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Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi, Parte 18

Parte 18

In quest'ozio del sentimento, carico di parole senza risposta, in questa solitaria noia zodiacale, arrivò, in quei giorni, all'improvviso, una lettera della questura di Matera. Mi si permetteva di recarmi per qualche giorno a Grassano, per finirvi dei quadri, a condizione che io stesso provvedessi a pagare il viaggio di andata e ritorno per me e per i carabinieri che dovevano accompagnarmi. Era la risposta ad una mia domanda, di cui mi ero ormai completamente dimenticato. Quando mi avevano, da un giorno all'altro, trasferito a Gagliano, avevo chiesto, con un telegramma a Matera, che mi si consentisse di tardare per una diecina di giorni, perché avevo delle pitture incominciate, che avrei dovuto completare. Era un pretesto: speravo, ottenendo quel rinvio, di poter poi restare a Grassano definitivamente. Il telegramma era rimasto senza risposta, e avevo dovuto partire. Ma le ragioni dell'arte avevano il loro peso sull'animo dei questurini: e, dopo più di tre mesi di meditazione, mi arrivava, tanto più inattesa e piacevole, questa insperata vacanza. Non ho mai conosciuto i funzionari della questura di Matera che si occupavano di noi: ma non dovevano essere gente cattiva. In quella sede disgraziata, ci si dovevano mandare soltanto dei vecchi arnesi usati di questura, pieni di scetticismo borbonico e di routine: non certamente dei giovani entusiasti. In quei vecchi cervelli impiegatizi non era ancora entrata, per fortuna, la cultura dei maestri di scuola, l'idealismo da università popolare che muoveva lo zelo isterico dei giovanotti, e faceva loro immaginare che lo Stato, nella sua indiscutibile eticità, fosse una persona, fatta all'incirca come loro, con una sua morale personale, simile alla loro, da imporre a tutti gli uomini, con le loro stesse piccole ambizioni, e i loro piccoli sadismi e virtuosismi, ma, nello stesso tempo, imperscrutabile ai profani, sacro ed enorme. In questa identificazione con l'idolo essi provavano la stessa beatitudine fisica che nel fare all'amore. Questi erano, in parte, i sentimenti di don Luigino : ma quei bravi poliziotti di Matera forse sapevano soltanto che è buona usanza lasciar dormire almeno tre mesi tutte le pratiche. Don Luigino mi comunicò la notizia con il sorriso benevolo di un re che concede una grazia a uno dei suoi sudditi: egli era lo Stato, e perciò quella tarda generosità della polizia era anche sua, ed egli era felice di poter sentirsi, quel giorno, uno Stato paterno. Ma in quella felicità si insinuava una punta di gelosia municipale, e forse anche qualche altro vago sentimento sgradevole, che la offuscava. Perché sembravo così contento di andarmene, sia pure per pochi giorni? Forse preferivo Grassano a Gagliano? Il fatto è che, se, come personificazione dello Stato, don Luigino pensava che i confinati dovessero essere trattati nel modo peggiore, e non dovessero potersi rallegrare del loro soggiorno, come gaglianese e primo cittadino di Gagliano avrebbe invece preteso che ci si trovassero, o almeno proclamassero di trovarcisi, meglio che in qualunque altro paese della provincia. Così, in questo modo contraddittorio e geloso, trovava posto anche nel suo animo quella che è la virtù prima e antichissima di queste terre: l'ospitalità; la virtù per cui i contadini aprono la porta all'ignoto forestiero, senza chiedergli il suo nome, e lo invitano a mangiare il loro scarso pane; di cui tutti i paesi si contendono la palma, fieri ognuno di essere il più amichevole e aperto al viandante straniero, che, forse, è un dio travestito. Per don Luigino, non avrei dovuto rallegrarmi della partenza. E poi, non c'era pericolo che io parlassi male di lui ai signori di là, tanto più vicini al gran cuore onnipotente della Capitale della Provincia? E, se non fossi tornato, se avessi trovato modo di farmi trasferire, chi lo avrebbe curato dei suoi mali immaginari? E chi avrebbe sottratto i clienti al suo nemico Gibilisco, per farlo morire di rabbia? insomma, don Luigino, a modo suo, e per quanto era possibile a quel suo animo arido e bambinesco, mi amava, e gli rincresceva che io partissi. Dovetti rasserenarlo, dirgli che il mio piacere veniva soltanto dalla prospettiva della passeggiata a cui non ero più avvezzo, che non mi attiravano a Grassano altro che le ragioni del mio lavoro, e che sarei stato felicissimo di tornare sotto la sua tutela, appena finiti i miei quadri. E così, con un gran pacco di tele, il cavalletto portatile, la cassetta dei colori, Barone, e due carabinieri, all'indomani, la mattina presto, partii. Il percorso mi era noto; era un po' come un viaggio nella mia camera: e di solito non amo voltarmi indietro e tornare nei luoghi dove una volta ho vissuto. Ma le mie impressioni di Grassano erano piacevoli; ci ero arrivato dopo mesi di solitudine assoluta; là avevo riveduto per la prima volta le stelle e la luna e le piante e gli animali e il viso degli uomini: mi si era così fissata nel ricordo come una terra di libertà; la lunga segregazione porta a un distacco dai sensi, che in alcuni può essere simile a una specie di santità: il ritorno alla vita normale ha sempre qualcosa di troppo acuto e di doloroso, come una convalescenza. La miseria e l'arsura desolata di Grassano, quel paesaggio senza dolcezze e sensualità, quella monotona tristezza, erano il luogo migliore, il meno offensivo, per questo ritorno. Mi ci ero trovato bene, e l'amavo. Con che piacere, quella mattina, sull'automobile dell'americano, mi si aperse, di là dalla svolta dietro il cimitero, la terra proibita, la discesa sul Sauro, e il monte di Stigliano! E come saltava allegro Barone, mentre aspettavamo, al bivio, in riva al fiume, il postale pieno di visi sconosciuti! Ecco, a uno a uno, come in un film girato alla rovescia, i paesi del mio arrivo, Stigliano, Accettura, San Mauro Forte, e le fermate dell'autobus, e il salire e lo scendere dei contadini e delle donne, e la foresta, e le case popolate di gente immaginaria. Ed ecco, finalmente, là in fondo, apparire, largo e bianco, il letto del Basento, e la casetta della stazione di Grassano. Qui l'autobus partì verso Grottole e Matera, e rimanemmo ad aspettare che arrivasse qualche mezzo di trasporto, che ci portasse, per i diciotto chilometri di giravolte e di polvere, su al paese. Aspettammo a lungo, ché l'automobile di Grassano scendeva più tardi, per l'arrivo del treno di Taranto, a prendere gli eventuali passeggeri. Rimasi a guardare il greto del fiume, dove il primo arco del ponte, rotto da una piena, aspettava da molti anni invano di essere riparato. Davanti a me si alzava, come una grande onda di terra, uniforme e spoglio, il monte di Grassano, e in cima, quasi irreale nel cielo, come l'immagine di un miraggio, appariva il paese. Pareva anche più irreale ed aereo di quando l'avevo visto l'ultima volta, perché le case erano state, durante la mia assenza, tutte imbiancate di fresco, e ora sembravano, tutte raccolte insieme come le pecore di un gregge impaurito, appena sfiorare la vetta grigio-giallastra del monte. Finalmente sentimmo di lontano il rumore della tromba dell'automobile, e vedemmo una nuvola di polvere scendere per la costa, e presto la macchina, traballando sulla passerella di assi disposta sul fiume; di fianco al ponte rotto, arrivò alla stazione. Il guidatore, quello stesso che mi aveva accompagnato a Gagliano tre mesi prima, riconobbe me e Barone, e ci diede il primo benvenuto. Il treno arrivò fischiando, e riparti senza che nessun passeggero scendesse o salisse. Si doveva ora aspettare l'altro treno, quello di Napoli e di Potenza, che avrebbe dovuto arrivare di lì a poco, ma che aveva un forte ritardo. Io non avevo fretta, e non mi dispiaceva restare ancora nel fondo della valle, dove non sarei forse tornato mai piú, e passeggiare in quel silenzio meridiano, e sedermi sui sassi bianchi del fiume larghissimo e secco, che si perde, in alto e in basso, fra i monti. Mangiai la colazione che mi ero portata, e aspettai. Dopo un'altra ora, anche il treno di Napoli arrivò, vuoto; montammo sull'automobile e cominciammo la salita. Lungo i diciotto chilometri le curve sono parecchie centinaia, fra continue gobbe di terra, scavate da grotte, e campi di stoppie aride, dove passa il vento in un'onda di polvere. Non si incontra un albero in tutto il percorso, e ci si innalza a poco a poco, fino ai cinquecento metri del paese, voltandosi in tutte le direzioni, con la vista quasi sempre chiusa dal curvo gonfiarsi dei campi riarsi. Eccoci a una grande spaccatura, come una ferita nella terra, per superarla la strada deve fare un grande rigiro. È il vallone