5. DISCIPLINA AUGUSTA (5)
Serviano viveva ancora; quella longevità aveva l'aria d'un lungo calcolo, da parte sua, d'una forma ostinata d'attesa. Da sessant'anni attendeva. Dal tempo di Nerva, l'adozione di Traiano l'aveva incoraggiato e, al tempo stesso, deluso; sperava di meglio; ma l'avvento al potere di quel cugino senza tregua preso dalle armi sembrava assicurargli un posto considerevole nello Stato, forse il secondo. Anche in questo, si sbagliava: non aveva ottenuto che una parte insignificante d'onori. Attendeva, dall'epoca in cui aveva incaricato i suoi schiavi di aggredirmi a una svolta, in un bosco di pioppi, lungo le rive della Mosella: il duello mortale iniziato quella mattina tra un giovane e un cinquantenne era continuato per vent'anni: era stato lui a seminare il malanimo contro di me nel padrone, aveva esagerato le mie sregolatezze, aveva profittato dei miei minimi errori. Un nemico simile è un maestro insigne di prudenza: a conti fatti, Serviano m'aveva insegnato molto. Dopo la mia accessione al trono, era stato così scaltro da aver l'aria d'accettare l'inevitabile; del complotto dei quattro consolari, se n'era lavato le mani, e io avevo preferito non accorgermi delle macchie su quelle dita ancora sporche. Da parte sua, s'era contentato di protestare solo a bassa voce, di scandalizzarsi solo a porte chiuse. Sostenuto in Senato dall'esiguo e potente partito di conservatori inamovibili che disturbavano le mie riforme, s'era comodamente insediato in quel ruolo di critico silenzioso del regno. Poco a poco, m'aveva alienato mia sorella Paolina. Non aveva avuto che una figlia da lei, sposata a un certo Salinatore, un giovane di buona famiglia, che elevai alla dignità consolare, ma che la tisi rapì presto; mia nipote gli sopravvisse per poco, e il loro unico figlio, Fusco, mi fu aizzato contro dall'avo perverso. Ma l'odio che regnava tra noi conservava le forme: non gli lesinavo la sua parte d'incarichi pubblici, pur evitando di apparire al suo fianco in quelle cerimonie nelle quali l'età avanzata gli avrebbe concesso la precedenza sull'imperatore. Ogni volta che facevo ritorno a Roma, consentivo per convenienza ad assistere a uno di quei pranzi di famiglia nei quali si sta in guardia; ci scambiavamo lettere; anzi, le sue non erano prive d'un certo spirito. Tuttavia, a lungo andare quell'insulsa ipocrisia mi venne a noia; uno dei pochi vantaggi che riconosco al fatto d'invecchiare consiste nella possibilità di gettar la maschera in ogni cosa: rifiutai di assistere alle esequie di Paolina. Al campo di Betar, nei momenti peggiori di spossatezza, di sconforto, l'amarezza suprema era stata il ripetermi che ormai Serviano giungeva alla meta, e per colpa mia; quell'ottuagenario così avaro delle sue forze sarebbe riuscito a sopravvivere a un malato di cinquantasette anni; se morivo "ab intestato", avrebbe saputo ottenere i suffragi dei malcontenti nonché l'approvazione di coloro che avrebbero creduto di restarmi fedeli eleggendo mio cognato; avrebbe profittato di quella tenue parentela per minare la mia opera. Per calmarmi, mi dicevo che l'impero potrebbe trovare padroni peggiori; Serviano, in fin dei conti, non era del tutto privo di virtù; e chissà che anche il torpido Fusco un giorno non sarebbe stato degno di regnare. Ma tutto quel che mi restava d'energia respingeva quella menzogna; mi auguravo di vivere per schiacciare quella vipera.
