareva fatto insieme di singhiozzi e di risa, mi saltò addosso frenetico, e prese a gridarmi, non so se per esaltarmi o per uccidermi, sbattendomi contro al muro:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Era lo stesso grido di tutta la folla lí davanti la porta:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Perché avevo voluto dimostrare, che potevo, anche per gli altri non essere quello che mi si credeva.