delle carogne, così chiamato perché serve a buttarci i corpi delle bestie morte di malattia, e immangiabili: le loro ossa biancheggiano nel fondo. Siamo ormai vicini al paese: ecco il cimitero, in ripido pendio, tutto scoperto, come un fazzoletto punteggiato di bianco messo per terra ad asciugare sul fianco del monte: ecco lo sbocco del sentiero dalle alte siepi di rosmarino, dove ero solito sedermi a leggere, per delle ore, da solo, nei primi tempi, finché una capra non sbucava d'un tratto, guardandomi misteriosa; ecco l'albero dove il vecchio brigante aveva ucciso, settant'anni fa, il suo carabiniere. Ancora un'ultima svolta, ed ecco, su un monticello di terra, la grande croce di legno, ed il Cristo: un'ultima breve salita, e la strada si stringe fra le case. Con un gran chiasso di tromba, tra la gente che si scansava addossandosi agli usci, arrivammo finalmente alla porta dell'albergo di Prisco. Mi accolse la voce tonante del padrone, che si mise a chiamare la moglie ed i figliuoli: - Capità! Guagliò! È tornato don Carlo! - Ed eccoli tutti, agitati, vivaci, rumorosi, attorno a me. Era una famiglia simpaticissima. Lui era un uomo sulla cinquantina, robusto, svelto, sempre in moto, in faccende e in grida, con una testa rotonda dai capelli tagliati corti, dagli occhi mobili e furbi, dalla barba nera, lunga di quattro giorni; occupato di affari coi mercanti di passaggio, di commerci coi paesi vicini, pieno di iniziativa e di allegra energia. La signora Prisco era tanto tranquilla e dolce quanto suo marito era chiassoso e brusco. Alta, formosa, vestita di nero, materna e imperturbabile in quel continuo tramenio, mi preparava il pane arrostito con l'olio: e la sua voce non si sentiva. Il figlio maggiore, il Capitano, così chiamato perché era il capo riconosciuto di tutti i ragazzi del paese, che dominava con la sua astuzia e la sua precocità, era un ragazzo zoppo, piccolo di statura, di tredici o quattordici anni. Aveva degli occhi sfavillanti, sensuali insieme e furbissimi, in un viso magro e pallido, in cui cominciavano a crescere i primi peli. Capiva ogni cosa al volo, parlava rapidissimo e in modo ellittico, o per cenni: imponeva a tutti i suoi coetanei la sua volontà. Non ho mai visto alcuno della sua età afferrare più in fretta un'idea, soprattutto quando si trattasse di cose di commercio o di affari, né fare più sveltamente le somme e le divisioni: né giocare a scopa in modo più fulmineo, in modo che le carte non avevano tempo di posarsi sul tavolo. Dappertutto, in paese, si sentiva chiamare il Capitano, dappertutto appariva il suo corpicino smunto e svelto, e il suo passo di sciancato. Il figlio minore era l'opposto del Capitano: era alto, sottile, languido, con dei grandi occhioni nel viso dolce, e non parlava mai: aveva preso dalla madre, come le bambine che venivano poi. Non avevo ancora finito di salutare la famiglia Prisco, che già arrivava Antonino Roselli, il barbiere, con suo cognato Riccardo; avevano già mandato ad avvertire del mio arrivo gli amici, che arrivarono subito dopo. Antonino, un giovane bruno, con dei baffetti neri, barbiere e flautista, sognava, come tutti i grassanesi, di andarsene lontano. La sua speranza era di potermi seguire, come segretario, in giro per l'Europa. Mi avrebbe fatto la barba, mi avrebbe preparato le tele, i colori e i pennelli per dipingere, mi avrebbe cercato delle modelle, si sarebbe occupato della vendita dei miei quadri, mi avrebbe sonato il flauto per rallegrarmi nelle ore di noia, mi avrebbe assistito se mi ammalavo: insomma, sarebbe stato per me meglio che il fido Elia per Vittorio Alfieri in giro per gli altipiani della vecchia Castiglia. Forse avrei fatto bene ad esaudire quel suo desiderio: ma, ahimè, anche questa fu tra le mille possibilità della vita che per pigrizia, sciocchezza o disattenzione non raccolsi, e lasciai perdersi in nulla. Era davvero un gran bravo giovane, forse un po' troppo barbiere e un po' troppo flautista per il mio gusto. Ma veramente affezionato e gentile. Quando, nei primi giorni dopo il mio arrivo da Roma, rimasi solo dopo una visita furtiva, Antonino immaginò che io avrei sentito la tristezza, e venne con i suoi amici a suonare una serenata sotto le mie finestre, per consolarmi. C'era il suo flauto, un violino e una chitarra, che risonavano melanconici nel gran silenzio della notte. Riccardo era un marinaio di Venezia, confinato come tutti gli altri membri dell'equipaggio della sua nave che faceva servizio con Odessa, perché erano stati trovati a bordo, all'arrivo a Trieste, degli stampati russi di propaganda. Era alto e biondo, atletico, campione dei 400 metri a nuoto; con degli occhi chiari lontani, quasi sulle tempie, come gli uccelli. Avevo riconosciuto il suo viso, la prima volta che l'avevo incontrato, per averlo visto in un ritratto di De Pisis. Riccardo si era trovato assai bene a Grassano e vi aveva preso moglie. Aveva sposato Maddalena, la sorella di Antonino, e aspettavano un bambino. La sua vita era dunque ormai, in famiglia, piuttosto quella di un grassanese che di un confinato. Del resto, i confinati a Grassano erano pressoché liberi; potevano passeggiare a loro piacere in tutto il territorio del comune, che è vastissimo; dovevano farsi vedere una sola volta alla settimana in municipio: e l'obbligo del coprifuoco era attuato senza alcun rigore. Riccardo era un giovane mite e simpatico, e io amavo sentire la sua parlata veneta. Arrivarono, poco dopo i due cognati, i loro amici: artigiani, falegnami, un sarto, alcuni contadini. Di contadini, a Grassano, ne conoscevo assai meno che a Gagliano, non soltanto perché c'ero rimasto poco, e non vi facevo il medico, ma anche perché essi sono, forse, anche più misteriosi e chiusi. A Gagliano, essi sono, la maggior parte, proprietari di una piccola terra; Grassano è invece un paese di grande proprietà, e i contadini lavorano sul terreno altrui. La miseria delle due condizioni non è molto diversa, perché difficilmente, sia qui che là, potrebbe pensarsi maggiore. I contadini di Grassano vivono di anticipi sul raccolto, e quando è il tempo delle messi, di rado arrivano a pagare il debito, che va così accumulandosi di anno in anno, legandoli sempre di più nella rete della squallida povertà. Quelli di Gagliano lavorano il loro campo, e non raccolgono mai quello che basti a nutrirli e a pagare l'Ufficiale Esattoriale: le poche lire eventualmente risparmiate nelle annate buone, vanno tutte in medici e medicine, a curarsi la malaria: perciò anch'essi sono costretti alla denutrizione, e non possono pensare a muoversi e a cambiare stato. Non vi è nessuna reale differenza nella vita di questi e di quelli. Soltanto, mentre a Gagliano non vi sono che contadini, e i pochi signori, Grassano, che è un paese grande, possiede una specie di classe media numerosa, fatta di artigiani, soprattutto di falegnami. Mi sono spesso chiesto per chi mai lavorassero tutte le botteghe di falegname che c'erano in paese; e, in verità, avevano tutte poco lavoro, e stentavano a tirare avanti. L'esistenza di questa classe media dava un colore particolare alla vita paesana: gli artigiani stavano tutto il giorno sull'uscio delle botteghe, quasi tutte inoperose, ma ben fornite di splendidi attrezzi americani. I contadini non si vedevano che all'alba e al tramonto, e parevano così ancora più lontani, e relegati in un loro mondo remoto. Antonino, da buon barbiere, e gazzettino delle notizie, mi mise al corrente delle novità grassanesi. Non erano molte: qualche americano aveva seguito l'esempio di quello di cui ho parlato, dalle catene d'oro, ed era scappato a New York; il capo della milizia era partito per l'Africa, solo volontario del paese; quelli che avevano chiesto di andare, come operai, come a Gagliano, non erano stati accontentati e si lamentavano; era arrivato un confinato nuovo, uno sloveno di Dalmazia, che sapeva far di tutto, modellini di navi e statuette di cera. Il mio trasferimento improvviso di tre mesi prima era ancora argomento di grandi discussioni: era stato, come tutti gli avvenimenti, portato nel campo dei partiti locali: gli oppositori del gruppo al potere accusavano questi di avermi fatto trasferire perché io frequentavo alcuni loro avversari, come il signor Orlando e il falegname Lasala, denunciandomi a Matera; gli altri ritorcevano l'accusa, sostenendo che erano stati loro, gli oppositori, a scrivere lettere anonime e a farmi partire soltanto per poterli accusare di questa azione, che agli occhi di entrambe le parti contendenti era una grave mancanza alla ospitalità tradizionale di Grassano. In verità, a farmi trasferire credo non fossero stati né gli uni né gli altri: ma la polemica s'era invelenita, ed aveva contribuito ad