Al mio ritorno a Roma, avevo ritrovato Lucio. Un tempo, avevo assunto verso di lui qualche impegno di quelli che generalmente non ci si preoccupa affatto di mantenere, ma ch'io avevo rispettati. Del resto, non è affatto vero che gli avessi promesso la porpora imperiale; son cose che non si promettono. Ma per una quindicina d'anni avevo pagato i suoi debiti, soffocato i suoi scandali, risposto senza indugio alle sue lettere, che erano deliziose, ma che finivano sempre con qualche richiesta di danaro per lui o di avanzamento per i suoi favoriti. Era legato troppo intimamente alla mia vita per potervelo escludere, qualora l'avessi voluto: ma non volevo niente di simile. Aveva una conversazione scintillante - quel giovane, che ritenevano frivolo, aveva fatto letture più scelte e più vaste dei letterati di mestiere. Era d'un gusto squisito in qualsiasi campo, si trattasse d'esseri umani, oggetti, usanze o della prosodia esatta d'un verso greco. Al Senato lo giudicavano abile, e s'era fatta una reputazione di prim'ordine come oratore: i suoi discorsi stringati e ricchi a un tempo servivano, così com'egli li pronunciava, di modello ai maestri d'eloquenza. L'avevo fatto nominare pretore, poi console; aveva esercitato queste funzioni con decoro. Pochi anni prima, gli avevo fatto sposare la figlia di Nigrino, uno dei consolari giustiziati all'inizio del mio regno; quell'unione divenne l'emblema della mia politica di pace. La giovane donna non fu troppo felice, si lamentava d'essere negletta; eppure, aveva avuto tre figli da lui, di cui uno maschio. Alle sue lagnanze quasi continue, egli rispondeva con cortesia glaciale che ci si sposa per la famiglia e non per sé, e che un contratto così grave non contempla i giochi spensierati dell'amore. Il suo modo di vivere esigeva delle amanti per farne mostra, e facili schiave per la voluttà. Si estenuava nel piacere, ma così come un artista si sfibra per realizzare un capolavoro: non sta a me rimproverarlo.
Lo guardavo vivere. La mia opinione su di lui si modificava senza posa, il che accade solo per gli esseri che ci toccano da vicino: gli altri, ci contentiamo di giudicarli alla grossa, e una volta per tutte. A volte, mi turbavano in lui un'insolenza deliberata, una durezza, una frase scioccamente frivola; in genere, mi lasciavo trascinare da quello spirito gaio e leggero; un'osservazione tagliente pareva far presentire d'un tratto il futuro statista. Ne parlai a Marcio Turbo, il quale, dopo la sua faticosa giornata di prefetto del pretorio, veniva ogni sera a conversare con me degli avvenimenti del giorno e a disputare una partita ai dadi; prendevamo in esame minuziosamente le probabilità che Lucio aveva di adempiere con decoro ai doveri imperiali. I miei amici si meravigliavano dei miei scrupoli; c'era chi, scrollando le spalle, mi consigliava di fare a mio modo: quei tipi lì s'immaginano che si lasci a qualcuno la metà del mondo come gli si lascerebbe una casa di campagna. La notte, ci ripensavo: Lucio aveva appena trent'anni: che cos'era Cesare a trent'anni, se non un figlio di famiglia oberato di debiti, segnato a dito per gli scandali? Come durante i tristi giorni di Antiochia, prima della mia adozione da parte di Traiano, pensavo con una fitta al cuore che non c'è nulla tanto lento quanto la vera nascita d'un uomo: io stesso, avevo passato i trent'anni all'epoca in cui la campagna di Pannonia m'aveva aperto gli occhi sulle responsabilità del potere; a volte, Lucio mi sembrava più maturo di quel che non fossi io a quell'età. Mi risolsi bruscamente, in seguito a una crisi d'asfissia più grave delle altre, che sopravvenne a rammentarmi che non avevo più tempo da perdere. Adottai Lucio, il quale prese il nome di Elio Cesare. Era ambizioso, ma con noncuranza; era esigente senz'essere avido: da troppo tempo aveva l'abitudine di ottenere ogni cosa; e accettò la mia decisione con disinvoltura.
