Bartleby (2)
Per mia fortuna, visto che la causa specifica ne era la cattiva digestione, l'irritabilità e il conseguente nervosismo di Pince-Nez si manifestavano soprattutto al mattino, mentre nel pomeriggio era relativamente tranquillo. Quindi, poiché gli attacchi parossistici di Tacchino maturavano soltanto intorno al mezzogiorno, non dovevo mai vedermela con le loro eccentricità contemporaneamente. Le crisi si alternavano, come le sentinelle nei turni di guardia. Quando era in servizio Pince-Nez, Tacchino era in licenza, e viceversa. In quelle circostanze era una buona intesa naturale.
Zenzero, il terzo della lista, era un ragazzotto di circa dodici anni. Il padre, carrettiere, nutriva l'ambizione di vedere, prima di morire, il figlio seduto sul seggio di un tribunale invece che sul sedile di un carro. Ecco perché me lo mandò in ufficio in qualità di studente di legge, fattorino, addetto a pulire e spazzare, al salario di un dollaro alla settimana. Aveva una piccola scrivania per sè, ma non la usava molto. A chi gli ispezionasse il cassetto si parava davanti una collezione di gusci di noce di ogni genere. Per questo ragazzo sveglio, infatti, tutta la nobile scienza del diritto stava in un guscio di noce. Non infima fra le mansioni di Zenzero - e quella che svolgeva con la massima alacrità - era il compito di approvvigionare di dolci e mele Tacchino e Pince-Nez. Copiare documenti legali è proverbialmente un compito arido e secco, ragion per cui i miei due scrivani erano desiderosi di inumidirsi spesso la bocca con mele Spitzenberg che si potevano acquistare in varie bancarelle nei pressi della dogana e della posta. Molto di frequente inoltre mandavano Zenzero a comprare quelle particolari focaccine - piccole, piatte, rotonde, molto speziate - che avevano suggerito quel soprannome. Nelle mattine fredde, mentre il lavoro era torpido, Tacchino ingoiava dozzine di queste focaccine, quasi fossero cialde sottilissime - ne danno addirittura sei o otto per un centesimo - mentre lo scricchiolio della penna si mescolava al rumore della bocca che sgranocchiava quelle focaccine croccanti. Fra i clamorosi sbagli pomeridiani commessi da Tacchino nella sua smania pasticciona ce ne fu uno che per un pelo non mi indusse a licenziarlo: gli capitò di inumidire fra le labbra una cialda allo zenzero e appiccicarla su un'ipoteca a mo' di sigillo. Ma mi intenerì con un inchino di orientale cerimoniosità e con queste parole:
"Con rispetto, signore, è stato un gesto generoso rifornirla, a mie spese, di cancelleria".
Ora la mia attività originaria - quella di redigere atti notarili, di spulciare sulla regolarità dei titoli, di stendere oscuri documenti di varia natura - ebbe un considerevole incremento dopo che fui nominato all'Alta Corte di Equità. C'era quindi molto lavoro per i copisti. Non soltanto dovevo mettere sotto il torchio gli impiegati già con me, ma dovevo procurarmi altro aiuto.
In risposta a un annuncio, una bella mattina, si parò immobile sulla soglia del mio ufficio un giovane - la porta infatti era aperta, perché era estate. Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida! Era Bartleby.
Dopo qualche cenno sulle sue qualifiche, lo assunsi, felice di avere nella mia squadra di copisti un uomo dall'aspetto così singolarmente mite, che - pensavo - forse avrebbe avuto un benefico influsso sull'irrequietezza di Tacchino e l'irruenza di Pince-Nez.
Avrei dovuto già accennare alle porte pieghevoli di vetro smerigliato che dividevano in due il mio ufficio: da una parte c'erano i miei scrivani, dall'altra c'ero io. A seconda dell'umore aprivo le porte oppure le chiudevo. Decisi di assegnare a Bartleby un angolo accanto alle porte pieghevoli, ma dalla mia parte, in modo da avere a portata di voce quell'uomo tranquillo, se, per caso; si fosse dovuto sbrigare qualche lavoretto. Sistemai dunque la sua scrivania in quella parte della stanza, accanto a una finestrina laterale che in origine offriva uno scorcio sul retro, affacciandosi su certi cortili sporchi e muri di mattoni, ma che allora, a seguito di successive costruzioni, non si affacciava più su nulla, sebbene lasciasse entrare un po' di luce. A meno di tre piedi dai vetri della finestra c'era un muro, e la luce veniva da molto in alto, filtrando tra due alti edifici, quasi piovesse dal pertugio di una cupola. Per rendere ancora più soddisfacente la sistemazione, mi procurai un alto paravento verde pieghevole che poteva escludere completamente Bartleby dalla mia vista, pur lasciandolo a portata di voce. Così, in certo modo, convivevano solitudine e compagnia.