accrescere la secolare riserva di odi e di rancori. A me queste cose non interessavano; volevo invece approfittare di quelle ore di luce che restavano per passeggiare un poco, e rivedere i luoghi cui mi ero affezionato. Uscii dunque, accompagnato da quel gruppo di giovani. Venendo da Gagliano, la gemella miseria di Grassano mi pareva quasi ricchezza, e la maggiore vivacità della gente, il diverso dialetto, con i suoi rapidi suoni pugliesi, mi davano l'impressione di essere quasi in una città piena di vita. Finalmente rivedevo dei negozi, anche se erano dei poveri stambugi mal provvisti di mercanzie; c'erano delle bancarelle di mercanti ambulanti, sulla piazza, davanti al palazzo del barone di Collefusco, che vendevano stoffe, lame da barba, anfore di terra, oggetti da cucina. C'era anche un carrettino di libri: gli stessi libri che avevo visti in mano al Capitano, ai ragazzi, ai contadini di qui: i Reali di Francia, le vite dei briganti, la storia di Corradino, degli almanacchi, dei lunari. Più in là c'era il caffè: un vero caffè, con un biliardo, e, allineate su uno scaffale, una serie di vecchie bottiglie di vetro fuso e formato, di quelle che sono ora così ricercate dai collezionisti, con le facce di Re Vittorio Emanuele II, di Garibaldi, della Regina Margherita, o con delle donne nude che reggono una palla, o con una mano che brandisce una pistola. Ma, fatti avanti e indietro quei duecento passi, fra l'albergo di Prisco e il caffè, si esaurisce tutta la vita mondana di Grassano. A destra e a sinistra, di sopra e di sotto, non c'è più altro che stradette, scalette e sentieri, fra le catapecchie allineate dei contadini. Queste sono ancora piú povere e squallide che quelle di Gagliano, le stanze sono più piccole, non ci sono orti vicino alle case, che si serrano l'una all'altra come per un pericolo mortale. Anche qui le capre e le pecore, più numerose che a Gagliano, saltano per le vie piene di spazzature; anche qui i bambini seminudi, pallidi e gonfi si rincorrono tra i rifiuti. Le donne non portano il velo, né il costume: ma anche qui i loro visi sono terrei, chiusi e animaleschi. Anche qui la pazienza e la rassegnazione stanno scritte sui volti degli uomini e sulla desolazione del paesaggio. Soltanto, per il maggior contatto col mondo di fuori, c'è nell'aria un piú vivo desiderio di evasione, sempre disilluso nella impossibilità della speranza. Risalii e ridiscesi, da solo, per le stradette conosciute, finché giunsi alla chiesa, nel vento, in cima al paese, per ridare uno sguardo a tutto l'orizzonte, che spazia immenso oltre i confini di Lucania. Di qua, ai miei piedi, le case del paese, con i loro tetti giallognoli, e poi la discesa ondulata e grigiastra del monte, fino al Basento, e, in faccia, le montagne di Accettura, da quelle più a valle che nascondono Ferrandina, alle Dolomiti di Pietra Pertosa, dietro cui si perde il greto del fiume. Da tutti gli altri lati, il grande mare di terra informe, di là del Bilioso, delle grotte dei briganti e dei monachicchi, e di Irsina, irta su un colle ispido. Paesi lontanissimi appaiono da ogni parte, come vele sperdute su questo mare, fin laggiù dove si intravede Salandra, e Banzi, dove si stenta a immaginare, in quella arsura, esistesse davvero un tempo la fresca fontana piú chiara del vetro, degna del vino e del capretto; altri, piú vicini, paiono navigare avvicinandosi al porto, fino a Grottole, là di faccia, dietro la cappella di sant'Antonio, e ai suoi due alberi sperduti nel deserto. Questa sconfinata distesa monotona e ondulata, la si coltiva, da qualche anno, a grano: un povero grano che non ripaga la semente, le spese e la fatica. Quando l'avevo vista per la prima volta, l'estate, era il tempo della raccolta. Tutta la terra, d'ogni parte intorno, era gialla sotto il sole, e un canto di lontane trebbiatrici solcava solo il silenzio. Ora, tutto era grigio, non un colore turbava quella monotonia solitaria.

Rimasi a lungo lassù, finché cominciò ad imbrunire e a cadere qualche goccia di pioggia. Scesi in fretta all'albergo. C'era già parecchia gente che aspettava di mangiare, dei carrettieri di passaggio, dei mercanti ambulanti, e Pappone. Sulle voci di tutti, sentivo già dalla strada le urla pugliesi di Prisco, e le grida napoletane di Pappone, che, come sempre, fingevano per gioco di litigare. Pappone era un mercante di frutta di Bagnoli, che veniva spesso per affari a Grassano, dove ci sono delle ottime pere: l'avevo già conosciuto durante l'estate. Era un grande amico di Prisco, usavano ingiuriarsi continuamente in segno di affetto. Pappone gli gridava: - Strunzo galleggiante! - e Prisco gli replicava: - Co' a bannerola 'n coppa! fetente! - e, partiti di qui, continuavano a lungo a gran voce, minacciandosi con gli occhi e ridendo. Pappone era un ex frate, grasso, rotondo, ghiotto e, a modo suo, spiritosissimo. Aveva un'arte particolare, come cuoco; e si preparava da sé, mandando via dal fornello la signora Prisco, la salsa alla marinara per i maccheroni: me ne faceva sempre parte, ed era veramente la migliore che io abbia gustato mai. Anche maggiore era la sua arte di raccontare storie stravagantissime, accompagnandole con la mimica più espressiva. Ma, ahimè, le sue novelle erano tutte talmente salaci, pornografiche e fratesche, che non mi è davvero possibile riferirne nessuna: neppure quella che raccontò quella sera a tavola, e che, fra tutte quelle che gli avevo sentito narrare, era forse la più innocente.

Finalmente potevo mangiare in compagnia: questo mi rallegrava: mi pareva di essere di nuovo un uomo libero. Da quel tempo ho preso in uggia la solitudine a tavola, al punto di preferire un qualunque commensale sconosciuto all'esser solo. La cena, modestissima, mi pareva dunque deliziosa, e il racconto di Pappone assai più spiritoso delle piú celebrate, e noiosissime, novelle del Firenzuola. Noi mangiavamo, e Prisco ci teneva compagnia, in maniche di camicia, coi gomiti sulla tavola, tonante, elastico e sudato, con un bicchiere di vino. Entrò allora un nuovo commensale: un mercante di stoffe di Brindisi, che già conoscevo. Era un uomo enorme, grassissimo e grossissimo, con una faccia da orco, con un gran naso, grandi occhi, grandi orecchie, grandi labbra, e grandi guance che muoveva mangiando con un grande fracasso. Mangiava almeno come quattro cristiani messi insieme, anche perché si limitava a quel solo pasto serale, dopo aver passato tutto il giorno ad arringare le donne perché comprassero le sue stoffe. Malgrado le sue terribili ganasce, e il sudore che gli rigava il volto, e quel suo orrendo aspetto di gigante difforme, era un uomo gentile, e spiritoso quasi quanto il suo amico Pappone. Così, attorno al tavolo, tutti erano rumorosamente allegri. Il Capitano, suo fratello, e il loro amico Boccia, un giovanotto un po' deficiente per una malattia infantile, impiegato del municipio, stavano in un angolo della stanza, leggendo avidamente un vecchio numero della «Gazzetta dello Sport». L'orco di Brindisi non amava queste infatuazioni sportive, e attaccò subito direttamente, col suo vocione, il Capitano: - Capità! Ora non c'è più che lo sport! La guerra d'Africa, e lo sport! non si pensa ad altro. Ma che cos'è poi questo sport? - Il Capitano cercò la parata. - Carnera, - rispose, - è campione del mondo -. Il mercante si mise a ridere, facendo tremare i bicchieri sul tavolo. - Il vostro Carnera, - disse, - è come Garibaldi -. L'affermazione era così precisa che il Capitano non trovò risposta, e il gigante continuò: - Sono tutti trucchi. Carnera ha vinto perché era d'accordo prima. È proprio una specie di Garibaldi: la storia non cambia. Sui vostri libri di scuola vi insegnano un mucchio di frottole, ma la verità è un'altra. Quando Re Franceschiello dovette lasciare Napoli, e si ritirò a Gaeta, Garibaldi e i suoi amici con le camicie rosse venivano avanti all'attacco, tutti allegri e fieri e pieni di coraggio. Su dalle mura di Gaeta sparavano i cannoni; ma quelli non se ne davano per intesi; pareva andassero a nozze, con in testa la bandiera e la fanfara. Re Franceschiello, che vedeva da Gaeta che le cannonate non facevano effetto, pensò: «O quelli sono dei pazzi, o qui ci sta qualcosa di strano. Mo' mi ci voglio provar io a tirare una cannonata». Detto fatto. Fece pigliare una bella palla, la fece mettere nel pezzo, e lui stesso, il Re, sparò. Bum! Quando videro cadere la palla, Garibaldi e le sue camicie rosse non ne aspettarono una seconda, e se la diedero a gambe. Perché i colpi di prima erano tutti a polvere: Garibaldi si era messo d'accordo, come Carnera. Quando il Re tirò la cannonata vera, Garibaldi disse: «Qua a Gaeta non va più bene. Ragazzi, andiamo a Teano!» E così andò a Teano.