Commisi l'imprudenza di dire che quel principe biondo sarebbe stato radioso sotto la porpora, e i malevoli si affrettarono a dichiarare che compensavo con un impero l'intimità voluttuosa d'un tempo: significava non comprender come funziona lo spirito d'un capo, per poco che meriti il titolo e il posto. Se considerazioni del genere avessero avuto il loro peso, non sarebbe stato Lucio il solo sul quale avrei potuto far cadere la scelta.
Mia moglie era morta in quei giorni nella sua residenza al Palatino, ch'ella continuava a preferire a Tivoli, dove abitava circondata da una angusta corte di amici e parenti spagnoli, i soli che contavano per lei. A poco a poco, erano cessati tra noi i riguardi, le convenienze, le fragili velleità d'intesa, lasciando a nudo l'antipatia, l'astio, il rancore, e, da parte sua, l'odio. Negli ultimi tempi, le feci visita; la malattia aveva inasprito ulteriormente il suo carattere acre e tetro: quell'incontro le fornì l'occasione per recriminazioni violente, che la sollevarono, e alle quali ebbe l'indiscrezione di abbandonarsi davanti a testimoni. Disse che si rallegrava di morire senza figli: i miei figli mi avrebbero rassomigliato senza dubbio, ed ella avrebbe provato per loro la stessa avversione che provava per me. Questa frase, nella quale fermenta tanto rancore, è la sola prova d'amore che ella m'abbia dato. La mia Sabina: rievocavo i soli ricordi tollerabili che sempre sussistono d'un essere, quando ci si prende la pena di cercarli; rammentai una cesta di frutta che m'aveva inviata una volta, il giorno del mio anniversario, dopo una lite; passando in lettiga nelle anguste viuzze del municipio di Tivoli, davanti alla modesta casa da villeggiatura che un tempo apparteneva a mia suocera Matidia, evocavo con amarezza le notti d'un'estate lontana, quando avevo invano cercato di trovare il piacere in quella sposa frigida e dura. La morte di mia moglie mi turbò assai meno di quella della buona Areté, la direttrice della Villa, rapita l'inverno medesimo da un attacco di febbri. Dato che il male che uccise l'imperatrice, mal diagnosticato dai medici, le procurò verso la fine atroci dolori viscerali, mi si accusò di veneficio, e questa voce insensata trovò facilmente credito. Inutile dire che un delitto così superfluo non m'aveva tentato mai.
Forse fu la morte di mia moglie, che indusse Serviano a tentare il tutto per tutto. L'ascendente di cui ella godeva a Roma gli era saldamente favorevole: crollava con lei uno dei suoi sostegni più rispettati. Per di più, era entrato allora nel novantesimo anno d'età; non aveva tempo da perdere, neanche lui. Si sforzava, da qualche mese, di attirare presso di sé piccoli gruppi di ufficiali della guardia pretoriana; a volte, osò sfruttare quel rispetto superstizioso che ispira l'estrema vecchiezza per farsi trattare da imperatore, tra quattro mura. Io, di recente, avevo rafforzato la polizia segreta militare, un'istituzione ripugnante, lo ammetto, ma che gli eventi dimostrarono utile. Non ignoravo nulla di quei conciliaboli segreti nei quali il vecchio Ursus insegnava al nipote l'arte dei complotti. L'adozione di Lucio non sorprese il vegliardo: da tempo riteneva le mie esitazioni in proposito una decisione ben dissimulata; ma profittò per agire del momento in cui l'atto d'adozione era ancora a Roma una materia controversa. Il suo segretario Crescente, stanco di quarant'anni di fedeltà mal retribuita, palesò il suo progetto, la data del colpo, il luogo, il nome dei complici. L'immaginazione dei miei nemici non s'era data molta pena; si contentavano di copiare semplicemente l'attentato meditato un tempo da Quieto e Nigrino; avrei dovuto essere trucidato durante una cerimonia religiosa in Campidoglio; e il mio figlio adottivo sarebbe caduto con me.