In un primo tempo Bartleby eseguì una straordinaria mole di lavoro. Quasi fosse ingordo di avere qualcosa da copiare, pareva volesse rimpinzarsi di documenti. Non c'era pausa per digerirli. Scriveva giorno e notte, copiando alla luce del sole e al lume della candela. Mi avrebbe entusiasmato quella sua dedizione, se fosse stato allegramente operoso. Continuava invece a macinare lavoro in silenzio, esangue, con moto meccanico.
È, naturalmente, parte essenziale del lavoro dello scrivano accertarsi che la copia sia esatta, parola per parola. Se in un ufficio vi sono due o più scrivani, si assistono a vicenda in questo controllo, uno leggendo la copia, l'altro tenendo l'originale. è una faccenda noiosa, spossante, soporifera. Non faccio fatica a pensare che sarebbe intollerabile per un temperamento sanguigno. Non riesco a immaginare, ad esempio, il focoso poeta Byron lietamente seduto insieme a Bartleby a controllare un atto legale di, diciamo, cinquecento pagine, scritte con grafia fitta e raggrinzita.
Di tanto in tanto, se c'era fretta, avevo l'abitudine di aiutare a confrontare qualche breve documento, chiamando allo scopo Tacchino o Pince-Nez. Uno dei motivi per mettere Bartleby così a portata di mano dietro il paravento era stato quello di disporre dei suoi servigi in lavoretti del genere. Era con me, credo, da tre giorni - non c'era stata ancora la necessità di esaminare le sue copie - quando, dovendo completare in gran premura una faccenduola, di punto in bianco chiamai Bartleby. Nella fretta e nella naturale aspettativa di un'immediata obbedienza, me ne stavo seduto con la testa china sull'originale posato sulla mia scrivania, la mano destra di lato, nervosamente tesa nel porgere la copia, in modo che, emergendo dal suo cantuccio, Bartleby potesse afferrarla e procedere all'esame senza il minimo indugio.
In questo atteggiamento sedevo dunque quando lo chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui, cioè esaminare insieme a me un breve documento. Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolino, con voce singolarmente soave, ma ferma, Bartleby rispose: "Preferirei di no".
Rimasi per qualche tempo seduto, trasecolato, in assoluto silenzio, chiamando a raccolta le mie facoltà attonite. Subito mi venne da pensare che gli orecchi mi avessero ingannato, oppure che Bartleby avesse completamente frainteso quello che volevo. Ripetei la richiesta con quanta chiarezza mi era possibile, ma con altrettanta chiarezza giunse la risposta di prima: "Preferirei di no".
"Preferirei di no! ", ripetei in un'eco, alzandomi di furia e attraversando la stanza d'un balzo. "Come sarebbe a dire? Le ha dato di volta il cervello? Su, mi aiuti a controllare questo foglio con l'originale - prenda", e glielo buttai.
"Preferirei di no", disse.
Lo fissai con aria risoluta. Il volto era smunto nella sua compostezza; gli occhi grigi, fiochi e tranquilli. Non una grinza gli increspava il viso. Se ci fosse stato un sintomo anche minimo di disagio, di rabbia, di insofferenza, di impertinenza, in altre parole se ci fosse stato in lui qualcosa di normalmente umano, lo avrei cacciato con brutalità dal mio ufficio. Ma così come stavano le cose, tanto valeva che decidessi di buttar fuori della porta il pallido busto in gesso di Cicerone. Restai a fissarlo per qualche tempo, mentre continuava a scrivere, quindi mi rimisi alla scrivania. "è ben strano", pensai. "Che fare?". Ma il lavoro incalzava: conclusi di dimenticare intanto la faccenda riservandola a un attimo di calma in futuro. Chiamai quindi Pince-Nez che venne dall'altra stanza, e rapidamente controllammo il documento.
Alcuni giorni più tardi Bartleby terminò quattro lunghi atti, altrettante copie di una settimana di testimonianze prestate davanti a me nell'Alta Corte di Equità. Si rese necessario controllarli. Si trattava di una causa importante che imponeva la massima accuratezza. Sistemato tutto, chiamai Tacchino, Pince-Nez, Zenzero, che erano nella stanza attigua, con l'intenzione di dare a ciascuno dei miei quattro impiegati una copia del documento, mentre io avrei letto l'originale.