Pappone, Prisco, i carrettieri, i mercanti, tutti risero; Garibaldi non è popolare quaggiù; e la gloria di Carnera fu definitivamente sepolta. Anche il Capitano dovette riconoscersi sconfitto; soltanto Boccia, che per la meningite sofferta non era in grado di afferrare in fretta gli argomenti, rimase imperturbabile. Appunto per questo suo difetto, gli avevano dato quel posto in municipio, che consisteva nel tenere in ordine delle carte, e fare un po' da messo e da fattorino: i minorati, quaggiù, sono molto ben visti, e protetti dalla popolazione. Del resto, come succede spesso in casi simili, se Boccia era un po' lento d'ingegno, aveva una memoria di ferro, che si limitava però agli oggetti delle sue passioni dominanti. Queste erano due: lo sport e il diritto. Egli sapeva a memoria i nomi di tutti i componenti le squadre di calcio di tutta Italia negli ultimi anni, e usava recitarmeli, come litanie, con gli occhi brillanti di piacere. Ma l'altra sua passione era ancora più vivace. Il diritto, gli avvocati, le cause in tribunale lo colmavano di estasi e di delizia. Sapeva a memoria i nomi di tutti gli avvocati della provincia, e brani delle loro cause più celebri; e in questo non era il solo, perché l'amore per l'oratoria forense è quaggiù abbastanza generale. Ma un fatto accaduto due o tre anni prima era diventato l'avvenimento più importante e beatificante della sua vita. Per qualche causetta di confini, una sezione distaccata di pretura aveva tenuto una udienza proprio qui a Grassano, e c'era venuto a parlare il più grande avvocato di Matera, il famoso avvocato Latronico. L'arringa di Latronico, Boccia la sapeva a mente intera: e non passava giorno che non la ripetesse, accendendosi di ammirazione nei passi più emozionanti. - Lupi di Accettura, cani di San Mauro, corvi di Tricarico, volpi di Grottole e rospi di Garaguso! - aveva detto Latronico nella sua perorazione. A Boccia questo pareva il più alto volo dell'oratoria universale. - Rospi di Garaguso! - andava ripetendo con compunzione e con enfasi, secondo l'umore del giorno; - proprio così, rospi di Garaguso, perché stanno vicino all'acqua, sopra il pantano. Che discorso! A tavola, oltre ai maccheroni con la salsa di Pappone, c'era del prosciutto, magro, saporito, tagliato a grosse fette, di un sapore assai diverso dai nostri prosciutti del nord, che io trovavo eccellente. Ne feci le lodi con Prisco, che mi disse che quello era prosciutto di montagna, che egli stesso andava a cercarlo dai contadini dei paesetti più alti e lontani. Erano prosciutti piccolissimi, e costavano quattro lire al chilo. Quando dissi a Prisco che in città lo si pagava almeno cinque volte tanto, il suo spirito vivace immaginò subito un affare. Mi propose, se avevo degli amici che si potessero incaricare della vendita, di fare una società, lui e io, per il commercio dei prosciutti. Egli si sarebbe occupato di andare in giro per i monti a incettarli, io, attraverso i miei corrispondenti, di venderli. Se ne sarebbero potute trovare delle quantità discrete, e, forse, negli anni venturi, si sarebbe potuta fare aumentare la produzione. Io non ho alcuno spirito commerciale, e forse appunto per questo la proposta mi parve bellissima. Risposi che, poiché si parlava di Garibaldi, avrei potuto fare come lui, che, in circostanze abbastanza analoghe alle mie, si era messo a vender candele; che fra le candele e i prosciutti non vedevo molta differenza, e avrei veduto di occuparmene. Spinto dal calore della novità, scrissi a un amico, esportatore e commerciante delle cose più diverse nei più strani paesi del mondo. Dopo parecchio tempo ebbi la risposta che i prosciutti non lo interessavano; che, per quanto ottimi, erano di una qualità diversa da quella a cui il pubblico era abituato, che si sarebbe dovuta creare una organizzazione di vendita sproporzionata alla piccola quantità della merce; e che vedessi invece se si poteva trovare della ginestra che, in quei tempi di autarchia, era molto ricercata. La ginestra è il solo fiore di questi deserti, cresce dappertutto in cespugli aridi, pasto delle capre. Ma i miei entusiasmi di commercio lucano si erano ormai raffreddati, e la cosa non ebbe seguito.

Quella prima sera di compagnia, tra i progetti di affari, le storielle allegre e la critica storica garibaldina, passò presto. L'orco di Brindisi si ritirò a dormire sul suo camioncino, per meglio sorvegliare che non gli rubassero le stoffe durante la notte; i carrettieri partirono, nel buio, per Tricarico, e Pappone ed io restammo i soli ospiti di Prisco; perciò potemmo avere ciascuno una camera, senza doverla, per quella notte, spartire con altri. Volevo alzarmi presto, l'indomani. Avevo progettato di scendere in basso, fin quasi al Basento, per dipingere Grassano come l'avevo vista di laggiù, dalla stazione, alta sul cielo come una città d'aria. Antonino, saputa la mia intenzione, mi aveva proposto di accompagnarmi: all'alba mi aspettava alla porta, con un mulo per portare le tele e il cavalletto, e un gruppo di amici che volevano tutti venire con me. C'era Riccardo, c'era Carmelo, il manovale ciclista dei monachicchi, un falegname, un sarto, due contadini e due o tre ragazzi. Il tempo era grigio, soffiava il vento, ma si poteva sperare che non sarebbe venuta la pioggia. In quella luce diffusa e fredda delle nuvole, le cose apparivano più rilevate, e forse meno tristi nella loro monotonia che sotto la vampa crudele del sole: era il tempo che preferivo per il mio quadro. Il figlio minore di Prisco si unì a noi. Il Capitano ci salutò dall'uscio: la strada era troppo lunga per la sua gamba zoppa. Con Barone in testa, saltellante staffetta, cominciammo la discesa, per il sentiero ripido che, evitando le curve e le giravolte della strada, arriva, in otto o dieci chilometri, al fondo della valle. Per quella stessa strada, e quasi con la stessa compagnia, ero sceso, un giorno d'agosto, a fare un bagno nel Basento, in un angolo isolato del fiume, dove l'acqua ristagna in una pozza, tra pochi alberi di pioppo, che sembrano stranamente appartenere a un altro paesaggio, piovuti a radicarsi qui per bizzarria. Tutti nudi, nell'aria torrida del pomeriggio canicolare, c'eravamo tuffati nel fiume: i miei compagni cercavano con le mani i pesci, rintanati nelle buche, nel fango della proda; e ne presero parecchi, con quella tecnica rudimentale. È proibito pescare in questi fiumi perché i pesci dovrebbero distruggere le larve delle zanzare: ma nessuno bada al divieto: c'è così poco da mangiare, tutto l'anno, per i poveri di Grassano, che un piatto di pesci pare un dono del cielo. Ci eravamo poi asciugati al sole, tra lo stridore delle cicale e il fischiare delle zanzare, nel riverbero torrido delle argille. Ora invece l'aria era fresca: ma il paesaggio non era cambiato: soltanto, di giallastro, s'era fatto grigiastro. Giungemmo a un posto che mi pareva adatto al mio lavoro, e qui mi fermai. Rimase con me Antonino, che teneva al privilegio di porgermi i tubi di colore a mano a mano che mi abbisognavano, e un ragazzo per guardare il mulo che brucava le stoppie. Gli altri scesero fino al fiume, sperando in una pesca miracolosa, e io mi misi a dipingere. Il paesaggio, di qui, era il meno pittoresco che avessi veduto mai: per questo mi piaceva moltissimo. Non c'era un albero, una siepe, una roccia atteggiata come un gesto fermo. Non ci sono gesti, quaggiù, né l'amabile retorica della natura generante o del lavoro umano. Soltanto una distesa uniforme di terra abbandonata, e in alto il paese bianco. Sul cielo grigio, una piccola nuvola bassa, sopra le case, aveva la vaga forma di un angelo.

I miei compagni tornarono dal fiume a mani vuote. Si misero attorno alla mia tela meravigliati di vedere Grassano, nato così dal nulla. Avevo sempre visto che, poiché non hanno i pregiudizi della mezza cultura, i contadini sono, in generale, capaci di vedere la pittura: avevo l'abitudine di chiedere il loro parere sulle cose che avevo fatto. Mentre continuavo a lavorare, gli amici accesero un fuoco, per far scaldare le provviste che avevano portato, e si mangiò, lì, seduti in terra, guardando il mio quadro sul cavalletto, a cui avevamo legato delle grosse pietre perché il vento non lo portasse via. Dopo mangiato, cominciò a piovere, e non ci restò che tornare. Il quadro era ormai pressoché finito, lo si caricò sul mulo, avvolto in una coperta, e sotto la pioggia leggera ci mettemmo in cammino.