La notte stessa, presi le mie precauzioni: il nostro nemico aveva vissuto fin troppo; avrei lasciato a Lucio un'eredità scevra di pericoli. Verso la dodicesima ora, in un'alba grigia di febbraio, si presentò in casa di mio cognato un tribuno che recava una sentenza di morte per Serviano e per suo nipote; gli era stato comandato di attendere nel vestibolo che l'ordine che lo conduceva fin lì fosse compiuto. Serviano fece chiamare il suo medico: tutto si svolse semplicemente. Prima di morire, m'augurò di spirare lentamente, fra i tormenti d'un male incurabile, senza avere come lui il privilegio d'una breve agonia. Il suo voto è già stato esaudito.
Non avevo ordinato alla leggera quella duplice esecuzione; in seguito, non ne provai alcun rimpianto, e ancor meno rimorsi. Si saldava così un vecchio conto: ecco tutto. La vecchiaia non m'è mai sembrata una scusante alla perfidia umana; anzi, son più disposto a considerarla una circostanza aggravante. La sentenza di Akiba e dei suoi accoliti m'aveva fatto esitare più a lungo: vegliardo per vegliardo, preferivo ancora il fanatico al cospiratore. Quanto a Fusco, benché mediocre, e totalmente alienatomi dal suo odioso avo, era pur sempre il nipote di Paolina. Ma i legami del sangue sono molto deboli, checché se ne dica, quando non c'è un affetto a rinsaldarli; lo si può constatare presso i privati, durante le più banali questioni ereditarie. M'impietosiva un poco di più l'età giovanile di Fusco; aveva diciott'anni appena. Ma l'interesse di Stato esigeva quella soluzione, che il vecchio Ursus s'era quasi preso il gusto di rendere inevitabile. E, ormai, ero troppo vicino alla mia morte per aver tempo di meditare su quella duplice fine.
Per qualche giorno, Marcio Turbo raddoppiò la vigilanza intorno a me; gli amici di Serviano avrebbero potuto vendicarlo. Ma non avvenne nulla, né attentati, né sedizioni, né mormorii. Non ero più il nuovo venuto che cercava di attirar dalla sua l'opinione pubblica dopo l'esecuzione di quattro consolari; pesavano in mio favore diciott'anni di giustizia; i miei nemici erano esecrati in blocco; la folla mi approvò per essermi sbarazzato d'un traditore. Fusco fu compianto, senza del resto essere giudicato innocente. Il Senato, lo so bene, non mi perdonava d'aver colpito ancora una volta uno dei suoi membri; ma tacque, e tacerà fino alla mia morte. Com'era avvenuto l'altra volta, una buona dose di clemenza mitigò presto quella dose di rigore; nessuno dei sostenitori di Serviano ebbe la minima molestia. La sola eccezione a questa regola fu l'insigne Apollodoro, astioso depositario dei segreti di mio cognato, il quale perì con lui. Quell'uomo di talento era stato l'architetto prediletto del mio predecessore; aveva disposto con arte i grandi blocchi della Colonna Traiana. Non c'era molta simpatia tra di noi: un tempo, aveva deriso i miei maldestri tentativi da dilettante, le mie coscienziose nature morte di zucche e cetrioli; da parte mia, avevo criticato le sue opere con la presunzione dei giovani. Più tardi, egli aveva denigrato le mie; non conosceva l'arte greca della grande epoca, e mi rimproverava d'aver popolato i nostri templi di statue colossali che, se si fossero alzate in piedi, avrebbero spezzato con la fronte la volta dei santuari: critica sciocca, che colpisce Fidia ancora più di me. Ma gli déi non si alzano in piedi: non si alzano né per avvertirci, né per proteggerci, né per ricompensarci, né per punirci. Non si levarono quella notte per salvare Apollodoro.