Obbedendo al mio ordine, Tacchino, Pince-Nez, Zenzero si erano seduti in fila, l'uno accanto all'altro, ciascuno con la sua copia in mano, quando chiamai Bartleby a raggiungere questo interessante gruppetto.
"Bartleby! Si sbrighi, aspetto".
Percepii il lento stridio delle gambe della sedia contro il pavimento nudo, e subito dopo apparve in piedi all'imbocco del suo eremo.
"Che cosa le serve? ", chiese mite.
"Le copie, le copie", risposi in fretta. "Stiamo per confrontarle. Ecco…", e gli porsi il quarto esemplare.
"Preferirei di no", disse e lievemente scomparve dietro il paravento.
Rimasi di sale per qualche istante, lì, in piedi, alla testa della colonna degli impiegati seduti. Riavendomi, avanzai verso il paravento e gli chiesi ragione di una condotta tanto inconsueta.
"Perché rifiuta?"
"Preferirei di no".
Con chiunque altro sarei esploso, e, senza sprecare altro fiato, l'avrei cacciato con ignominia dal mio cospetto. Ma c'era in Bartleby qualcosa che non soltanto stranamente mi disarmava, ma anche, in modo curioso, mi toccava e sconcertava. Cominciai a ragionare con lui.
"Sono le sue copie che ci accingiamo a controllare. Le risparmia fatica, perché un unico controllo serve per tutte e quattro. Si fa sempre così. I copisti sono tenuti a controllare le loro copie. Non è così? Non intende dire niente? Risponda!"
"Preferisco di no", rispose con voce flautata. Mi parve che, mentre mi rivolgevo a lui, egli soppesasse con attenzione ogni mia frase, ne comprendesse pienamente il significato, non potesse confutare l'ineluttabile conclusione, ma che, nello stesso tempo, una qualche suprema considerazione lo costringesse a rispondere in quel modo.
"Lei è deciso allora a non adeguarsi alla mia richiesta, una richiesta conforme all'uso comune e al comune buon senso?"
Mi fece brevemente capire che su quel punto la mia valutazione era corretta. Sì, la sua decisione era irrevocabile.
Non è infrequente che un uomo, urtato in modo inconsueto e violentemente irragionevole, cominci a dubitare delle proprie convinzioni fondamentali. Comincia, per così dire, a congetturare in modo vago che, per quanto strano, la ragione e il diritto stiano forse dall'altra parte. Di conseguenza, se sono presenti persone neutrali, si rivolge a costoro in cerca di un sostegno per la mente che vacilla.
"Tacchino", dissi, "che ne pensa? Non ho ragione?"
"Con rispetto, signore", rispose Tacchino nel suo tono più blando, "penso di sì".
"Pince-Nez, che cosa se ne pensa lei?"
"Penso che lo butterei fuori a calci".
(Il lettore attento e sensibile intuirà che, essendo mattina, la risposta di Tacchino è formulata con espressioni cortesi e pacate, ma che Pince-Nez replica con malumore. Ovvero, per ripetere una frase detta in precedenza, il cattivo umore di Pince-Nez era in servizio, mentre quello di Tacchino era in licenza).
"Zenzero", dissi desideroso di raccogliere il consenso anche più insignificante, "che cosa ne pensi tu?"
"Penso, signore, che sia un po' sfasato. ", rispose Zenzero con un sogghigno.
"Ha sentito quello che dicono", chiesi volgendomi verso il paravento. "Su, venga qui e faccia il suo dovere".
Non si degnò di rispondere. Rimasi a ponderare per un attimo, risentito e perplesso, ma ancora una volta, incalzato dal lavoro, decisi di rimandare a un momento di calma la valutazione del dilemma. Con qualche difficoltà riuscimmo a venirne a capo di quel lavoro di controllo, sebbene, ogni una o due pagine, Tacchino con deferenza esprimesse l'opinione che si trattava di procedura assai inconsueta, mentre Pince-Nez, agitandosi sulla sedia con nervosismo dispeptico, digrignava a denti stretti e sibilava di tanto in tanto improperi contro il cocciuto idiota dietro il paravento. E da parte sua (di Pince-Nez) quella era la prima e l'ultima volta che avrebbe fatto il lavoro di un altro senza essere pagato.
Bartleby, nel frattempo, se ne stava nel suo eremo, dimentico di tutto tranne che del documento davanti a sè.