Parte 18 Part 18

In quest'ozio del sentimento, carico di parole senza risposta, in questa solitaria noia zodiacale, arrivò, in quei giorni, all'improvviso, una lettera della questura di Matera. Mi si permetteva di recarmi per qualche giorno a Grassano, per finirvi dei quadri, a condizione che io stesso provvedessi a pagare il viaggio di andata e ritorno per me e per i carabinieri che dovevano accompagnarmi. Era la risposta ad una mia domanda, di cui mi ero ormai completamente dimenticato. Quando mi avevano, da un giorno all'altro, trasferito a Gagliano, avevo chiesto, con un telegramma a Matera, che mi si consentisse di tardare per una diecina di giorni, perché avevo delle pitture incominciate, che avrei dovuto completare. Era un pretesto: speravo, ottenendo quel rinvio, di poter poi restare a Grassano definitivamente. Il telegramma era rimasto senza risposta, e avevo dovuto partire. Ma le ragioni dell'arte avevano il loro peso sull'animo dei questurini: e, dopo più di tre mesi di meditazione, mi arrivava, tanto più inattesa e piacevole, questa insperata vacanza. Non ho mai conosciuto i funzionari della questura di Matera che si occupavano di noi: ma non dovevano essere gente cattiva. In quella sede disgraziata, ci si dovevano mandare soltanto dei vecchi arnesi usati di questura, pieni di scetticismo borbonico e di routine: non certamente dei giovani entusiasti. In quei vecchi cervelli impiegatizi non era ancora entrata, per fortuna, la cultura dei maestri di scuola, l'idealismo da università popolare che muoveva lo zelo isterico dei giovanotti, e faceva loro immaginare che lo Stato, nella sua indiscutibile eticità, fosse una persona, fatta all'incirca come loro, con una sua morale personale, simile alla loro, da imporre a tutti gli uomini, con le loro stesse piccole ambizioni, e i loro piccoli sadismi e virtuosismi, ma, nello stesso tempo, imperscrutabile ai profani, sacro ed enorme. In questa identificazione con l'idolo essi provavano la stessa beatitudine fisica che nel fare all'amore. Questi erano, in parte, i sentimenti di don Luigino : ma quei bravi poliziotti di Matera forse sapevano soltanto che è buona usanza lasciar dormire almeno tre mesi tutte le pratiche. Don Luigino mi comunicò la notizia con il sorriso benevolo di un re che concede una grazia a uno dei suoi sudditi: egli era lo Stato, e perciò quella tarda generosità della polizia era anche sua, ed egli era felice di poter sentirsi, quel giorno, uno Stato paterno. Ma in quella felicità si insinuava una punta di gelosia municipale, e forse anche qualche altro vago sentimento sgradevole, che la offuscava. Perché sembravo così contento di andarmene, sia pure per pochi giorni? Forse preferivo Grassano a Gagliano? Il fatto è che, se, come personificazione dello Stato, don Luigino pensava che i confinati dovessero essere trattati nel modo peggiore, e non dovessero potersi rallegrare del loro soggiorno, come gaglianese e primo cittadino di Gagliano avrebbe invece preteso che ci si trovassero, o almeno proclamassero di trovarcisi, meglio che in qualunque altro paese della provincia. The fact is that, if, as personification of the State, Don Luigino thought that the confined persons should be treated in the worst way, and should not be able to rejoice in their stay, as Gaglianese and first citizen of Gagliano he would instead have demanded that they were there, or at least they claimed to be there, better than in any other town in the province. Così, in questo modo contraddittorio e geloso, trovava posto anche nel suo animo quella che è la virtù prima e antichissima di queste terre: l'ospitalità; la virtù per cui i contadini aprono la porta all'ignoto forestiero, senza chiedergli il suo nome, e lo invitano a mangiare il loro scarso pane; di cui tutti i paesi si contendono la palma, fieri ognuno di essere il più amichevole e aperto al viandante straniero, che, forse, è un dio travestito. Per don Luigino, non avrei dovuto rallegrarmi della partenza. E poi, non c'era pericolo che io parlassi male di lui ai signori di là, tanto più vicini al gran cuore onnipotente della Capitale della Provincia? E, se non fossi tornato, se avessi trovato modo di farmi trasferire, chi lo avrebbe curato dei suoi mali immaginari? E chi avrebbe sottratto i clienti al suo nemico Gibilisco, per farlo morire di rabbia? insomma, don Luigino, a modo suo, e per quanto era possibile a quel suo animo arido e bambinesco, mi amava, e gli rincresceva che io partissi. Dovetti rasserenarlo, dirgli che il mio piacere veniva soltanto dalla prospettiva della passeggiata a cui non ero più avvezzo, che non mi attiravano a Grassano altro che le ragioni del mio lavoro, e che sarei stato felicissimo di tornare sotto la sua tutela, appena finiti i miei quadri. E così, con un gran pacco di tele, il cavalletto portatile, la cassetta dei colori, Barone, e due carabinieri, all'indomani, la mattina presto, partii. Il percorso mi era noto; era un po' come un viaggio nella mia camera: e di solito non amo voltarmi indietro e tornare nei luoghi dove una volta ho vissuto. Ma le mie impressioni di Grassano erano piacevoli; ci ero arrivato dopo mesi di solitudine assoluta; là avevo riveduto per la prima volta le stelle e la luna e le piante e gli animali e il viso degli uomini: mi si era così fissata nel ricordo come una terra di libertà; la lunga segregazione porta a un distacco dai sensi, che in alcuni può essere simile a una specie di santità: il ritorno alla vita normale ha sempre qualcosa di troppo acuto e di doloroso, come una convalescenza. La miseria e l'arsura desolata di Grassano, quel paesaggio senza dolcezze e sensualità, quella monotona tristezza, erano il luogo migliore, il meno offensivo, per questo ritorno. Mi ci ero trovato bene, e l'amavo. I was happy with it, and I loved it. Con che piacere, quella mattina, sull'automobile dell'americano, mi si aperse, di là dalla svolta dietro il cimitero, la terra proibita, la discesa sul Sauro, e il monte di Stigliano! E come saltava allegro Barone, mentre aspettavamo, al bivio, in riva al fiume, il postale pieno di visi sconosciuti! Ecco, a uno a uno, come in un film girato alla rovescia, i paesi del mio arrivo, Stigliano, Accettura, San Mauro Forte, e le fermate dell'autobus, e il salire e lo scendere dei contadini e delle donne, e la foresta, e le case popolate di gente immaginaria. Ed ecco, finalmente, là in fondo, apparire, largo e bianco, il letto del Basento, e la casetta della stazione di Grassano. Qui l'autobus partì verso Grottole e Matera, e rimanemmo ad aspettare che arrivasse qualche mezzo di trasporto, che ci portasse, per i diciotto chilometri di giravolte e di polvere, su al paese. Aspettammo a lungo, ché l'automobile di Grassano scendeva più tardi, per l'arrivo del treno di Taranto, a prendere gli eventuali passeggeri. Rimasi a guardare il greto del fiume, dove il primo arco del ponte, rotto da una piena, aspettava da molti anni invano di essere riparato. I stood looking at the riverbed, where the first arch of the bridge, broken by a flood, had been waiting in vain for many years to be repaired. Davanti a me si alzava, come una grande onda di terra, uniforme e spoglio, il monte di Grassano, e in cima, quasi irreale nel cielo, come l'immagine di un miraggio, appariva il paese. Pareva anche più irreale ed aereo di quando l'avevo visto l'ultima volta, perché le case erano state, durante la mia assenza, tutte imbiancate di fresco, e ora sembravano, tutte raccolte insieme come le pecore di un gregge impaurito, appena sfiorare la vetta grigio-giallastra del monte. Finalmente sentimmo di lontano il rumore della tromba dell'automobile, e vedemmo una nuvola di polvere scendere per la costa, e presto la macchina, traballando sulla passerella di assi disposta sul fiume; di fianco al ponte rotto, arrivò alla stazione. Il guidatore, quello stesso che mi aveva accompagnato a Gagliano tre mesi prima, riconobbe me e Barone, e ci diede il primo benvenuto. Il treno arrivò fischiando, e riparti senza che nessun passeggero scendesse o salisse. Si doveva ora aspettare l'altro treno, quello di Napoli e di Potenza, che avrebbe dovuto arrivare di lì a poco, ma che aveva un forte ritardo. Now we had to wait for the other train, that of Naples and Potenza, which was due to arrive shortly thereafter, but which was very late. Io non avevo fretta, e non mi dispiaceva restare ancora nel fondo della valle, dove non sarei forse tornato mai piú, e passeggiare in quel silenzio meridiano, e sedermi sui sassi bianchi del fiume larghissimo e secco, che si perde, in alto e in basso, fra i monti. I was in no hurry, and I did not mind staying still in the bottom of the valley, where I would perhaps never return, and strolling in that meridian silence, and sitting on the white stones of the very wide and dry river, which is lost, up and down. low, among the mountains. Mangiai la colazione che mi ero portata, e aspettai. Dopo un'altra ora, anche il treno di Napoli arrivò, vuoto; montammo sull'automobile e cominciammo la salita. After another hour, the Naples train also arrived, empty; we got into the car and started the climb. Lungo i diciotto chilometri le curve sono parecchie centinaia, fra continue gobbe di terra, scavate da grotte, e campi di stoppie aride, dove passa il vento in un'onda di polvere. Non si incontra un albero in tutto il percorso, e ci si innalza a poco a poco, fino ai cinquecento metri del paese, voltandosi in tutte le direzioni, con la vista quasi sempre chiusa dal curvo gonfiarsi dei campi riarsi. Eccoci a una grande spaccatura, come una ferita nella terra, per superarla la strada deve fare un grande rigiro. È il vallone delle carogne, così chiamato perché serve a buttarci i corpi delle bestie morte di malattia, e immangiabili: le loro ossa biancheggiano nel fondo. Siamo ormai vicini al paese: ecco il cimitero, in ripido pendio, tutto scoperto, come un fazzoletto punteggiato di bianco messo per terra ad asciugare sul fianco del monte: ecco lo sbocco del sentiero dalle alte siepi di rosmarino, dove ero solito sedermi a leggere, per delle ore, da solo, nei primi tempi, finché una capra non sbucava d'un tratto, guardandomi misteriosa; ecco l'albero dove il vecchio brigante aveva ucciso, settant'anni fa, il suo carabiniere. We are now close to the village: here is the cemetery, on a steep slope, completely uncovered, like a handkerchief dotted with white placed on the ground to dry on the side of the mountain: here is the mouth of the path with high rosemary hedges, where I used to sit and read , for hours, alone, in the early days, until a goat suddenly came out, looking at me mysteriously; here is the tree where the old brigand had killed his carabiniere seventy years ago. Ancora un'ultima svolta, ed ecco, su un monticello di terra, la grande croce di legno, ed il Cristo: un'ultima breve salita, e la strada si stringe fra le case. Con un gran chiasso di tromba, tra la gente che si scansava addossandosi agli usci, arrivammo finalmente alla porta dell'albergo di Prisco. Mi accolse la voce tonante del padrone, che si mise a chiamare la moglie ed i figliuoli: - Capità! Guagliò! È tornato don Carlo! - Ed eccoli tutti, agitati, vivaci, rumorosi, attorno a me. Era una famiglia simpaticissima. Lui era un uomo sulla cinquantina, robusto, svelto, sempre in moto, in faccende e in grida, con una testa rotonda dai capelli tagliati corti, dagli occhi mobili e furbi, dalla barba nera, lunga di quattro giorni; occupato di affari coi mercanti di passaggio, di commerci coi paesi vicini, pieno di iniziativa e di allegra energia. La signora Prisco era tanto tranquilla e dolce quanto suo marito era chiassoso e brusco. Alta, formosa, vestita di nero, materna e imperturbabile in quel continuo tramenio, mi preparava il pane arrostito con l'olio: e la sua voce non si sentiva. Il figlio maggiore, il Capitano, così chiamato perché era il capo riconosciuto di tutti i ragazzi del paese, che dominava con la sua astuzia e la sua precocità, era un ragazzo zoppo, piccolo di statura, di tredici o quattordici anni. Aveva degli occhi sfavillanti, sensuali insieme e furbissimi, in un viso magro e pallido, in cui cominciavano a crescere i primi peli. Capiva ogni cosa al volo, parlava rapidissimo e in modo ellittico, o per cenni: imponeva a tutti i suoi coetanei la sua volontà. Non ho mai visto alcuno della sua età afferrare più in fretta un'idea, soprattutto quando si trattasse di cose di commercio o di affari, né fare più sveltamente le somme e le divisioni: né giocare a scopa in modo più fulmineo, in modo che le carte non avevano tempo di posarsi sul tavolo. Dappertutto, in paese, si sentiva chiamare il Capitano, dappertutto appariva il suo corpicino smunto e svelto, e il suo passo di sciancato. Il figlio minore era l'opposto del Capitano: era alto, sottile, languido, con dei grandi occhioni nel viso dolce, e non parlava mai: aveva preso dalla madre, come le bambine che venivano poi. Non avevo ancora finito di salutare la famiglia Prisco, che già arrivava Antonino Roselli, il barbiere, con suo cognato Riccardo; avevano già mandato ad avvertire del mio arrivo gli amici, che arrivarono subito dopo. Antonino, un giovane bruno, con dei baffetti neri, barbiere e flautista, sognava, come tutti i grassanesi, di andarsene lontano. La sua speranza era di potermi seguire, come segretario, in giro per l'Europa. Mi avrebbe fatto la barba, mi avrebbe preparato le tele, i colori e i pennelli per dipingere, mi avrebbe cercato delle modelle, si sarebbe occupato della vendita dei miei quadri, mi avrebbe sonato il flauto per rallegrarmi nelle ore di noia, mi avrebbe assistito se mi ammalavo: insomma, sarebbe stato per me meglio che il fido Elia per Vittorio Alfieri in giro per gli altipiani della vecchia Castiglia. Forse avrei fatto bene ad esaudire quel suo desiderio: ma, ahimè, anche questa fu tra le mille possibilità della vita che per pigrizia, sciocchezza o disattenzione non raccolsi, e lasciai perdersi in nulla. Era davvero un gran bravo giovane, forse un po' troppo barbiere e un po' troppo flautista per il mio gusto. Ma veramente affezionato e gentile. Quando, nei primi giorni dopo il mio arrivo da Roma, rimasi solo dopo una visita furtiva, Antonino immaginò che io avrei sentito la tristezza, e venne con i suoi amici a suonare una serenata sotto le mie finestre, per consolarmi. C'era il suo flauto, un violino e una chitarra, che risonavano melanconici nel gran silenzio della notte. Riccardo era un marinaio di Venezia, confinato come tutti gli altri membri dell'equipaggio della sua nave che faceva servizio con Odessa, perché erano stati trovati a bordo, all'arrivo a Trieste, degli stampati russi di propaganda. Era alto e biondo, atletico, campione dei 400 metri a nuoto; con degli occhi chiari lontani, quasi sulle tempie, come gli uccelli. Avevo riconosciuto il suo viso, la prima volta che l'avevo incontrato, per averlo visto in un ritratto di De Pisis. Riccardo si era trovato assai bene a Grassano e vi aveva preso moglie. Aveva sposato Maddalena, la sorella di Antonino, e aspettavano un bambino. La sua vita era dunque ormai, in famiglia, piuttosto quella di un grassanese che di un confinato. Del resto, i confinati a Grassano erano pressoché liberi; potevano passeggiare a loro piacere in tutto il territorio del comune, che è vastissimo; dovevano farsi vedere una sola volta alla settimana in municipio: e l'obbligo del coprifuoco era attuato senza alcun rigore. Riccardo era un giovane mite e simpatico, e io amavo sentire la sua parlata veneta. Arrivarono, poco dopo i due cognati, i loro amici: artigiani, falegnami, un sarto, alcuni contadini. Di contadini, a Grassano, ne conoscevo assai meno che a Gagliano, non soltanto perché c'ero rimasto poco, e non vi facevo il medico, ma anche perché essi sono, forse, anche più misteriosi e chiusi. A Gagliano, essi sono, la maggior parte, proprietari di una piccola terra; Grassano è invece un paese di grande proprietà, e i contadini lavorano sul terreno altrui. La miseria delle due condizioni non è molto diversa, perché difficilmente, sia qui che là, potrebbe pensarsi maggiore. The misery of the two conditions is not very different, because it could hardly be thought of greater, either here or there. I contadini di Grassano vivono di anticipi sul raccolto, e quando è il tempo delle messi, di rado arrivano a pagare il debito, che va così accumulandosi di anno in anno, legandoli sempre di più nella rete della squallida povertà. Quelli di Gagliano lavorano il loro campo, e non raccolgono mai quello che basti a nutrirli e a pagare l'Ufficiale Esattoriale: le poche lire eventualmente risparmiate nelle annate buone, vanno tutte in medici e medicine, a curarsi la malaria: perciò anch'essi sono costretti alla denutrizione, e non possono pensare a muoversi e a cambiare stato. Non vi è nessuna reale differenza nella vita di questi e di quelli. Soltanto, mentre a Gagliano non vi sono che contadini, e i pochi signori, Grassano, che è un paese grande, possiede una specie di classe media numerosa, fatta di artigiani, soprattutto di falegnami. Mi sono spesso chiesto per chi mai lavorassero tutte le botteghe di falegname che c'erano in paese; e, in verità, avevano tutte poco lavoro, e stentavano a tirare avanti. L'esistenza di questa classe media dava un colore particolare alla vita paesana: gli artigiani stavano tutto il giorno sull'uscio delle botteghe, quasi tutte inoperose, ma ben fornite di splendidi attrezzi americani. I contadini non si vedevano che all'alba e al tramonto, e parevano così ancora più lontani, e relegati in un loro mondo remoto. Antonino, da buon barbiere, e gazzettino delle notizie, mi mise al corrente delle novità grassanesi. Non erano molte: qualche americano aveva seguito l'esempio di quello di cui ho parlato, dalle catene d'oro, ed era scappato a New York; il capo della milizia era partito per l'Africa, solo volontario del paese; quelli che avevano chiesto di andare, come operai, come a Gagliano, non erano stati accontentati e si lamentavano; era arrivato un confinato nuovo, uno sloveno di Dalmazia, che sapeva far di tutto, modellini di navi e statuette di cera. Il mio trasferimento improvviso di tre mesi prima era ancora argomento di grandi discussioni: era stato, come tutti gli avvenimenti, portato nel campo dei partiti locali: gli oppositori del gruppo al potere accusavano questi di avermi fatto trasferire perché io frequentavo alcuni loro avversari, come il signor Orlando e il falegname Lasala, denunciandomi a Matera; gli altri ritorcevano l'accusa, sostenendo che erano stati loro, gli oppositori, a scrivere lettere anonime e a farmi partire soltanto per poterli accusare di questa azione, che agli occhi di entrambe le parti contendenti era una grave mancanza alla ospitalità tradizionale di Grassano. In verità, a farmi trasferire credo non fossero stati né gli uni né gli altri: ma la polemica s'era invelenita, ed aveva contribuito ad accrescere la secolare riserva di odi e di rancori. A me queste cose non interessavano; volevo invece approfittare di quelle ore di luce che restavano per passeggiare un poco, e rivedere i luoghi cui mi ero affezionato. Uscii dunque, accompagnato da quel gruppo di giovani. Venendo da Gagliano, la gemella miseria di Grassano mi pareva quasi ricchezza, e la maggiore vivacità della gente, il diverso dialetto, con i suoi rapidi suoni pugliesi, mi davano l'impressione di essere quasi in una città piena di vita. Finalmente rivedevo dei negozi, anche se erano dei poveri stambugi mal provvisti di mercanzie; c'erano delle bancarelle di mercanti ambulanti, sulla piazza, davanti al palazzo del barone di Collefusco, che vendevano stoffe, lame da barba, anfore di terra, oggetti da cucina. C'era anche un carrettino di libri: gli stessi libri che avevo visti in mano al Capitano, ai ragazzi, ai contadini di qui: i Reali di Francia, le vite dei briganti, la storia di Corradino, degli almanacchi, dei lunari. Più in là c'era il caffè: un vero caffè, con un biliardo, e, allineate su uno scaffale, una serie di vecchie bottiglie di vetro fuso e formato, di quelle che sono ora così ricercate dai collezionisti, con le facce di Re Vittorio Emanuele II, di Garibaldi, della Regina Margherita, o con delle donne nude che reggono una palla, o con una mano che brandisce una pistola. Ma, fatti avanti e indietro quei duecento passi, fra l'albergo di Prisco e il caffè, si esaurisce tutta la vita mondana di Grassano. A destra e a sinistra, di sopra e di sotto, non c'è più altro che stradette, scalette e sentieri, fra le catapecchie allineate dei contadini. Queste sono ancora piú povere e squallide che quelle di Gagliano, le stanze sono più piccole, non ci sono orti vicino alle case, che si serrano l'una all'altra come per un pericolo mortale. Anche qui le capre e le pecore, più numerose che a Gagliano, saltano per le vie piene di spazzature; anche qui i bambini seminudi, pallidi e gonfi si rincorrono tra i rifiuti. Le donne non portano il velo, né il costume: ma anche qui i loro visi sono terrei, chiusi e animaleschi. Anche qui la pazienza e la rassegnazione stanno scritte sui volti degli uomini e sulla desolazione del paesaggio. Soltanto, per il maggior contatto col mondo di fuori, c'è nell'aria un piú vivo desiderio di evasione, sempre disilluso nella impossibilità della speranza. Risalii e ridiscesi, da solo, per le stradette conosciute, finché giunsi alla chiesa, nel vento, in cima al paese, per ridare uno sguardo a tutto l'orizzonte, che spazia immenso oltre i confini di Lucania. Di qua, ai miei piedi, le case del paese, con i loro tetti giallognoli, e poi la discesa ondulata e grigiastra del monte, fino al Basento, e, in faccia, le montagne di Accettura, da quelle più a valle che nascondono Ferrandina, alle Dolomiti di Pietra Pertosa, dietro cui si perde il greto del fiume. From here, at my feet, the houses of the village, with their yellowish roofs, and then the undulating and grayish descent of the mountain, up to the Basento, and, opposite, the mountains of Accettura, from those further downstream which hide Ferrandina , to the Dolomites of Pietra Pertosa, behind which the bed of the river disappears. Da tutti gli altri lati, il grande mare di terra informe, di là del Bilioso, delle grotte dei briganti e dei monachicchi, e di Irsina, irta su un colle ispido. On all the other sides, the great sea of shapeless earth, beyond the Bilioso, the caves of the brigands and the monks, and of Irsina, bristling on a shaggy hill. Paesi lontanissimi appaiono da ogni parte, come vele sperdute su questo mare, fin laggiù dove si intravede Salandra, e Banzi, dove si stenta a immaginare, in quella arsura, esistesse davvero un tempo la fresca fontana piú chiara del vetro, degna del vino e del capretto; altri, piú vicini, paiono navigare avvicinandosi al porto, fino a Grottole, là di faccia, dietro la cappella di sant'Antonio, e ai suoi due alberi sperduti nel deserto. Very distant countries appear from all sides, like sails lost on this sea, right down there where Salandra and Banzi can be glimpsed, where it is hard to imagine, in that drought, once upon a time there really existed the fresh fountain clearer than glass, worthy of wine and of the kid; others, closer, seem to be sailing as they approach the port, as far as Grottole, opposite, behind the chapel of Sant'Antonio, and its two masts lost in the desert. Questa sconfinata distesa monotona e ondulata, la si coltiva, da qualche anno, a grano: un povero grano che non ripaga la semente, le spese e la fatica. Quando l'avevo vista per la prima volta, l'estate, era il tempo della raccolta. Tutta la terra, d'ogni parte intorno, era gialla sotto il sole, e un canto di lontane trebbiatrici solcava solo il silenzio. Ora, tutto era grigio, non un colore turbava quella monotonia solitaria.

Rimasi a lungo lassù, finché cominciò ad imbrunire e a cadere qualche goccia di pioggia. Scesi in fretta all'albergo. C'era già parecchia gente che aspettava di mangiare, dei carrettieri di passaggio, dei mercanti ambulanti, e Pappone. Sulle voci di tutti, sentivo già dalla strada le urla pugliesi di Prisco, e le grida napoletane di Pappone, che, come sempre, fingevano per gioco di litigare. Pappone era un mercante di frutta di Bagnoli, che veniva spesso per affari a Grassano, dove ci sono delle ottime pere: l'avevo già conosciuto durante l'estate. Era un grande amico di Prisco, usavano ingiuriarsi continuamente in segno di affetto. Pappone gli gridava: - Strunzo galleggiante! - e Prisco gli replicava: - Co' a bannerola 'n coppa! fetente! - e, partiti di qui, continuavano a lungo a gran voce, minacciandosi con gli occhi e ridendo. Pappone era un ex frate, grasso, rotondo, ghiotto e, a modo suo, spiritosissimo. Aveva un'arte particolare, come cuoco; e si preparava da sé, mandando via dal fornello la signora Prisco, la salsa alla marinara per i maccheroni: me ne faceva sempre parte, ed era veramente la migliore che io abbia gustato mai. Anche maggiore era la sua arte di raccontare storie stravagantissime, accompagnandole con la mimica più espressiva. Ma, ahimè, le sue novelle erano tutte talmente salaci, pornografiche e fratesche, che non mi è davvero possibile riferirne nessuna: neppure quella che raccontò quella sera a tavola, e che, fra tutte quelle che gli avevo sentito narrare, era forse la più innocente.

Finalmente potevo mangiare in compagnia: questo mi rallegrava: mi pareva di essere di nuovo un uomo libero. Da quel tempo ho preso in uggia la solitudine a tavola, al punto di preferire un qualunque commensale sconosciuto all'esser solo. La cena, modestissima, mi pareva dunque deliziosa, e il racconto di Pappone assai più spiritoso delle piú celebrate, e noiosissime, novelle del Firenzuola. Noi mangiavamo, e Prisco ci teneva compagnia, in maniche di camicia, coi gomiti sulla tavola, tonante, elastico e sudato, con un bicchiere di vino. Entrò allora un nuovo commensale: un mercante di stoffe di Brindisi, che già conoscevo. Era un uomo enorme, grassissimo e grossissimo, con una faccia da orco, con un gran naso, grandi occhi, grandi orecchie, grandi labbra, e grandi guance che muoveva mangiando con un grande fracasso. Mangiava almeno come quattro cristiani messi insieme, anche perché si limitava a quel solo pasto serale, dopo aver passato tutto il giorno ad arringare le donne perché comprassero le sue stoffe. Malgrado le sue terribili ganasce, e il sudore che gli rigava il volto, e quel suo orrendo aspetto di gigante difforme, era un uomo gentile, e spiritoso quasi quanto il suo amico Pappone. Così, attorno al tavolo, tutti erano rumorosamente allegri. Il Capitano, suo fratello, e il loro amico Boccia, un giovanotto un po' deficiente per una malattia infantile, impiegato del municipio, stavano in un angolo della stanza, leggendo avidamente un vecchio numero della «Gazzetta dello Sport». L'orco di Brindisi non amava queste infatuazioni sportive, e attaccò subito direttamente, col suo vocione, il Capitano: - Capità! Ora non c'è più che lo sport! La guerra d'Africa, e lo sport! non si pensa ad altro. Ma che cos'è poi questo sport? - Il Capitano cercò la parata. - Carnera, - rispose, - è campione del mondo -. Il mercante si mise a ridere, facendo tremare i bicchieri sul tavolo. - Il vostro Carnera, - disse, - è come Garibaldi -. L'affermazione era così precisa che il Capitano non trovò risposta, e il gigante continuò: - Sono tutti trucchi. The statement was so precise that the Captain found no answer, and the giant continued: - They are all tricks. Carnera ha vinto perché era d'accordo prima. È proprio una specie di Garibaldi: la storia non cambia. Sui vostri libri di scuola vi insegnano un mucchio di frottole, ma la verità è un'altra. Quando Re Franceschiello dovette lasciare Napoli, e si ritirò a Gaeta, Garibaldi e i suoi amici con le camicie rosse venivano avanti all'attacco, tutti allegri e fieri e pieni di coraggio. Su dalle mura di Gaeta sparavano i cannoni; ma quelli non se ne davano per intesi; pareva andassero a nozze, con in testa la bandiera e la fanfara. Re Franceschiello, che vedeva da Gaeta che le cannonate non facevano effetto, pensò: «O quelli sono dei pazzi, o qui ci sta qualcosa di strano. Mo' mi ci voglio provar io a tirare una cannonata». Detto fatto. Fece pigliare una bella palla, la fece mettere nel pezzo, e lui stesso, il Re, sparò. Bum! Quando videro cadere la palla, Garibaldi e le sue camicie rosse non ne aspettarono una seconda, e se la diedero a gambe. Perché i colpi di prima erano tutti a polvere: Garibaldi si era messo d'accordo, come Carnera. Quando il Re tirò la cannonata vera, Garibaldi disse: «Qua a Gaeta non va più bene. Ragazzi, andiamo a Teano!» E così andò a Teano.

Pappone, Prisco, i carrettieri, i mercanti, tutti risero; Garibaldi non è popolare quaggiù; e la gloria di Carnera fu definitivamente sepolta. Anche il Capitano dovette riconoscersi sconfitto; soltanto Boccia, che per la meningite sofferta non era in grado di afferrare in fretta gli argomenti, rimase imperturbabile. Appunto per questo suo difetto, gli avevano dato quel posto in municipio, che consisteva nel tenere in ordine delle carte, e fare un po' da messo e da fattorino: i minorati, quaggiù, sono molto ben visti, e protetti dalla popolazione. Del resto, come succede spesso in casi simili, se Boccia era un po' lento d'ingegno, aveva una memoria di ferro, che si limitava però agli oggetti delle sue passioni dominanti. Queste erano due: lo sport e il diritto. Egli sapeva a memoria i nomi di tutti i componenti le squadre di calcio di tutta Italia negli ultimi anni, e usava recitarmeli, come litanie, con gli occhi brillanti di piacere. Ma l'altra sua passione era ancora più vivace. Il diritto, gli avvocati, le cause in tribunale lo colmavano di estasi e di delizia. Sapeva a memoria i nomi di tutti gli avvocati della provincia, e brani delle loro cause più celebri; e in questo non era il solo, perché l'amore per l'oratoria forense è quaggiù abbastanza generale. Ma un fatto accaduto due o tre anni prima era diventato l'avvenimento più importante e beatificante della sua vita. Per qualche causetta di confini, una sezione distaccata di pretura aveva tenuto una udienza proprio qui a Grassano, e c'era venuto a parlare il più grande avvocato di Matera, il famoso avvocato Latronico. L'arringa di Latronico, Boccia la sapeva a mente intera: e non passava giorno che non la ripetesse, accendendosi di ammirazione nei passi più emozionanti. - Lupi di Accettura, cani di San Mauro, corvi di Tricarico, volpi di Grottole e rospi di Garaguso! - aveva detto Latronico nella sua perorazione. A Boccia questo pareva il più alto volo dell'oratoria universale. - Rospi di Garaguso! - andava ripetendo con compunzione e con enfasi, secondo l'umore del giorno; - proprio così, rospi di Garaguso, perché stanno vicino all'acqua, sopra il pantano. Che discorso! A tavola, oltre ai maccheroni con la salsa di Pappone, c'era del prosciutto, magro, saporito, tagliato a grosse fette, di un sapore assai diverso dai nostri prosciutti del nord, che io trovavo eccellente. Ne feci le lodi con Prisco, che mi disse che quello era prosciutto di montagna, che egli stesso andava a cercarlo dai contadini dei paesetti più alti e lontani. Erano prosciutti piccolissimi, e costavano quattro lire al chilo. Quando dissi a Prisco che in città lo si pagava almeno cinque volte tanto, il suo spirito vivace immaginò subito un affare. Mi propose, se avevo degli amici che si potessero incaricare della vendita, di fare una società, lui e io, per il commercio dei prosciutti. Egli si sarebbe occupato di andare in giro per i monti a incettarli, io, attraverso i miei corrispondenti, di venderli. Se ne sarebbero potute trovare delle quantità discrete, e, forse, negli anni venturi, si sarebbe potuta fare aumentare la produzione. Io non ho alcuno spirito commerciale, e forse appunto per questo la proposta mi parve bellissima. Risposi che, poiché si parlava di Garibaldi, avrei potuto fare come lui, che, in circostanze abbastanza analoghe alle mie, si era messo a vender candele; che fra le candele e i prosciutti non vedevo molta differenza, e avrei veduto di occuparmene. Spinto dal calore della novità, scrissi a un amico, esportatore e commerciante delle cose più diverse nei più strani paesi del mondo. Dopo parecchio tempo ebbi la risposta che i prosciutti non lo interessavano; che, per quanto ottimi, erano di una qualità diversa da quella a cui il pubblico era abituato, che si sarebbe dovuta creare una organizzazione di vendita sproporzionata alla piccola quantità della merce; e che vedessi invece se si poteva trovare della ginestra che, in quei tempi di autarchia, era molto ricercata. After a long time I got the answer that hams did not interest him; that, although excellent, they were of a different quality from that to which the public was accustomed, that a sales organization would have to be created out of proportion to the small quantity of goods; and that I would see instead if you could find some broom which, in those times of autarchy, was much sought after. La ginestra è il solo fiore di questi deserti, cresce dappertutto in cespugli aridi, pasto delle capre. Ma i miei entusiasmi di commercio lucano si erano ormai raffreddati, e la cosa non ebbe seguito.

Quella prima sera di compagnia, tra i progetti di affari, le storielle allegre e la critica storica garibaldina, passò presto. L'orco di Brindisi si ritirò a dormire sul suo camioncino, per meglio sorvegliare che non gli rubassero le stoffe durante la notte; i carrettieri partirono, nel buio, per Tricarico, e Pappone ed io restammo i soli ospiti di Prisco; perciò potemmo avere ciascuno una camera, senza doverla, per quella notte, spartire con altri. Volevo alzarmi presto, l'indomani. Avevo progettato di scendere in basso, fin quasi al Basento, per dipingere Grassano come l'avevo vista di laggiù, dalla stazione, alta sul cielo come una città d'aria. Antonino, saputa la mia intenzione, mi aveva proposto di accompagnarmi: all'alba mi aspettava alla porta, con un mulo per portare le tele e il cavalletto, e un gruppo di amici che volevano tutti venire con me. C'era Riccardo, c'era Carmelo, il manovale ciclista dei monachicchi, un falegname, un sarto, due contadini e due o tre ragazzi. Il tempo era grigio, soffiava il vento, ma si poteva sperare che non sarebbe venuta la pioggia. In quella luce diffusa e fredda delle nuvole, le cose apparivano più rilevate, e forse meno tristi nella loro monotonia che sotto la vampa crudele del sole: era il tempo che preferivo per il mio quadro. Il figlio minore di Prisco si unì a noi. Il Capitano ci salutò dall'uscio: la strada era troppo lunga per la sua gamba zoppa. Con Barone in testa, saltellante staffetta, cominciammo la discesa, per il sentiero ripido che, evitando le curve e le giravolte della strada, arriva, in otto o dieci chilometri, al fondo della valle. Per quella stessa strada, e quasi con la stessa compagnia, ero sceso, un giorno d'agosto, a fare un bagno nel Basento, in un angolo isolato del fiume, dove l'acqua ristagna in una pozza, tra pochi alberi di pioppo, che sembrano stranamente appartenere a un altro paesaggio, piovuti a radicarsi qui per bizzarria. Tutti nudi, nell'aria torrida del pomeriggio canicolare, c'eravamo tuffati nel fiume: i miei compagni cercavano con le mani i pesci, rintanati nelle buche, nel fango della proda; e ne presero parecchi, con quella tecnica rudimentale. È proibito pescare in questi fiumi perché i pesci dovrebbero distruggere le larve delle zanzare: ma nessuno bada al divieto: c'è così poco da mangiare, tutto l'anno, per i poveri di Grassano, che un piatto di pesci pare un dono del cielo. Ci eravamo poi asciugati al sole, tra lo stridore delle cicale e il fischiare delle zanzare, nel riverbero torrido delle argille. Ora invece l'aria era fresca: ma il paesaggio non era cambiato: soltanto, di giallastro, s'era fatto grigiastro. Giungemmo a un posto che mi pareva adatto al mio lavoro, e qui mi fermai. Rimase con me Antonino, che teneva al privilegio di porgermi i tubi di colore a mano a mano che mi abbisognavano, e un ragazzo per guardare il mulo che brucava le stoppie. Gli altri scesero fino al fiume, sperando in una pesca miracolosa, e io mi misi a dipingere. Il paesaggio, di qui, era il meno pittoresco che avessi veduto mai: per questo mi piaceva moltissimo. The landscape from here was the least picturesque I had ever seen, which is why I liked it very much. Non c'era un albero, una siepe, una roccia atteggiata come un gesto fermo. Non ci sono gesti, quaggiù, né l'amabile retorica della natura generante o del lavoro umano. Soltanto una distesa uniforme di terra abbandonata, e in alto il paese bianco. Sul cielo grigio, una piccola nuvola bassa, sopra le case, aveva la vaga forma di un angelo.

I miei compagni tornarono dal fiume a mani vuote. Si misero attorno alla mia tela meravigliati di vedere Grassano, nato così dal nulla. Avevo sempre visto che, poiché non hanno i pregiudizi della mezza cultura, i contadini sono, in generale, capaci di vedere la pittura: avevo l'abitudine di chiedere il loro parere sulle cose che avevo fatto. Mentre continuavo a lavorare, gli amici accesero un fuoco, per far scaldare le provviste che avevano portato, e si mangiò, lì, seduti in terra, guardando il mio quadro sul cavalletto, a cui avevamo legato delle grosse pietre perché il vento non lo portasse via. Dopo mangiato, cominciò a piovere, e non ci restò che tornare. Il quadro era ormai pressoché finito, lo si caricò sul mulo, avvolto in una coperta, e sotto la pioggia leggera ci mettemmo in cammino.